Scrive Guido Rey, letterato e fotografo, oltre che valente alpinista:
“L’antipatico gingillo meccanico che rechiamo sui monti legato alle spalle è divenuto per noi compagno utile e fedele che, ad un nostro cenno, guarda e ritiene con memoria più sicura della nostra; un compagno che malediciamo le cento volte nella salita, che pesa, ci preme il fianco e sbatacchia sulla schiena, squilibra i moti e c’impaccia nei movimenti difficili, ma che, al ritorno, benediciamo; e siamo lieti se è uscito con noi salvo ed intatto dalla battaglia. La piccola scatola racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori; e quando nella camera oscura assistiamo trepidanti al rivelarsi delle minuscole immagini, rivediamo comparire le rupi sfuggenti nell’abisso, le guglie terribili che salimmo ansanti, e i luoghi aerei dove riposammo. Ci riappaiono i nostri compagni sorpresi nel vuoto così istantaneamente che ci è dato di scorgere le contrazioni del loro volto, il loro sforzo nel trarre la corda, gli atteggiamenti curiosi nei passi difficili… Strana magia questa di fermare per sempre ciò che è stato un attimo fuggente alla vita”.
La macchina fotografica ha permesso di realizzare uno degli inconfessati, ma prioritari scopi (sogni) dell’alpinismo: l’immortalità. Alle immancabili, inesauste, ampollose descrizioni tecniche della scalata, i cosiddetti récit d’ascension, alla fine dell’Ottocento hanno cominciato ad accompagnarsi immagini altrettanto stereotipate, e talvolta anche ampollose e retoriche, ma intrinsecamente aderenti all’ambiente (la roccia e il ghiaccio), al paesaggio (gli orizzonti, le creste, i seracchi, le pareti), ai costumi (l’abbigliamento degli alpinisti, i loro attrezzi) e alle tecniche di scalata. Volente o nolente la fotografia, nel bel mezzo della storia alpinistica, si è proposta con successo come testimone di un mondo prima riservato agli iniziati e precariamente affidato all’onestà dei protagonisti e dei loro racconti.
Ma quali sono le tipologie ricorrenti nelle prime fotografie d’alpinismo? Quali sono i dettati della nuova arte applicata alla vecchia arte dell’arrampicata?
Innanzi tutto, come sottolinea lo stesso Rey, fotografare in parete è una gran fatica, per il peso e la fragilità degli apparecchi, per la complessità delle tecniche di scatto, per l’imponderabilità del risultato. Non a caso molte immagini di alta montagna vengono successivamente ritoccate in laboratorio, per ottenere effetti più consoni alla vertiginosa realtà che avrebbero dovuto rappresentare, e più proporzionali anche alla fatica di chi le ha realizzate. In questo libro si possono osservare a proposito la scalata delle Aiguilles d’Arves (databile intorno ai primi anni del Novecento) e la spettacolare “Ascension du sérac” che, opportunamente corretta, sarebbe diventata una famosa cartolina delle edizioni Photoglob di Zurigo. Gli alpinisti impilati su un improbabile seracco più simile a uno spruzzo di panna montata che a una costruzione di ghiaccio, guardano convinti nella camera e posano in tutta calma come se si trovassero in uno studio fotografico. Proprio per questo il risultato è sorprendente. E sempre a proposito di pose “forzate”, ecco la guida di Cortina d’Ampezzo che sovrasta letteralmente la sua cliente, quasi a schiacciarla nelle viscere della montagna, su un camino di roccia delle Cinque Torri.
Le vie dei seracchi
Le più vecchie immagini di alpinismo qui riprodotte (databili intorno al 1880 circa) sono frutto di ricostruzioni sceniche in ambiente glaciale. Gli ingredienti ricorrenti sono tre: i seracchi dalle forme fantastiche, gli alpinisti vestiti di grigio e di nero, le scale a pioli che permettevano il superamento dei crepacci in assenza di ramponi e strumenti idonei. Maestro di queste immagini, dopo i fratelli Bisson che già nel lontano 1862 inquadrarono il Cervino dal Riggel di Zermatt, anticipando addirittura di tre anni la scalata di Whymper, e poco più tardi riuscirono a documentare l’ascensione del Monte Bianco lungo la via dei Grands Mulets, fu Georges Tairraz (padre) di Chamonix, capace di immortalare alpinisti a cavallo di elefanti di ghiaccio e cordate disposte come figure geometriche. Altrettanto, anche se con minore esasperazione della costruzione scenica, realizza lo studio Charneaux di Ginevra probabilmente sullo stesso ghiacciaio dei Bossons.
Va considerato non solo che il Monte Bianco, e dunque la via dei seracchi, fu il primo itinerario di alta montagna consacrato all’alpinismo, ma soprattutto che i ghiacciai incarnarono fin dal Settecento il richiamo romantico delle cime. All’inizio dell’Ottocento il mostro di Mary Shelley si avventura tra i crepacci della Mer de Glace inseguito dal suo creatore Frankenstein:
“Il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere…”.
Eredità delle lontane origini alpinistiche, e in particolare di quella sovrapposizione di motivazioni scientifiche e sentimenti romantici che mosse i primi uomini verso le cime, si trovano anche nell’immagine di Georges Tairraz che ritrae l’osservatorio Jansen sulla cima del Monte Bianco, e soprattutto nell’altra immagine, assai più drammatica e significativa, del vecchio Jansen che viene calato con la slitta dalle sue guide sul bordo di crepacci immani (ecco “spiegata” anche la dama in portantina che entra nella grotta gelata dei Bossons, come una precaria principessa del ghiaccio, nella fotografia dei fratelli Jullien).
La sintesi delle fotografie di ghiacci e ghiacciai è rappresentata dall’immagine di Adolfo Hess intitolata “Il ghiacciaio domato”. Vi appare semplicemente una scala a pioli che, da un grigio tappeto di detriti, dà accesso a un promontorio glaciale. È il passaggio tra due mondi, il risultato finale di un lungo processo di “addomesticamento” che ha insegnato agli uomini non solo a convivere con i ghiacciai, ma addirittura a domare e cavalcare i mostri gelati che per secoli simboleggiarono la paura delle cime e la devastazione portata a valle dalle glaciazioni.
Arrampicate in alta quota
Il viaggiatore Sebastian Münster scrive nel 1546:
“Mentre cavalcavo diretto alla Furka, giunsi vicino a un’immensa massa di ghiaccio, spessa, a quel che potei giudicare, da due a tre picche militari e larga quanto la portata di un arco possente. Quanto alla lunghezza, si stendeva indefinitamente verso l’alto, tanto che non se ne poteva vedere la fine. A chi la guardava offriva uno spettacolo terrificante…” .
Il passaggio alla roccia è brusco ed evocativo, anche nella rappresentazione fotografica. Significa andare oltre: non solo infrangere i tabù degli antichi fantasmi (come avevano fatto il Saussure e i montanari di Chamonix, e suggessivamente i fotografi Bisson e Tairraz), ma sfidare i versanti più vertiginosi e irreali della montagna, i luoghi da sempre appartenenti al dominio delle aquile. L’ardita concezione della scalata (sul granito del Monte Bianco o sul calcare delle Dolomiti) rappresenta un salto epocale dal punto di vista tecnico e simbolico. È il passaggio alla modernità alpinistica. I borghesi che si facevano pigramente portare dalle guide sui ghiacciai, spesso letteralmente trascinati sulla neve, si trasformano in audaci acrobati della verticale, tanto audaci da fare addirittura a meno delle guide (come dimostra per primo l’inglese Mummery sulle guglie del temutissimo Grépon, nelle Aiguilles di Chamonix). Proprio sul Grépon è ambientata la fotografia di Émile Gos intitolata “Le Grand Diable”: fantasie di granito, cordate funamboliche, gesti maschi e vertiginosi, una nuova estetica della montagna fatta di fessure, spigoli, diedri, tagli geometrici, in sostituzione della candida e uniforme “monotonia” dei ghiacciai.
All’arrampicata esterna del Grépon fa da contr’altare la fessura delle Torri di Boemia (1900 circa), su cui un signore baffuto con bretelle si inerpica elegantemente, e un altro signore si nasconde tra le pieghe della roccia. Le formazioni rocciose della Foresta Nera erano talvolta ribattezzate con i nomi di celebri vette dolomitiche (nel caso specifico il Sass Maor), allo scopo di affermare una concezione “alpina” universale, con immagini di arrampicata a carattere didattico e dimostrativo pubblicate sulle varie riviste dei club alpinistici.
Adolfo Hess firma anche una curiosa fotografia ambientata sulla Rocca Bernauda, nelle Alpi occidentali, dove l’occhio è attratto dall’alpinista annegato in un mare di pietre piegate dal tempo e dalle tempeste. Più che una foto di arrampicata la si potrebbe definire una rappresentazione geologica delle montagne con presenza umana, dove il personaggio non è affatto il protagonista della situazione, ma piuttosto un intruso destinato ad adattarsi o sparire.
Ben diversa, addirittura opposta, è la sensazione suggerita dalle due famose fotografie di Emilio Comici in arrampicata e in corda doppia. Comici è l’uomo nuovo, il personaggio che ha saputo adattarsi così perfettamente alla verticale da apparire nato e cresciuto sulla roccia. Le immagini che lo ritraggono esprimono due sensazioni parallele e complementari: da un lato il tecnicismo dell’arrampicata fatto di manovre e di chiodi; dall’altro l’armonia e la leggerezza del gesto che non forza mai la gravità, ma sembra alleato con le misteriose forze del vuoto. La fotografia che ritrae l’arrampicatore triestino in corda doppia, appeso come un ragno nell’abisso, anticipa precisamente i dettami della fotografia di arrampicata di fine Novecento, quando lo sport preconizzato da Comici sarà ormai diventato costume e moda: l’atleta piccolo (ma non fragile) che padroneggia un grande vuoto.
I panorami sono almeno a due dimensioni: c’è il panorama del Monte Bianco dalle Aiguilles Rouges (ancora della serie Underwood & Underwood), impostato sul vertiginoso primo piano (la didascalia recita “terribile precipizio nelle Alpi…”), e c’è la dolce visione del Monte Rosa dal Monte Moro (foto di E. Lamy), dove i personaggi in primo piano servono ad accompagnare, non certo a contrastare, il panorama sullo sfondo. Così alle Grandes Jorasses emergenti dal fiume sconvolto della Mer de Glace (foto di V. Muzet), che diventa esso stesso protagonista, si contrappongono le medesime Jorasses dal rifugio del Couvercle, con tre morbide silhouette in primo piano a rimarcare la grandiosità dello sfondo (foto di Cesare Giulio). Le Grandes Jorasses ritornano, si direbbe in una situazione intermedia, nell’altra fotografia di Cesare Giulio scattata al Montenvers: i personaggi in primo piano che studiano la cartina catturano gli occhi dell’osservatore, ma nello stesso tempo attribuiscono dignità e importanza all’oggetto del loro interesse: l’imponente montagna in secondo piano.
La funzione documentaristica dell’immagine ritorna nella fotografia di Vittorio Sella adeguata a descrivere le guglie del Brenta (Brenta Alta, Campanile Basso, Campanile Alto, Sfulmini), nel panorama delle Tre Cime di Lavaredo da nord (foto Ghedina), su cui sono tracciati gli itinerari di salita degli alpinisti, e nell’antica fotografia dei fratelli Bisson che, oltre una cortina di monti minori, propone le cime dell’Aiguille Verte, dell’Aiguille du Dru, delle Grandes Jorasses e del Dente del Gigante, nel cuore francese del Monte Bianco.
Neve, piste, nuove emozioni
L’altro salto estetico e culturale della fotografia alpina riguarda la neve e gli sport invernali. Apparentemente si tratta ancora di bianche distese simili a quelle ghiacciate delle prime immagini di alpinismo, ma la concezione della montagna è completamente mutata insieme alle motivazioni che, verso la fine dell’Ottocento, e soprattutto all’alba del nuovo secolo, spingono i fotografi e gli appassionati sui monti innevati.
Per giungere all’invenzione degli sport invernali e dello sci è stato necessario infrangere la spessa barriera psicologica che, storicamente, teneva a distanza i valligiani dalla montagna nei mesi corti e freddi, e la rendeva un territorio proibito per i cittadini, del tutto privo di fascino e di interesse. La neve, come il latte, è stata identificata con l’oro bianco delle Alpi, ma ha richiesto un salto culturale assai più improvviso e radicale, e la “contaminazione” tra cultura di valle e cultura di pianura. Naturalmente non la neve in quanto elemento costitutivo del paesaggio invernale alpino, da sempre amica-nemica del montanaro, utile soltanto per conservare i morti nella cattiva stagione e far scivolare a valle il legname o il fieno sulle slitte, ma la neve reinterpretata come luogo di loisir e di sport destinati a scardinare e rifondare l’economia alpina, dopo che il turismo riuscì a sfondare la barriera proibita del freddo.
Nel 1864 l’albergatore Badrutt di St. Moritz propose ai suoi ospiti estivi di provare un soggiorno invernale nell’ormai nota località di villeggiatura dell’Engadina. Promise loro che, se non avessero gradito il soggiorno, sarebbero stati ospitati gratis per tutto il periodo corrispondente al presunto disagio. Aggiunse che quando splendeva il sole, sulle Alpi d’inverno faceva così caldo che si poteva girare in maniche di camicia. Quattro impavidi turisti vollero provare e scoprirono sulla propria pelle che Badrutt aveva ragione. Uno di loro annotò entusiasta sul registro degli ospiti:
“In media siamo stati fuori quattro ore al giorno, camminando, pattinando sui laghi, andando sullo slittino o rimanendo seduti a leggere in terrazza. Abbiamo anche pranzato in terrazza… A St. Moritz mi sono sentito molto più forte alla fine dell’inverno che all’inizio”.
Nel 1866 A. W. Moore, celebre alpinista e aristocratico membro del Club Alpino Inglese, descrisse l’eccitazione provata nello scendere da una pista ghiacciata di Grindelwald a bordo di un funambolico bob a dodici posti, che secondo i suoi calcoli raggiungeva la mirabolante velocità di venti miglia orarie:
“Credo che in inverno le Alpi, per il turista dilettante che in tutta sincerità considera che salire sulla cima di una montagna sia un errore, offrano altrettante grandi attrattive che per l’entusiasta al quale l’alpinismo puro e semplice interessa di più che il pittoresco… A condizione che il tempo sia buono, sono convinto che tutti coloro che vogliano tentare l’esperimento torneranno, come ho fatto io, ansiosi di ripeterlo a ogni occasione”.
Moore aveva ragione. I turisti ritornarono, e ai pionieri si aggiunsero schiere di amanti della neve che, dopo l’importazione e la divulgazione dello sci a cavallo del secolo, divennero eserciti di frequentatori fantasiosi e gaudenti. La fantasia e la gioia, simbolizzate dalle tracce degli sci e dal candore del paesaggio invernale, sono i due attributi più nuovi (e inaspettati) nel panorama grigio-verde delle “vecchie” Alpi. Lo si comprende dalle immagini che, oltre al movimento (altro elemento del tutto inedito nella fissità dello stereotipo alpino), propongono situazioni e personaggi festosi, colorati dall’ebbrezza della discesa (nonostante le fotografie siano in bianco e nero), avidi di sempre nuove emozioni. Memorabile resta l’immagine di Leo Gasperl con il mantello da pipistrello, che infrange anche l’ultimo tabù della montagna: la forza di gravità. Gasperl e i suoi emuli volano sugli sci, staccano il corpo da terra, dopo che il padre di tutti gli sciatori italiani Adolfo Kind, qui ritratto con alcuni discepoli sulle nevi dell’alta Valle di Susa, ha insegnato agli alpinisti e ai frequentatori delle valli che montagna non vuol dire solo sacrificio e privazione, ma anche divertimento e sport.
Lo sport si manifesta con un’altra rivoluzione: la gara. Già nel lontano 1902, appena tre o quattro anni dopo che Kind ha portato lo sci sui monti torinesi, a Bardonecchia gareggiano signori con il numero appuntato sul petto, mentre altri signori prendono nota dei tempi e delle classifiche. E alla stessa stregua si gareggia saltando dai trampolini e affrontando piste da brivido a cavallo di slittoni futuristici, uomini e donne insieme. Anche il vecchio maschilismo dei monti è sconfitto nel nome della velocità, e addirittura si finge l’incidente spettacolare, in una fotografia evidentemente costruita ad arte, per dimostrare quanto sia liberatorio correre sul filo dell’ebbrezza.
Anche gli sciatori più composti, che disegnano linee perfette ai piedi della montagna perfetta (il Cervino), mostrano senza pudore il narcisismo dello sci. Ciò che gli alpinisti nascondevano gli sciatori esibiscono, quasi inconsapevoli del “sacro” ambiente in cui si trovano. Come sono lontane le “Cattedrali della Terra” di John Ruskin! Ognuno cerca il proprio spazio ludico e la montagna innevata diventa un unico campo di giochi senza disciplina e senza limiti (la fotografia di Cesare Giulio parla chiaro, con gli sciatori anarchicamente sparsi sul pendio e un’ombra profana, la funivia, che si staglia sulla scena).
Le vecchie regole sono rivoluzionate in chiave collettiva e sociale: che si tratti della festosa teoria di “viandanti della montagna” che salgono le splendenti nevi del Rutor in Valle d’Aosta (nella fotografia di Piero Solero), o dell’assai più inquietante dimensione rituale delle Olimpiadi di Garmisch del 1939, adombrate dalla presenza dei gerarchi nazisti. In un caso e nell’altro la solitaria montagna dei primordi, scandita da gesti silenziosi ed emozioni elitarie, ha lasciato il posto a una montagna del popolo e a una fotografia popolare.