Questo libro non è eccezionale perché racconta la storia di Claude Barbier, uno dei più grandi talenti dell’arrampicata sulle Alpi, traghettatore dell’alpinismo dalla visione eroica del dopoguerra a una dimensione critica, imperfetta, sperimentale. Questo libro è eccezionale perché lo fa attraverso gli occhi della sua donna, Anna Lauwaert, descrivendo l’alpinista e l’uomo non con il metro delle imprese ma con la misura dei sentimenti, dunque spogliandolo dei paramenti del campione e presentandolo nudo, disarmato, talvolta addirittura impresentabile.
Si dice che l’amore è cieco: direi che in questo caso ci vede benissimo. Certo, ci sono voluti anni, forse decenni per depurare la passione con la saggezza del tempo, rielaborando il lutto e la rabbia, e perdonandolo per essersene andato in quel modo e a quell’età. Il risultato, in ogni caso, è la più sincera rappresentazione possibile dell’alpinista istintuale e creativo, genio e sregolatezza, che lo psicoanalista luganese Daniele Ribola dipinse in un articolo sulla rivista “Alp” (maggio 1989) come “l’eterno fanciullo”:
«La vita comporta frequentemente il conflitto fra dimensione verticale e dimensione orizzontale, e ci chiede di trovare dei compromessi. C’è un tipo di uomo che questi compromessi non li può accettare e si identifica totalmente con una psicologia “verticale”. Lo troviamo fra i piloti d’aereo o di auto da corsa, fra i navigatori solitari e gli esploratori, fra scienziati geniali e artisti incompresi, fra rivoluzionari e terroristi… La verticalità è la dimensione degli eccessi, delle dismisure, dell’eccezionalità, dell’avventura, della ricerca, della scoperta, dell’ignoto, dello Spirito».
E ancora:
«Geniale e pazzoide da un lato, infantile dall’altro, il “puer alpinista” rifiuta tutto ciò che potrebbe comprimerlo: un lavoro fisso, una relazione stabile, dei figli, un impegno sociale. Lui sa vivere solo la sua passione senza limiti. Non sopporta assolutamente di essere trattenuto da situazioni banali e contingenti. Non è destinato a camminare, ma a volare».
L’alpinista belga Claude Barbier assomiglia molto a questo ritratto, e la sua compagna Anna Lauwaert, che ha lasciato sicurezza e famiglia per seguirlo su sentieri ignoti, è forse la prima narratrice di “cose di montagna” capace di svelare fino in fondo il carattere del genio. Di solito nella letteratura alpina si accentuano i toni nobili dell’eroe (coraggio, creatività, eleganza, disinteresse, spirito trasgressivo), senza i quali l’alpinismo non sarebbe mai nato e di certo non sarebbe cresciuto, e si tace il rovescio della medaglia, come se la luce potesse esistere senza l’ombra. Questo libro, al contrario, riesce a restituirci il genio Barbier senza alcuna reticenza, senza omertà né concessioni alla retorica, dai giorni grandi in cui Claude arrampica come un dio (che dire di quel 24 agosto 1961, quando salì in solitaria le cinque pareti nord delle Cime di Lavaredo?), ai giorni piccoli, anzi piccolissimi, in cui l’artista si sente finito, pesante, socialmente e psicologicamente inutile, e il suo Io ipertrofico lo porta ad avvitarsi in una spirale di infantili no, arrovellandosi nel buio senza via d’uscita. È il prezzo richiesto agli artisti maledetti e agli enfants terribles, e ai loro compagni naturalmente, quando la generosità di spirito che li faceva volare nel sole si trasforma in depressione, capriccio puerile, egocentrico rifiuto del mondo e dei suoi bisogni “normali”.
L’autrice confessa di aver lavorato a lungo dietro a queste pagine:
«Dapprima mi costrinsi a scrivere un testo essenziale, elencando i fatti il più obiettivamente possibile, con il massimo distacco, rifiutando di lasciarmi andare ai sentimenti. La casa editrice rispose che era un buon punto di partenza, ma che non era pubblicabile perché mancava il contributo personale che avrebbe dato umanità al ritratto… Passarono altri dieci anni prima che mi sentissi abbastanza coraggiosa da raccontare la storia con il cuore. Allora mi rimproverarono che non era un libro di alpinismo…»
Credo che qui stia il punto di svolta: nel momento in cui Anna si allontana dallo stereotipo della letteratura di genere e prova a raccontare semplicemente (ma con che coraggio!) la verità:
«Per me, evidentemente, una biografia di Claude non poteva riassumersi in un elenco di vie, chiodi e corde. Claude era stato prima di tutto un uomo fuori dal comune, con le sue piccolezze e i suoi lati affascinanti, ai quali nessuna donna avrebbe potuto essere indifferente. Evidentemente ho scritto un libro “da donna”».
Claude Barbier è stato un artista della verticale attratto dal calore dell’Italia e dalla purezza delle Dolomiti, dove – come Emilio Comici, di cui ripeté la via sulla parete del Civetta, in prima solitaria, nell’estate 1962 – poteva esprimere il proprio talento senza sottostare alla dura legge dell’alta montagna, delle tempeste di neve, delle pareti gelate. Barbier era uno scalatore in anticipo di dieci, quindici anni, che ha saputo rilanciare l’arrampicata libera su calcare nel momento più impopolare, quando sulle Dolomiti andavano di moda le superdirettissime, le linee a goccia d’acqua, i chiodi a pressione. Dipingendo simbolicamente di giallo i chiodi che non dovevano essere sacrificati alla progressione artificiale, e sfidando coloro che non riuscivano a salire senza farne uso, inaugurò quella definizione “en jaune” che segnerà gli esordi dell’arrampicata moderna e sportiva, quando altri alpinisti di lingua francese imporranno l’equazione libera-libertà.
Claude era capace di estremismi inaspettati, come arrampicare con una corda gialla, indossare una camicia gialla, calzettoni gialli, e nei momenti più imprevedibili esclamava: «Bellissima tovaglia gialla! Guarda che magnifica pattumiera gialla!…» Non di rado lo si sentiva gridare a qualcuno in parete: «Quel chiodo è giallo, non si tocca!».
Paradossalmente è morto nel 1977, nel momento in cui – dopo la ribellione antieroica del Nuovo Mattino – il suo stile e le sue idee cominciavano a diventare patrimonio collettivo.
Al pari dei veri innovatori, trovò gli stimoli più grandi quando pochi – o nessuno – pensavano che si potesse arrampicare in quel modo. Come tutti gli artisti, Barbier si nutrì di intuizione e trasgressione, procendendo con la fantasia e con l’azione a negare ciò che gli altri davano per scontato. Quando il 26 settembre 1969 aprì la via del Drago sul Lagazuoi Nord, rispose al grido di allarme di Reinhold Messner per la morte dell’arrampicata pulita, la sola in grado di offrire un futuro all’alpinismo:
«Il Drago è avvelenato. Siegfried è disoccupato… la mia preoccupazione è per il Drago morto… deve succedere qualcosa prima che l’Impossibile sia sepolto… Vi prego salvate il Drago!»
A ben pensarci, la storia dell’alpinismo è un’ininterrotta spedizione in soccorso del “drago” in pericolo, quando una fila di chiodi, una funivia o una via ferrata minacciano di uccidere l’avventura. Nel momento della crisi servono spiriti visionari e rivoluzionari capaci di preservare il mistero e rilanciare la sfida.
Mummery salvò il drago sulla placca del Dente del Gigante, Preuss lo fece sul Campanile Basso di Brenta, Lomasti ha salvato il drago sul Piccolo Mangart. I grandi innovatori come Mummery, Preuss, Lomasti e Barbier hanno rischiato tutto per una questione di stile. Nessuno di loro ha avuto la fortuna di invecchiare.
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