Atti della tavola rotonda, 6 maggio 1993
La cultura italiana ha avuto due veri punti di incontro con la sottocultura alpinistica, forse due soltanto: si chiamano Dino Buzzati e Massimo Mila. Può apparire un azzardo se si pensa agli innumerevoli uomini di pensiero, ai letterati, ai geografi, ai politici, ai filosofi ai musicisti che ebbero contatti con le montagne, ma non è così. Un vero incontro tra le due culture, infatti, presuppone l’appartenenza significativa alla prima (anche Boccalatte e Castiglioni si occupavano di musica con ottimi risultati amatoriali, Guido Rey fu un raffinato uomo di lettere e Adolfo Hess si dilettò di psicologia, ma non possiamo ascriverli per questo al mondo compiuto della musica, della letteratura o della ricerca psicanalitica) e, soprattutto, presuppone l’appartenenza alla seconda categoria, che è la circostanza più rara e improbabile. Eppure la lista dei personaggi del Novecento che misero piede sulle montagne è lunghissima, basti pensare al “cenacolo Einaudi” da cui venne lo stesso Mila (Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Primo Levi, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern: tutti hanno avuto rapporti approfonditi con l’universo della montagna e Giulio Einaudi ha convocato per anni le riunioni editoriali a Rhêmes Notre Dame), ma si tratta di approcci “laici”, se ci riferiamo alle dinamiche iniziatiche di ingresso e di appartenenza alle “chiese” degli alpinisti. Nessuno di questi scrittori si sognò mai di diventare Accademico del CAI, nessuno cercò la conferma di sé sulle vie nuove dei monti o sui grandi itinerari del passato, nessuno trovò il proprio nome stampato sulle cronache alpinistiche. Modestia? distacco? maturità? O pura innocenza come nell’esperienza del giovane Primo Levi, che seguiva entusiasta l’amico Delmastro sulle creste piemontesi, senza relazione e senza vincoli, per “assaggiare la pelle dell’orso”? La modestia e l’innocenza non bastano. Levi infatti, nonostante la sincera passione stroncata anzitempo dalla deportazione, non fu mai un alpinista nel senso esclusivo del termine, perché non antepose la montagna agli interessi della vita, non si sottomise ai miti, alle regole e ai pregiudizi della società alpinistica.
Buzzati e Mila sì, ci appartennero al cento per cento, condividendone fino in fondo le ambizioni, i sottintesi, anche le contraddizioni. Conobbero il gioco e stettero al gioco, con partecipazione totale, facendo della montagna una chiave di lettura privilegiata per la sfera simbolica (Buzzati) e conoscitiva (Mila) della propria esistenza.
C’è una prova del nove che conferma la loro assoluta dedizione: mentre la Ginzburg, la Romano, lo stesso Levi hanno lasciato traccia nei propri libri delle escursioni giovanili sulle Alpi, con pagine tra le più belle della “letteratura di montagna” ( o meglio della montagna in letteratura), né Buzzati né Mila hanno mai raccontato le loro avventure alpinistiche con gli occhi e con la penna dell’intellettuale. Il Buzzati che scrive il “Bàrnabo delle montagne” è una persona, quello che confida a Brambilla le sue malinconie verticali è tutt’altra persona. E così anche Mila, che traduce con eleganza “Le affinità elettive” di Goethe e poi, descrivendo la propria iniziazione all’arrampicata affidata al rude amico Chabod, scrive:
«E quand’io crollavo pesantemente sull’erba, lui mi guardava dall’alto del suo metro e novanta e sporgendo il labbrone mi diceva con disprezzo: “Mi sembri un sacco di merda”».
Da alpinisti, entrambi si sono limitati a diari personali, piccoli interventi, annotazioni, esattamente come fanno gli appassionati gelosi del proprio “territorio” e scarsamente propensi a mettere in piazza le emozioni private.
Di tutt’altro registro è l’interessante saggio di Massimo Mila “Perché si va in montagna”, pubblicato nel 1949 sulla “Rivista Mensile del CAI” e interamente ripreso dalla signora Giubertoni nei recenti “Scritti di montagna” (Einaudi 1992). Mila prende spunto proprio da Buzzati, in parti colare dall’elzeviro del “Corriere della Sera” del 14 ottobre 1948 intitolato “Hanno obbedito alla montagna”. Ecco come lo riassume il critico torinese:
« Buzzati prende di petto il problema dei problemi e si propone di cercare la causa dell’attrazione esercitata dall’alta montagna e quindi, di riflesso, la molla psicologica e spirituale che spinge l’uomo all’esercizio dell’alpinismo. Dopo aver opportunamente deplorato “tutte quelle forme di generico e dilettantesco misticismo, di intemperanze nietzchiane e simili che infestano così spesso la letteratura alpinistica”, Buzzati si accinge metodicamente a scoprire, per esclusione, le caratteristiche dalle quali può venire alla montagna il suo fascino particolare. Non possono essere –egli dice – la solitudine, né la immensità delle proporzioni, né la selvatichezza, ché allora “dovremmo provare le stesse sensazioni anche davanti al mare, ai deserti, alle foreste vergini”. Non può essere la lontananza, ché il mare – diciamo la verità – ci batterebbe quattro a zero (…) In conclusione Buzzati ritiene di poter stabilire che la “ripidezza” e la “immobilità” siano i due eccezionali attributi che distinguono la montagna. La prima “moltiplica la sensazione di lontananza e accresce il senso di mistero”. La seconda, che appartiene pure ad altre forme della natura, per esempio i deserti, in nessun luogo però si manifesta così concentrata come nei volumi dei monti».
Fin qui Mila è d’accordo, ma i due si allontanano irreparabilmente quando Buzzati prova a scavare più a fondo nelle ragioni filosofiche dell’alpinismo, e giustifica il fascino sprigionato dall’immobilità delle montagne con la “fatale tendenza dell’uomo a uno stato di tranquillità”:
«A che si affanna la gente, giorno e notte, a quale scopo lavora, accumula soldi, persegue fama e potenza, se non per potere un giorno essere completamente libera da ogni soggezione e quindi riposare? E non importa se si tratta di pura illusione. Questa contraddizione amarissima è la nostra antica condanna e finora nessun efficace rimedio ci è stato offerto se non la fuga in Dio».
La conclusione di Buzzati è singolare, di assoluta originalità per un alpinista:
«Sì, l’uomo tende inconsciamente a conquistare la quiete. Proprio per ciò la vista delle montagne, modello perfetto dello stato a cui egli tende, procura un senso di appagamento. Non solo, sorge nell’uomo il confuso desiderio di aderire, di adeguarsi, di identificarsi in certo modo a tanta immobilità, di prenderne infine possesso. E di qui l’alpinismo».
A questo punto, Mila proprio non ci sta:
«Ecco: non ci fanno paura i paradossi, ma che da un bisogno di quiete nasca la spinta ad arrampicarsi su per i sesti gradi, questo non è un paradosso, bensì un trapasso logico difettoso e arbitrario».
Al dubitante e allegorico esistenzialismo buzzatiano, Mila oppone con forza il suo solare e intransigente illuminismo:
« L’alpinista sente la propria attività come eminentemente positiva, e recalcitra di fronte al “cupio dissolvi” della concezione proposta da Buzzati e all’inevitabile conseguenza che egli ne trae: “Dovremmo dedurne che il sentimento della montagna è essenzialmente triste? Proprio così”. No; ogni alpinista interroghi lealmente se stesso: la sua personale esperienza gli risponderà che la montagna è un signore che si serve in letizia».
Mila sostiene che gli alpinisti «sono la gente più normale e sensata di questo mondo, e nel loro spirito non c’è traccia di morbose invenzioni», anche se ammette che non è facile, di fronte a individui che «mettono la vita in pericolo e sfacchinano su per le montagne più impervie» trovare una spiegazione positiva che liberi l’alpinismo dalla sua soggezione storica al Romanticismo. La soluzione sta dunque nel rigettare «l’intima contraddizione che è essenza del Romanticismo: indice di crisi interiore, tendenza a capovolgere i valori tradizionali della vita,
ad esaltare la notte invece del giorno, la malattia invece della salute, il dolore invece della gioia», per opporvi la luce della ragione e della conoscenza. Conoscenza geografica, innanzitutto, cioè esplorazione che “reca le tracce della massima perfezione in cui si accomunano le due facoltà supreme dell’uomo: la facoltà teoretica e la facoltà pratica, il conoscere e il fare (…), quell’identità che Galileo aveva postulato per le matematiche e il Vico per le scienze storiche e che, a detta di quei due valentuomini, rende l’uomo simile a un Dio». L’alpinismo è una via possibile per il vagheggiato matrimonio tra filosofia e prassi:
«Questa ebbrezza estasiante di sentirsi dio nell’identità di conoscere e fare: le montagne che già abbiamo “fatto” sono diventate parte di noi stessi, condividono la nostra natura umana, non sono più materia, ma spirito. In questo modo la rude fatica degli scalatori si inserisce nobilmente nella missione della cultura, che è poi quella di conquistare all’uomo, per mezzo della conoscenza, tutte le forme e gli aspetti della natura, e di redimerla dalla inerte passività della materia comunicandole la vita dello spirito di cui l’uomo è depositario».
Buzzati e Mila, come si vede, hanno vissuto la propria passione sulle sponde opposte di uno stesso mare. Se da un lato è vero che esistono tante forme di “alpinismi” quanti sono gli alpinisti, è però anche possibile rileggere la storia alla luce di queste due fondamentali interpretazioni,, che sono qualcosa di molto più profondo di due aride barriere concettuali. Sotto le apparenze si scoprono due sensibilità, due filosofie, due propensioni esistenziali che ripropongono puntualmente le due facce della medaglia-alpinismo, a partire proprio dal concetto di Romanticismo così fieramente criticato da Mila.
Ancora oggi, alla fine del secondo millennio, c’è chi non si vergogna a definirsi un “romantico della montagna” mentre la maggioranza dei praticanti rifiuta questa collocazione in nome dello sport e della modernità. Ma allargando il diaframma ci accorgiamo che tutta la storiua dell’alpinismo è divisa tra romantici e anti-romantici, ad iniziare dai pionieri che spesso mascheravano sotto l’alibi scientifico la loro appartenenza al pensiero di Rousseau. Poi vennero gli inglesi, lucidi e disincantati, eppure le pagine più ricche dell’epopea alpinistica appartengono all’Idealismo italiano e tedesco tra le due guerre, infarcito di miti e di eroi dagli elevati contenuti psicologici. E la dualità non è superata neppure nell’arena disincantata e solo apparentemente disinibita dell’alpinismo sportivo, dove nel bene e nel male resistono antiche e nuove proiezioni simboliche. La forza incontrastata della ragione, la presunta “normalità” invocata da Mila, non si è insediata neppure nel nome laico dello sport. C’è sempre qualcosa che ci sfugge, quando cerchiamo di spiegare con criteri razionali l’insensata pratica di chi scala le montagne mettendo a rischio la propria vita. Come Buzzati, siamo smarriti di fronte alla sfida e ci “tocca” accogliere le ragioni dell’anima.
Buzzati non si professava credente, eppure la sua lettura della montagna contiene innegabili riferimenti mistici. La metafora del mistero dell’infinito, unita al perenne sentimento del tempo che passa e della morte che avanza, fa dei monti un altare pagano dove l’uomo cerca il senso (o individua il non senso) della propria vita. Buzzati è un cercatore disilluso e consapevole, ma continua a cercare, sogna un dio in sembianze di creste perfette e cieli cristallini, dove la paura sia sconfitta per sempre. Mila, al contrario, il suo dio l’ha già trovato: nella volontà dell’uomo che domina la natura e conquista la conoscenza. La sua ricerca, però, non può assolutamente limitarsi alla contemplazione, come nelle nostalgie di Buzzati, ma deve per forza estrinsecarsi nell’azione, perché «Dio il mondo l’ha creato, l’ha fatto».
La natura per Buzzati è un santuario, da difendere con tutte le proprie forze («ricordiamoci che più passa il tempo e il progresso tecnico dilaga e le città crescono e la vita è tiranneggiata dalla macchina, tanto più gli uomini sentono il bisogno disperato di fuggire, rifugiandosi nella natura superstite»), mentre per Mila è uno strumento a servizio dell’uomo. Sarebbe ingeneroso rimarcare la cruda polemica condotta dal critico torinese, nell’ultimo periodo della sua vita, contro gli interventi ambientalisti a favore del Parco del Monte Bianco, ma certamente le due premesse portano a una diversa sensibilità ecologica, ben visibile nella comunità alpinistica.
Un altro spartiacque che divide le due concezioni è quello tra l’alpinismo e lo sci alpinismo. I cultori delle pelli di foca non hanno quasi mai espresso un retroterra simbolico a sostegno della propria attività, mentre – con mentalità illuminista – hanno affermato il primato degli attrezzi, l’importanza delle tecniche, il valore delle scienze topografiche o dei rilevamenti nivometrici. Alle motivazioni filosofiche hanno sempre anteposto le applicazioni pratiche, con risultati spesso sorprendenti sul piano delle soddisfazioni. In Mila e in Buzzati la differenza è ancora una volta evidente, là dove il primo – sciatore alpinista incallito – concatena con l’entusiasmo e l’ingenuità di un ragazzo i faticosi 4000 delle Alpi, mentre Buzzati trascura una pratica per lui povera di significato. Ma poi lo stesso Buzzati riscopre lo sci di discesa come contraltare ludico all’austerità dell’alpinismo e, con le dovute riserve, confida all’amico Franceschini:
«Sciando in discesa non si resta che sulla superficie della montagna, però è un giochetto esilarante».
In età ormai matura, si appassiona sempre più all’arte leggera e femminile dello sci, si riprende un po’ di quell’ebbrezza che gli è stata negata dalle scalate, traduce entusiasta il manuale austriaco dello “scodinzolo” e – come ricorda il suo maestro Mandelli – sulla neve è «un bambino felice».
Felice come Mila? No, felice per motivi opposti. Mentre Mila colleziona cime e metri di dislivello, spinto dalla stessa motivazione (e dall’ambizione) che in estate lo sorregge sulla parete est del Grépon o sulle Cime di Lavaredo, Buzzati sugli sci insegue l’utopia del gesto e il sogno della bellezza, che invariabilmente lo riportano ai suoi pensieri:
«Dopo che il divino toboga si estingue a ventaglio su di un vasto pianoro, riprende la febbre. Presto allo ski-lift che riporterà su alla funivia, tornare in cima, rimettere gli sci, buttarsi ancora giù per il favoloso scivolo, scrivere sull’innominabile cateratta bianca irrigidita tra i dirupi, la nostra piccola fatua illusione. Fino a quando?»
Mila non condividerebbe mai questa preoccupazione, nemmeno dopo aver rischiato la pelle nella più assurda delle avventure. Figuriamoci per una banale discesa su una pista battuta! Nei suoi moduli narrativi, che in parte ricalcano una consuetudine di “understatement” tipicamente torinese e in particolare si riallacciano alla scoperta e alla valorizzazione della letteratura anglosassone comune al gruppo degli intellettuali antifascisti piemontesi, prevale sempre l’amore per l’humour e l’ironia.
«Prendemmo possesso della nostra camera da letto. Sulla striscia piana che costituiva il margine inferiore del crepaccio c’era una pietra abbastanza grossa e un mucchietto di sassolini. Io mi sedetti sulla pietra, che risultò grossa circa la metà di quella parte del corpo sulla quale ci si siede; Soravito si sedette sui sassolini. Non so come sia stato lui; io so che non cessai mai di pensare al supplizio detto della “veglia” che fu inflitto a frate Tommaso Campanella, per opera dell’Inquisizione».
Mila scrisse queste amenità di ritorno da una durissima ascensione ai Drus, dove fu costretto a passare buona parte della notte all’addiaccio. «Abbiamo bivaccato ai Drus? Ma no, che esagerazione! Semplicemente siamo rientrati un po’ tardi, ecco tutto».
Anche nel narrare le emozioni dei protagonisti, la cultura alpinistica oscilla sempre tra due modelli – il sacralizzante e il dissacrante – che spesso nascondono altrettanti tranelli. Dietro alla retorica della montagna mistica e spirituale (da cui Buzzati rimane quasi miracolosamente indenne) si cela spesso il disadattamento sociale dell’alpinista che si rifugia nel suo mondo incantato e, per giustificare una sconfitta personale, disprezza gli uomini del piano con cui non ha imparato a convivere. All’opposto, dietro alla retorica del disincanto – la cui parola d’ordine è “tutto facile, tutto insignificante (tranne i miei meriti)” – si nasconde invece l’incapacità di accettare la presenza del rischio e l’eventualità drammatica della morte in montagna. Sicuramente i nostri vecchi hanno esagerato con le tragedie, ma oggi chi è più capace di raccontare una morte con parole non convenzionali? Di solito la si esorcizza con il silenzio, la si ignora. L’apparente modernità del pensiero di Mila – vitale risposta elle inquietanti e impegnative riflessioni buzzatiane – nasconde dunque sotto il legittimo desiderio di liberazione un altrettanto impegnativo carico di rimozioni, che portano altre contraddizioni e altre sofferenze.
Gli alpinisti cercano ancora la loro sintesi e la loro armonia.
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