Secondo l’etnologo Arnold Niederer “l’alpeggio riveste per il montanaro la stessa importanza del mare per il marinaio”. I pascoli sono il mare delle Alpi. L’alpeggio fornisce gli unici frutti certi di sostentamento – latte, burro e formaggi – e i tempi dell’alpe scandiscono la vita del valligiano: salita primaverile degli uomini e degli animali, permanenza estiva in quota alla ricerca dell’erba migliore, discesa autunnale, lungo “letargo” invernale in valle nell’attesa di una nuova estate. E’ il ritmo biologico della montagna dove, contrariamente alle apparenze, nessuno si è mai potuto permettere una vita stanziale. Forse ripetitiva, sicuramente influenzata dal ritmo delle stagioni e dai capricci del clima (“nove mesi di freddo e tre mesi di gelo” diceva senza troppa ironia l’abbé Chanoux, priore del Piccolo San bernardo), ma sempre in movimento alla ricerca del luogo e del tempo più favorevole. Il montanaro, come tutti gli altri esseri viventi, ha dovuto adattare le proprie tecniche e le proprie abitudini alle asprezze del mondo alpino, ma a differenza di piante e animali ha anche modificato lui stesso l’ambiente della montagna per renderlo più vivibile. Quel paesaggio che retoricamente i messaggi promozionali turistici vendono come “naturale” non è altro che il risultato di secoli e secoli di modificazioni umane, in un intreccio di natura e cultura che oggi è ormai impossibile districare. Ancora una volta l’alpeggio è il simbolo di queste modificazioni, perché là dove oggi non vediamo (e godiamo) pascoli e prati verdi ci sarebbero soltanto sassi e foreste, e, appena i pascoli e i prati vengono abbandonati, la vegetazione avanza con un ritmo impressionante, come un mare soffocato dalle alghe. Niente è statico e definitivo, nemmeno in alta montagna. Le stesse cime che noi crediamo senza tempo, quelle guglie di granito o di calcare che ci sembrano simboli di eternità, sono nate dal mare e sono destinate a farvi ritorno.
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