Trent’anni fa, quando proposi sulla rivista “Alp” sessantotto pagine dedicate al Sessantotto dell’alpinismo, fui criticato da Andrea Gobetti per la scelta del sottotitolo: «Il Sessantotto non c’entra niente con l’alpinismo – disse Andrea –, il Nuovo Mattino viene semmai da Woodstock, non dal Maggio parigino. Gian Piero Motti aveva in mente Bob Dylan e non il Movimento studentesco». In realtà bastava intendersi sulle parole (Sessantotto era già un termine inflazionato e dai significati ambigui), perché la discussione sulla paternità del Sessantotto inciampava su un equivoco di fondo che poteva essere chiarito solo se si affrontava la bivalenza della contestazione giovanile. Come aveva scritto Piero Verni nel 1998 su “Re nudo”, «dovrebbe essere ormai chiaro che quella stagione ormai (ahimè) lontana non fu una “cosa” sola, ma dieci, cento, mille tutte insieme. Rappresentò – è il caso di ripeterlo? – un amalgama confuso e contraddittorio di pulsioni liberatorie, romantiche, ideologiche, massimaliste, ottocentesche, spirituali, politiche, erotiche, un patchwork dirompente ed esplosivo… Accanto al ’68 politico, che divenne in breve tempo largamente maggioritario, ne esisteva un altro, più interiore, individuale, “privato” lo si sarebbe chiamato un decennio più tardi. Questo “altro ’68” era composto da giovani che guardavano a Gandhi più che al Che, ai poeti beat più che a Mao, al flower power più che alla lotta di classe, che si sentivano più ribelli che rivoluzionari, che erano attratti più dalla nonviolenza che non dalla guerriglia. Questo universo giovanile esprimeva un rifiuto della vecchia società forse ancora più radicale di quello dei coetanei che occupavano le università. E la voglia di un altrove che fosse veramente “assoluto” portò questa frangia di giovani a spaziare con lo sguardo su orizzonti molto più distanti di quanto non fossero quelli della mitologia rivoluzionaria».
Questa è l’esatta collocazione del Nuovo Mattino: la new age degli alpinisti, un viaggio verso monti nuovi. Sulle pareti di granito eternamente baciate dal sole e folgorate da lampi psichedelici gli alpinisti cercavano il loro altrove, l’Oriente, Shangri-La, il nirvana. Ripudiavano la vecchia società alpinistica con gli indigesti riti da caserma e sacrestia, rifiutavano gli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, il mito-espiazione delle cime piene di croci, gli abiti grigi della festa, le gerarchie, i distintivi, le accademie, gli uffici dei morti, provando a sostituirvi vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altipiani, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi dolci: Itaca nel sole, Sole nascente, Luna nascente, Il lungo cammino dei Comanches, via della Rivoluzione. Nell’ottobre del 1973 Galante e Grassi salivano la fessura centrale del Sergent e la chiamavano Cannabis, il nome scientifico della marijuana. Il sacrilegio era compiuto, come aveva anticipato il “vecchio” Livanos:
«Non contents de faire de la gymnastique sur le murs de la cathédral… ils en saccagent les sculptures».
Erano sparuti gruppi di ribelli. Definirli comunità sarebbe eccessivo. Gobetti chiamò quelli di Torino “il Mucchio Selvaggio”, dal film culto di Sam Peckinpah. Prima i torinesi, poi quelli di Sondrio, l’Ivan Guerini di Milano, l’avanguardia triestina, i pacifici arrampicatori di Reggio Emilia e i gioviali climber di Roma e dintorni.
È stata chiamata la rivoluzione dell’arrampicata, ma forse sarebbe preferibile il termine “rinascimento”, e in tal caso la definizione implica una decadenza dell’alpinismo precedente. Per capire la rivolta bisogna partire da quello che c’era prima. «L’ambiente alpinistico era quanto di più retrivo e ottusamente conservatore si possa pensare – ha testimoniato Massimo Demichela, torinese, classe 1954 –. La scuola Gervasutti di Torino ne era un esempio emblematico: si rasentava l’idiozia… Vigevano regole assolute: l’alpinismo è solo questo, il resto è merda; le scarpe da usare sono queste, il resto è merda. Alcune persone ebbero un moto di ribellione verso questa muffa, una ribellione più o meno cosciente e politicizzata, portata avanti più a livello personale che nella scia di una corrente di pensiero. Nella realtà si trattava forse di rivendicazioni minime, ma era comunque difficile ottenerle. Molto difficile».
L’alpinismo italiano affondava radici nella Grande Guerra. Era ancora inchiodato a una cultura maschilista e autoritaria della montagna che dopo la carneficina del Quindicidiciotto era passata attraverso la retorica del fascismo, la glorificazione dell’eroe, il nazionalismo delle spedizioni extraeuropee, la battaglia per gli ottomila himalayani e gli eroismi verticali del secondo dopoguerra. Sulle cime sventolavano le bandiere e s’innalzavano le croci, immarcescibili simboli di conquista e sacrificio. All’Italia e alla Germania, i paesi alpini segnati dal giogo delle dittature, non erano bastate l’antiretorica della Resistenza, la pace, la ricostruzione e la prosperità economica per liberarsi dal pesante passato.
Il Nuovo Nattino inizia con il vento dell’Ovest: non l’impetuoso vento dell’oceano, ma la frizzante brezza d’oltralpe. Nei primi anni Settanta Gian Piero Motti guida i giovani sulle pareti calcaree delle Prealpi francesi, oltre il Colle del Monginevro, dove i torinesi vivono grandi esperienze su piccole cime e fanno le prime scalate senza cima; finché un giorno, risalendo i soliti tornanti di Ceresole in Valle dell’Orco, Motti dice ai suoi compagni: «Ecco i nuovi orizzonti». Poi scrive: «È vero, ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e pianeggiante altipiano. Ma quando sei impegnato in parete, vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sul Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più fini e profonde». E aggiunge: »Se qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi…» (La parete di Balma Fiorant, Scàndere 1974).
Naturalmente Motti sapeva benissimo che cos’era l’alpinismo, perché era uno dei più colti figli della cultura alpinistica, ma non sopportava nessuna definizione dogmatica e seguiva un proprio sentiero di libertà. Non voleva imporre una nuova etica, ma superare le vecchie etiche. Non cercava il confronto con il passato, gli interessava il futuro. Non voleva neanche rinunciare all’alta montagna, che amava e desiderava ancora profondamente, ma la corsa sulle grandi pareti si era caricata di angosce e lui aveva giurato di ritornarvi solo quando si fosse sentito libero e leggero. Questa era l’utopia del Nuovo Mattino.
Per ragioni storiche e sociali la ribellione si è manifestata sulla linea Torino-Milano-Sondrio e si è espressa sulle pareti inesplorate della Valle dell’Orco e della Val di Mello, vicino alle grandi città industriali. Dove era scoppiata la contestazione studentesca nacque anche la contestazione alpinistica. Inoltre ci fu una seconda ragione di ordine estetico e filosofico, perché lo gneiss del Gran Paradiso e il ghiandone del Masino riverberavano l’immagine granitica delle big wall californiane, le gesta degli arrampicatori hippies, la vita in parete, il sogno americano. Nelle due valli delle nostre Alpi c’erano pareti sufficientemente severe per vivere delle belle avventure sognando Yosemite e sufficientemente dolci per non soffrire il freddo e la solitudine. Nessuno aveva più voglia di soffrire.
Il Nuovo Mattino ha avuto una sponda importante tra le montagne valtellinesi, nell’incantevole Val di Mello, laterale della Val Masino, su un granito più gentile dello gneiss dell’Orco e su pareti ancora più alte e selvagge, con placche senza respiro. All’ombra del Pizzo Badile, esplorando salti senza cima e precipizi senza nome, i giovani ribelli lombardi hanno scoperto vie di pietra come Il risveglio di Kundalini, Alba del nirvana e Nuova dimensione.
Dopo l’infelice battuta volata a un convegno di alpinisti, i ragazzi di Sondrio hanno accettato di farsi chiamare “sassisti”, pavoneggiandosi del termine dispregiativo.
«Siete solo dei sassisti!», li avevano accusati quelli con la patacca.
«Lo siamo e ce ne vantiamo. Per questo scaliamo meglio di voi.»
Poi c’erano i milanesi, e c’era soprattutto il carismatico Ivan Guerini che aveva portato strane idee, insegnando ai valtellinesi che si poteva scalare un masso per il piacere di giocare, senza fini di allenamento, e che scordandosi la prestazione ci si divertiva di più e si arrampicava molto meglio. Ivan aveva una baita in Val di Mello e le leggende narravano che passasse le estati a prendere il sole, fare l’amore e arrampicare. In realtà Ivan abitava con la nonna, scalava, leggeva Kerouac e Motti. Era amico-rivale dei Sassisti, comunque condivide la filosofia.
«Una notte d’agosto del 1975 – racconta la guida della Val di Mello – Ivan Guerini, disteso in un prato nei pressi del Gatto Rosso, contemplava le stelle. Era la notte di San Lorenzo, la notte dei desideri e brucianti meteoriti sparivano nell’esosfera, dietro la massa oscura della grande parete. Quella sera ad Ivan, successivamente soprannominato “Il Sognatore”, sorse il desiderio di andare a vedere dove le meteoriti andavano a cadere e affibbiò alla parete l’astronomico nome di Precipizio degli Asteroidi». Così nell’estate del 1977 nasce la famosa via dell’Oceano irrazionale, uno dei primi settimi gradi.
Ma torniamo in Valle dell’Orco. Ho avuto la fortuna di ripetere le vie del Caporal, del Sergent e di Aimonin poche stagioni dopo la loro apertura e ricordo che ci avvicinavamo alle pareti come a un castello incantato, custodendo gelosamente nella tasca dei pantaloni il disegno schizzato da Motti su un foglietto di block notes. «Sembra tagliata dalla spada di un ciclope» mi aveva detto per descrivere la fessura verticale sul fantastico spigolo della Torre di Aimonin. Erano autentiche avventure, le nostre, viaggi fuori dal tempo, erano traversate di rocce misteriose e selvagge, quasi mitologiche, nonostante la vicinanza alla civiltà.
Il mistero e l’avventura sono stati i due ingredienti fondamentali del Nuovo Mattino, in totale antitesi con i successivi sviluppi dell’arrampicata sportiva. Poi ci sono stati indubbiamente i risultati atletici dovuti a una visione più rilassata della montagna e i risultati tecnici favoriti dalle scarpette a suola liscia e dai materiali di derivazione anglosassone: i nut, innanzitutto, che univano vantaggi pratici e motivazioni ecologiche; poi le scalette di fettuccia, i chiodi americani, eccetera.
I jeans e la fascia nei capelli non erano l’unico simbolo di trasgressione; si trasgrediva di più con le dimenticanze: il casco lasciato a bella posta sul sedile dell’automobile o lo zaino abbandonato come una zavorra ai piedi della parete. «Lo zaino è la casa dell’alpinista» dicevano i vecchi, dunque restava giù. Velocità e leggerezza erano i nuovi segni di elezione, e allora si andava via in maglietta con una giacchina legata in vita «che tanto i bivacchi son fatti per chi non sa arrampicare…». Almeno fino al 1977 tutto si è mantenuto nei territori della clandestinità, sia nei confronti del mondo alpinistico tradizionale sia, e soprattutto, rispetto al mondo esterno. Ciò che oggi è moda acquisita passava per roba da svitati. Lo zaino a scuola era un simbolo quasi sovversivo e i duvet erano ben lontani dal suscitare invidie borghesi.
I ragazzi del Nuovo Mattino cercavano un luogo diverso ma non nemico della città, una verità complementare ma non conflittuale all’esperienza urbana. Come gli altri giovani ascoltavano Dylan e la musica rock, come molti coetanei erano inquieti, fantasiosi e utopisti. Odiavano le ipocrisie democristiane e respingevano i tabù della tradizione. Cantavano Dylan e Guccini, sbadigliavano con i cori alpini. Posavano i vecchi scarponi della naja e scalavano con le Superga. Non frequentavano le notti delle partenze, preferivano quelle dei ritorni. Se le scuole insegnavano che la montagna è una maestra severa, loro cercavano di farsela un po’ amica.
Questo era il Nuovo Mattino.
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