Atti del Seminario Permanente di Etnografia Alpina (SPEA 11) 2006. SM Annali di San Michele 22
L’approfondita discussione che ha portato a definire le linee del logo olimpico ha incluso alcune riflessioni importanti su Torino e le Alpi.
Innanzi tutto le Alpi sono state individuate nel loro insieme geografico, storico e simbolico, e non soltanto come le montagne o le valli dei torinesi, o come lo specifico “terreno di gioco” delle prossime olimpiadi. Nel logo infatti non si riconoscono le torri del Sestriere o le montagne della Valle di Susa, ma un’allegorica mole-montagna che non pone limiti all’immaginazione.
Inoltre è stata accolta la definizione di Alpi come “montagne trasparenti”, frontiera aperta verso la Francia e il resto dell’Europa. In questo modo Torino non si sarebbe più inchinata al vecchio stereotipo della città subalpina protetta (e rinchiusa) dalle sue montagne, ma si sarebbe candidata al ruolo di città europea proprio in virtù della grande “finestra” alpina.
La terza scelta ha riguardato il colore: dal grigio della città industriale al bianco-azzurro della montagna innevata, che è un bel salto di prospettiva rispetto alla Torino novecentesca cresciuta sul modello fordista, nota nel mondo per le sue fabbriche e non certo per le sue montagne.
Fin qui il dibattito teorico che ha portato alla nascita del logo di Torino 2006, che in concomitanza con l’appuntamento olimpico avrebbe dovuto corrispondere a un vestito nuovo per la città e a un preciso investimento nel suo futuro, pur sullo sfondo di alcune domande irrisolte.
Innanzi tutto ci si domandava perché Torino, metropoli alpina per eccellenza in virtù della sua collocazione geografica e della sua storia, centro nevralgico del Regno alpino di Savoia, culla dello sci e dell’alpinismo, ora sede olimpica dei giochi invernali, non fosse ancora (o non fosse più) percepita come una città delle Alpi.
Inoltre veniva legittimo chiedersi perché l’unica metropoli che si affaccia su circa un terzo di arco alpino, dalle Alpi Marittime al Monte Rosa, ed è posta sull’asse di due arterie transalpine cruciali come il Fréjus e il Monte Bianco, non fosse diventata un polo di riferimento culturale e politico per le Alpi “cintura d’Europa”.
Infine era a dir poco imbarazzante che, a parte poche situazioni privilegiate, città e montagna non fossero riuscite a superare il vecchio braccio di forza tra centro e periferia, elaborando nuovi modelli di sviluppo e occasioni di dialogo e collaborazione.
Una prima risposta ce l’aveva fornita Primo Levi poco prima di lasciarci, in una lettera all’amico Mario Rigoni Stern:
“Se vivessi con te sull’altipiano non avrei problemi, mi metterei gli sci da fondo e via. Ma qui è diverso; malgrado la crisi, ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un’ora di lotta e di pazienza”.
Colpiva che proprio quell’automobile che avrebbe dovuto avvicinare la montagna alla città fosse diventata motivo di ostacolo, prima ancora psicologico che fisico, tra Torino e le Alpi onnipresenti al fondo di ogni viale e di ogni prospettiva. Nel Novecento l’automobile, potenziale mezzo di comunicazione e di scambio, aveva isolato i torinesi in una dimensione sempre più urbana assimilandoli alla cultura industriale e allontanandoli da quella consuetudine alpina che era scolpita nel codice genetico delle famiglie borghesi ottocentesche, nell’eredità della Resistenza, nella cultura cattolica risalente a Pier Giorgio Frassati e anche in numerosi gruppi di formazione operaia e proletaria.
E quando la città si è avvicinata alla montagna, lo ha fatto occupando con le fabbriche le basse valli o esportando se stessa in quota, come è accaduto, per esempio, nei centri di sport invernali dell’alta Valle di Susa. La montagna è diventata un prolungamento, una protesi della città, e questo – anziché avvicinare le due culture – ha scavato un fossato ancora più profondo.
Nel dibattito che ha preceduto l’evento olimpico è emerso il ruolo chiave dei centri di cerniera tra l’area metropolitana e l’area alpina: Pinerolo e Susa, nella fattispecie. Si è rilevato come le località intermedie fatichino a trovare (o a ritrovare) una vocazione alpina, perché sono diventate sempre più luoghi di transito e sempre meno luoghi di incontro. Così, nonostante le autostrade e le nuove tecnologie che accorciano i tempi e le distanze, si stenta a riavvicinare i due mondi, a lavorare per un interesse comune, a comporre l’antica frattura tra valli e pianure.
Cittadini e montanari – pur legati da fili sempre più stretti: si pensi all’acqua che disseta le città, o ai turisti che salgono sulle Alpi in cerca di boschi e di silenzio – non avvertono di far parte di un universo integrato. Spesso i montanari vivono la città come “un mondo a parte”, un luogo indifferente e ostile, e i cittadini riducono la montagna all’immagine stereotipata di un bianco “domaine skiable”, o un giardino verde per l’estate, o un museo del passato.
Dunque si aspettavano le olimpiadi, i benedetti giochi di Torino 2006, perché avrebbero finalmente potuto riunire città e montagna, pianura e territorio alpino, cittadini e valligiani, all’insegna di un progetto comune capace di trasformare entrambi. Si sentiva soprattutto un gran bisogno di coordinamento, per evitare che, malgrado le qualificate iniziative di università, studiosi, associazioni, amministrazioni, musei, case editrici, giornali e riviste, Torino e il Piemonte continuassero a disperdere il valore del patrimonio alpino e la sua immagine simbolica. Bisognava far sì che il megafono olimpico, quello strumento magico che passa una volta sola ma raggiunge tutto il mondo, riuscisse a comunicare l’idea di una città, se non “alpina”, almeno consapevole della propria posizione straordinaria e responsabile di un territorio unico.
Scrivevo nel gennaio del 2003:
«L’identità di una città alpina non può nascere che da un sentimento collettivo di appartenenza: non basta la somma di tante coscienze individuali. Una città come Grenoble, nota per la sua sensibilità alpina, forse produce più di Torino in termini di ricerca e di proposta, ma soprattutto si presenta all’interno e all’esterno con una rete di progetti organici, visibili e condivisibili. E li accompagna con la diffusa consapevolezza di appartenere alle Alpi, alla loro storia, al loro presente.
Fatte le debite differenze di dimensione urbana e composizione sociale, anche Torino ha i requisiti per candidarsi al ruolo di città alpina. Se sceglierà di assecondare la propria vocazione storica e geografica, e saprà armonizzare gli antichi legami con una nuova capacità progettuale di respiro europeo, non si vede perché non possa rappresentare un punto di riferimento per gli studi e le politiche sulle Alpi.
Più che una scelta sembra quasi una necessità, se non si vuole che le olimpiadi invernali del 2006 passino invano su un secolo e mezzo di storia e non lascino eredità per il futuro».
Ora, a giochi avvenuti, sappiamo che queste speranze sono rimaste in gran parte deluse. Le olimpiadi non hanno lasciato eredità di rilievo (almeno sulle montagne) e le valli sono lontane come prima, e forse ancora più sole. Che cosa non ha funzionato? Per quale motivo si sono traditi gli impegni della prima ora? Perché il grande evento è passato invano?
Al di là delle solite sterili lamentazioni, si può utilizzare il caso per riflettere sul rapporto contemporaneo tra città e montagna, che resta un rapporto di tipo prevalentamente coloniale. Anche nell’occasione olimpica si sono utilizzate le montagne della Valle di Susa e della Val Chisone non come territori dotati di storia e peculiarità proprie, ma come “stadi”, impianti d’alta quota, scenari per lo sport, luoghi addomesticati e normalizzati. Se Torino è riuscita a trasmettere al mondo il suo fascino e la sua anima, traendone grande vantaggio turistico, l’immagine delle montagne è rimasta a livello di semplice sfondo, un bianco territorio globalizzato, amorfo, impersonale.
Un territorio povero? Non certo in questa occasione, perché sulle montagne olimpiche è girato tantissimo denaro e gli investimenti più dubbi e costosi in termini economici e ambientali sono avvenuti proprio sulle Alpi (la pista di bob di Cesana e il trampolino di salto di Pragelato), per cui non sarebbe corretto attribuirne la marginalità a ragioni contabili. Il vero problema è stato e resta di tipo culturale, nel senso che la città continua a pensare le Alpi come un luogo arretrato e sostanzialmente perdente, dove l’unico investimento meritevole è quello turistico (nella fattispecie lo sci di massa). Solo in questo caso la città investe, ma per se stessa. La città continua a pensare le Alpi come una “seconda casa”, dove il cittadino non va per “cambiar vita” o per confrontarsi con una vita diversa, ma dove – al contrario – si premura di portarsi tutto il possibile dalla pianura, di frequentare solo gente di pianura, di mangiare, pensare e comportarsi come in pianura. La città vede se stessa come l’unico centro – in Piemonte, in Giappone, in Brasile –, e il pensiero urbanocentrico sta portando alla progressiva metropolizzazione del mondo, con l’assimilazione e la scomparsa di tutte le culture “altre”, cioè non urbane o urbanizzate.
Il fatto nuovo è che questo processo di “domesticazione” non avviene più con i mezzi “violenti” degli anni sessanta e settanta del Novecento, quando Pasolini denunciava (inascoltato) il genocidio culturale delle nostre terre, ma si svolge con strategie nuove, ambigue, sfuggenti e “politicamente corrette”. Lo scopo è quello di salvare i valori romantici della montagna spogliandoli da ogni connotato di pericolo, asprezza, disordine, imprevedibilità. Tutto è “premasticato” ad uso turistico, edulcorato perché non puzzi e non faccia male: in Valle d’Aosta, per esempio (che bisogna dire rifiutò a suo tempo la candidatura olimpica), si può assaporare l’odore della fontina senza entrare nella stalla, e neppure in latteria, semplicemente grattando una cartolina, oppure si possono vedere gli animali selvatici di montagna nel Parc Animalier di Introd, senza nemmeno salire verso le valli e i sentieri del Gran Paradiso. Così i turisti credono di fare esperienza di un mondo diverso, ma c’è qualcuno che lo ha già codificato per loro, traducendolo in linguaggio urbano.
Il processo di riduzione e omologazione si svela anche di fronte alla natura “incontaminata”, la cosidetta wilderness, che poi fa paura a tutti. Se l’ambiente naturale viene protetto, soprattutto nei parchi, è perché qualcuno (minoranza) ha capito che abbiamo bisogno di conservare la biodiversità e ci servono luoghi selvaggi per ritrovarci, mentre la maggioranza vende e compra natura per il turismo e l’outdoor, interpretandola come una scenografia del tempo libero.
Se le tradizioni locali sono preservate e valorizzate (spesso a esplicito beneficio dei turisti forestieri), è per compensare la nostalgia e il senso di colpa per un mondo contadino spazzato dal consumismo urbano. Se la montagna è coinvolta in un grande progetto olimpico come Torino 2006, non si pensa a un universo complementare alla città, ma semplicemente a un suo prolungamento dove fa più freddo e ci sono maggiori probabilità di neve.
Dunque il caso delle olimpiadi invernali ha dimostrato in maniera disarmante che il futuro delle Alpi non dipende dalla montagna, ma piuttosto dalla città. Paradossalmente la montagna non può salvare se stessa senza una conversione della città, non tanto perché le manchino i mezzi, ma perché la città onnivora e invadente tende a sovrapporsi a ogni altro territorio, annullandolo. Non è vero che sia un problema di soldi, e forse neanche di idee; è un problema di cultura dominante e di cultura minoritaria, con la prima che tende ad annullare la seconda perché non la conosce, non la capisce, non ne condivide i destini.
Ancora più paradossalmente ci si può chiedere dove possa nascere un “bisogno di montagna”. Nelle valli, nei villaggi, nei rifugi, sulle cime? Probabilmente in nessuno di questi posti, ma nelle città, nei supermercati, nei “non luoghi” dove la vita corre senza lasciare traccia.
I montanari di oggi, specie i più anziani, possono certamente testimoniare la memoria della vecchia civiltà contadina dell’alpe, da considerarsi realisticamente finita con lo scorso secolo, ma i loro sforzi rischiano di trasformarsi in travestimenti a fine turistico. Invece i giovani – valligiani o cittadini, non fa differenza – possono fare molto di più, provando a immaginare una nuova civiltà “della montagna” che sia in grado di recuperare i valori essenziali di quella antica, ma applicandoli con l’esperienza e le tecnologie contemporanee in alternativa alla stolta civiltà del consumo. In altre parole la “nuova vita” delle Alpi è forse più affidata a un moto di opposizione e perfezionamento dell’attuale civiltà urbana, che a un bisogno di fedeltà verso la vecchia civiltà dell’alpe.
Ancora una volta aveva ragione Alex Langer quando scriveva che «la nostra civiltà ha bisogno di “disarmare” e di “digiunare”, altrimenti rompe ogni equilibrio e impedisce ogni possibile giustizia e sviluppo durevole. Il pretenzioso motto del citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte) che contiene la quintessenza della nostra cultura della competizione, dovrà urgentemente convertirsi al più modesto, ma più vitale lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce)».
Guarda caso, il pretenzioso ritornello del citius, altius, fortius corrisponde esattamente al motto olimpico. Ecco spiegata la contraddizione, e il suo prevedibile fallimento nelle fragili vallate alpine.
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