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Antichi e nuovi camminatori

«Se una vetta è opera della natura, un passo alpino è opera dell’uomo» – sosteneva il reverendo Coolidge, pioniere e studioso delle Alpi. La cima di un monte è un risultato geologico, mentre un passaggio «non può essere tale fino al giorno in cui l’uomo non vi sia passato attribuendogli una geografia e uno scopo». Dunque i cammini sono nati prima delle scalate, anche se li si affrontava il più delle volte per forza – costretti dalle guerre, dalle carestie e da altre urgenze –, oppure per commercio, o devozione, qualche volta per amore, se si adocchiava una bella ragazza nella valle accanto. Valichi e passaggi non li hanno “inventati” gli escursionisti ma i valligiani, i militari, gli ambulanti, i fuggiaschi e i pellegrini.

Lo stereotipo urbano ha spesso dipinto le società montanare come isolate e autarchiche, mentre la storia ci parla di comunità mobili. E poiché muoversi prima dei motori significava andare a piedi, è evidente che gli antichi camminatori non fossero spinti dal piacere ma dalla necessità. Dal Colle del Gran San Bernardo, per esempio, penetrano probabilmente i primi abitanti sedentari del Neolitico, e di sicuro i Celti tra l’VIII e il V secolo prima di Cristo. I Romani, per unire il sud e il nord dell’impero, costruiscono la strada consolare delle Gallie che nel Medioevo diventa la Via Francigena, percorsa dai viandanti diretti a Roma e Gerusalemme. Sul valico transitano eserciti, commercianti, pellegrini e viaggiatori, affrontando un ambiente severo. Gli ospizi sono i primi rifugi di montagna e i cani Sanbernardo addestrati dai monaci diventano i primi soccorritori, come si legge nel saggio settecentesco di Chrétien de Loges: «Si devono mandare domestici, cani e religiosi, quanti ne servono, per estrarre dalle valanghe chi è travolto, e accompagnare al monastero chi è sorpreso dal gelo».

I popoli della montagna sono quasi sempre migranti perché camminano verso le pianure, e ritorno, per integrare il lavoro dei campi e degli alpeggi con altri redditi. Percorrono strade e vie che diventano percorsi rituali, in cui ogni valle individua i propri mestieri e destinazioni. Osserva Fredo Valla che «l’emigrazione ha avuto forme diverse, alcune delle quali sono divenute celebri: è il caso dei venditori ambulanti dell’Oisans, degli spazzacamini e ammaestratori di marmotte savoiardi, o della Val Vigezzo… Quasi un terzo della comunità locale abbandonava le case, in maggioranza uomini adulti e alcune donne (per esempio le ricercate balie del Bellunese)». Con la cattiva stagione i montanari lasciano i paesi per cercare lavoro altrove come taglialegna, tagliapietre, spazzacamini, segantini, muratori e arrotini, nelle vicine città italiane o anche più a nord, nel cuore dell’Europa. I migranti stagionali tornano a casa con i saperi che oggi ritroviamo nelle architetture di montagna e nelle variegate forme di artigianato cosiddetto “locale”, in realtà influenzato da esperienze e competenze lontane.

Con l’Ottocento cambia tutto. I viaggiatori e i villeggianti di pianura, risalendo le valli in cerca di riposo ed emozioni, incrociano i montanari che scendono nelle loro stesse città. O che fanno ritorno. Con il nascente turismo affiancato alle arti romantiche e alle indagini scientifiche, nascono le pratiche ludico-esplorative dell’escursionismo e dell’alpinismo e anche i montanari cominciano a camminare per un nuovo scopo: la guida alpina. Salvo i privilegiati che si possono permettere una carrozza, o almeno un mulo, la vacanza montana è una lunga escursione per raggiungere gli alberghi e le locande, da cui partono sempre altri sentieri. Così sulle Alpi, e più tardi sugli Appennini, si scopre il piacere del camminare nella natura, idealizzando luoghi e tempi in cui i cittadini – senza conoscerli quasi mai fino in fondo – credono di riconoscere le testimonianze di epoche felici, primordiali e incontaminate.

Nel Novecento il turismo montano si espande, e insieme al turismo il cammino, anche se per lungo tempo si va e basta, senza bisogno di dare un nome alla più vecchia abitudine dell’uomo. Il termine escursionismo, un po’ antiquato, di solito indica più la gita in giornata che il percorso di più giorni. Uno dei primi a rendere popolari le traversate è la geniale guida Toni Gobbi, che negli anni Sessanta, da Courmayeur, organizza le settimane scialpinistiche da rifugio a rifugio, divulgandole in Italia e all’estero. Ma Gobbi, innegabile precursore, cammina soprattutto in primavera perché d’estate si dedica alle ascensioni. Dall’altra parte delle Alpi, nel 1969, il colto scrittore e alpinista bellunese Piero Rossi propone agli escursionisti l’Alta Via n. 1 delle Dolomiti, dal Lago di Braies a Belluno, attraverso i paesaggi dei Monti Pallidi. L’invenzione di Rossi e di altri sperimentatori come Toni Sanmarchi è destinata al successo e alla gemmazione di nuovi percorsi: gli altipiani dolomitici sembrano creati appositamente per camminare con dolcezza in quota, collegando i rifugi senza eccessivi dislivelli. Lo storico volumetto n. 1, pubblicato da Tamari a Bologna, conta diverse edizioni e certifica il gradimento del pubblico. Con un linguaggio d’altri tempi, si specifica che «l’Alta Via percorre alcuni celebri gruppi delle Dolomiti rimasti abbastanza immunizzati dalla folla eterogenea, spesso scomposta, dei cosiddetti turisti. Nel cuore di questi gruppi l’automobile non arriva e quindi, fatte le purtroppo debite eccezioni, non c’è una massiccia invasione di disturbatori».

In Piemonte, negli anni Settanta si lavora al lungimirante progetto della Grande Traversata delle Alpi, che nel pensiero degli ideatori non è solo un camminare di valle in valle per il piacere delle gambe e degli occhi, ma vuole proporsi come un nuovo modello di turismo dolce e lento, capace di rivitalizzare paesi, posti tappa e produzioni del territorio senza i danni e gli scompensi del turismo di massa. L’idea è d’avanguardia, ma proprio per questo deve fare i conti con l’ancora scarsa sensibilità delle amministrazioni locali e regionali, e anche con l’orografia delle montagne che impone notevoli dislivelli per lo scavalcamento dei colli. Sta di fatto che la traversata non convince gli escursionisti italiani e paradossalmente è apprezzata dal pubblico straniero. Allora come oggi sulla GTA si parla tedesco, mentre le lingue si fondono sull’Alta Via del Monti Liguri e su altri percorsi meno impegnativi e ambiziosi.

Negli ultimi decenni del Novecento s’impone la parola trekking e con una magica mutazione lessicale il vecchio escursionismo sale agli onori di cronaca e costume. Si fa trekking sulle Alpi, in Himalaya, talvolta dietro casa. Il passo successivo sono i cammini, termine ben più meditato e appropriato, che indicano sempre l’andare a piedi ma, dai territori montani, si aprono a colline e pianure, facendo proprie le motivazioni culturali e spirituali. All’inizio del millennio il Cammino per eccellenza è quello per Santiago di Compostela, sulla via dei pellegrini medievali, ma nel 2018, per la prima volta, il numero di chi percorre i cammini nostrani supera quello degli italiani che ricevono la Compostela. Nell’anno del sorpasso, 32.338 camminatori chiedono la credenziale per un itinerario del Belpaese contro i 27.009 italiani che raggiungono la Cattedrale di Santiago (è la nazionalità più numerosa, dopo gli spagnoli).

In Italia si promuove la Via Francigena – seguita dai Cammini francescani, dalla Via degli Dei, dal Cammino di San Benedetto, dai Cammini francigeni di Sicilia e dalla Via Romea Germanica – e c’è un lungo sentiero che riunisce tutti gli altri, anche se raramente potrà essere percorso da cima a fondo per ragioni d’impegno e durata: è il Sentiero Italia “CAI”. La sua affermazione appare cruciale per il ruolo culturale e ambientale che anima il progetto, fondato su un turismo veramente capace di apprezzare l’anima dei luoghi, e ancor più per il suo valore simbolico: unire l’Italia con un cammino vuol dire collegare i centri grandi e famosi con la rete di borghi, borgate e frazioni che la dorsale montana contiene e nasconde, spina dorsale del nostro paese e colonna portante di una storia antica in debito di futuro.