Prima che arrivasse la strada il Breuil era la conca dei poeti. C’erano solo una chiesetta, qualche casa d’alpeggio e il vecchio Giomein arrampicato verso il cielo del Cervino. Nel 1903 Edmondo De Amicis scriveva che «la prima maraviglia, per chi arriva col tempo bello al grand’albergo del Giomein, dopo tre ore di salita a dorso di mulo, è l’aria. È una sensazione per la quale vi parrebbe una similitudine troppo materiale quella d’un bagno dove si bevesse per tutti i pori un liquido inebriante…». Ma forse era un abbaglio, forse era già cambiato tutto quarant’anni prima, quando l’inglese Whymper e il valdostano Carrel si erano sfidati sulle creste del Cervino e la Gran Becca era diventata oggetto di seduzione borghese e i cittadini salivano ad ammirare la cima domata. Mentre Guido Rey scriveva pagine d’amore per la più bella montagna del mondo, le villeggianti con le gonne lunghe e gli alpinisti con i pantaloni alla zuava ripetevano come un mantra che il silenzio del Breuil e la piramide del Cervino erano sacre espressioni di bellezza e andavano difesi con ogni mezzo.
Nessuno prevedeva che la modernità sarebbe arrivata con due assi di legno detti “ski”, l’invenzione che nel Novecento scardina i vecchi valori della montagna. Là dove la fatica regolava le vite dei valligiani e la salita scandiva le imprese degli alpinisti, si scopre che il pendio, rovesciando la prospettiva, sa regalare l’ebbrezza della velocità, l’erotismo delle curve e il piacere fine a se stesso, senza pagare dazio alla severa religione dell’Alpe. Così all’elitaria poetica dei De Amicis e dei Rey, sotto lo sguardo complice del fascismo subentra una visione populistica delle cime. La montagna per tutti. Rimuovendo il romanticismo delle origini, si punta a promuovere, diffondere e moltiplicare l’accesso. È il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dal regime, alla fine della Grande Guerra ricalcano la strada degli alpini per prendere parte ai campeggi estivi, alle adunate giovanili, alle associazioni escursionistiche e ai treni della neve. Gli italiani s’innamorano dello sci.
Il matrimonio è presto fatto: se lo sci rappresenta la nuova visione, il Breuil sembra disegnato dal dio degli sciatori. Pendii dolci, assolati e senza fine, all’ombra del Cervino. Come a Sestriere la famiglia Agnelli ha creato una città della neve, al Breuil si può fare altrettanto e di più. Dunque i cittadini incalzano i montanari perché cedano la terra e nel 1933 la famiglia Maquignaz vende all’ingegnere biellese Dino Lora Totino e alla sua cordata di imprenditori il primo lotto di pascolo: 11.000 metri quadrati, 10 lire al metro. Nell’ottobre del 1934 la prima automobile FIAT entra nella piana del Breuil sulla nuova strada sterrata, due anni dopo la funivia raggiunge Plan Maison e Gianni Albertini inaugura l’Hotel Cervinia progettato dall’architetto Mario Cereghini. L’invenzione semantica di Cervinia è un omaggio al fascismo in dispregio alla lingua francese. «Cervinia, nome squillante ed italianissimo» si compiace nel 1937 il suo “inventore” Lora Totino. Ma Cervinia non è solo un ossequio all’italianità. Cervinia è la definitiva cancellazione del vecchio Breuil.
La neve è moderna, la fatica no. Sulla scia di Sestriere, anche a Cervinia s’impone il binomio automobile-sci, con un’innovazione in più: la via aerea, la funivia. Sono i simboli del futuro, e cancellano la storica convinzione che l’alpe debba essere lenta e faticosa. Se gli anziani dicevano che «la montagna si conquista con il sudore», in automobile e in funivia non suda più nessuno. I nuovi valori sono l’opposto della fatica: facile accesso, velocità e divertimento. E l’inverno diventa la “bella stagione”, perché c’è la neve e si può scivolare, inebriarsi, festeggiare e dimenticare. Cambia il costume. Donne dalle forme generose seducono i visitatori dai manifesti promozionali, il lusso esibito nei ricevimenti mondani, il bel mondo con gli scarponi ai piedi, le attrici immortalate sui campi di neve allontanano per sempre la memoria della montagna austera e fuori moda. I primi ospiti di Cervinia sono i gruppi sportivi delle università di Oxford e Cambridge, nel 1936. I giovani rampolli inglesi imparano a sciare con i migliori maestri. «Meglio di Zermatt» dicono al ritorno, «c’è il sole e si mangia italiano». L’inverno successivo arrivano altri inglesi, e gli americani. Una calamita. Passeggiando per le vie del paese ci s’imbatte in Herbert von Karajan, Enrico Fermi e Albert Einstein. E poi attori, registi, cantanti, il mondo del cinema e dello spettacolo. Cervinia è un set.
Cervinia è anche un cantiere. Tutti sognano affari, costruiscono e intraprendono nella grande conca; pochi sembrano preoccuparsi dell’impatto e del risultato estetico. Si commissionano piani regolatori ai più illuminati pensatori del momento, ma le carte e i piani passano da menti fini (Cereghini, Brioschi, Olivetti) a occhi abbagliati dalla neve, dai guadagni e dall’entusiasmo. Infine prendono polvere in un cassetto. Se architetti audaci come Carlo Mollino progettano edifici lontani dalla tradizione si grida allo scandalo, e in molti alzano la voce contro la famosa Casa del Sole in cui si “entra cittadini e si esce sciatori”, ritenendola offensiva del paesaggio e non capendo che la vera offesa non è il futurismo progettuale, bensì la mancanza di progetto, l’anarchia costruttiva e il facile conformismo. A Cervinia, come in molte altre stazioni sciistiche delle Alpi, si preferisce replicare il modello urbano esportando semplicemente i condomini sui campi di neve. Infine Cervinia diventa una città d’alta quota.
Giusto? Sbagliato? Bello? Brutto? Il dibattito scivola spesso nel confronto con Zermatt, sul lato opposto del Cervino. A parte l’indubbia lungimiranza di aver tenuto fuori dal paese le automobili, si attribuisce a Zermatt la vittoria del rustico sul moderno e la scelta della conservazione contro il tradimento edilizio. Anche gli alberghi più grandi assomigliano ai vecchi “rascard” della tradizione contadina, il legno trionfa sul cemento e lassù, in Svizzera, esiste un paese incontaminato dove il tempo si è fermato. Un altro abbaglio, naturalmente, perché Zermatt non è il luogo dell’innocenza. In un’analisi comparativa dei due modelli urbanistici pubblicata nel 1996, gli architetti Antonio De Rossi e Gianni Ferrero lasciano trapelare l’idea – geniale e provocatoria – che Zermatt sia un villaggio inventato e Cervinia una città fuori luogo:
«Le due località sono ugualmente artificiali – argomentano gli autori sulla rivista “Alp” –. Zermatt nella forma del villaggio immaginato dal cittadino, Cervinia nella forma dell’intervento azzardato, del modernismo radicale degli anni settanta. Politica del turismo contro politica edilizia…» Zermatt è più finta di Cervinia e «il maquillage delle abitazioni, le boiserie degli interni dei ristoranti, il McDonald in stile alpestre, non sembrano altro che il contraltare al dominio tecnologico sulla montagna».
Resta il fatto che a Cervinia ci si è troppo frettolosamente liberati del passato come per scrollarsi una zavorra di dosso, mentre a Zermatt il passato è rimasto l’anima del villaggio in senso storico, economico e simbolico. Persino il cimitero in cui riposano i poveri compagni di Whymper, precipitati dal Cervino dopo la prima ascensione del 1865, è un museo all’aria aperta. Cervinia e Zermatt incarnano dunque esattamente le contraddizioni del turismo contemporaneo, che oscilla quasi sempre tra due estremi: da un lato la trasformazione dell’ambiente secondo logiche da “divertimentificio”, dall’altro la “folclorizzazione” della realtà locale. Due strategie a uso e consumo del forestiero, che in fondo cerca ovunque una rappresentazione. Succedeva già molti anni fa all’eroe tarasconese di Alphonse Daudet e al suo camoscio ammaestrato, che di giorno recitava la parte del selvatico e la sera scendeva a bersi la sua ciotola di vino caldo sulla veranda del “Camoscio fedele”, l’albergo di Tartarino.
Accettato il fatto che la montagna “autentica” non esiste, perché anche le terre alte appartengono a un mondo in continua e rapida trasformazione, si possono certamente trovare dei luoghi più appartati per spiare il Cervino. In Valtournenche si può scegliere tra Chamois, l’unico comune delle Alpi raggiungibile solo in funivia, senza motori e senza automobili, e Torgnon sul lato opposto della valle, un balcone naturale dove batte quasi sempre il sole. Il loggione privilegiato è un terzo luogo, Cheneil, il villaggio sospeso da cui si ammira la Becca dall’alba al tramonto, come faceva Lalla Romano quando soggiornava tra i pascoli sotto il Grand Tournalin. Alla Romano i prati di Cheneil ricordavano il Breuil dei tempi andati, e dopo molte villeggiature che assumevano sempre più il senso di un pellegrinaggio la scrittrice coniò per la verde conca delle sue vacanze un nome di fantasia: Pralève. Un’invenzione letteraria, la difesa di un segreto, il titolo di un libro. Nella prima pagina si legge:
«Gridi rombi canti di acque sono i suoni della conca ed erano anche quelli della valle, un tempo. Ora soltanto a Pralève si sentono ancora. La valle, non più solitaria, è percorsa dalle automobili che non possono fare in senso inverso il balzo del torrente, e nemmeno risalire come il mulo la faticosa mulattiera scavata nei salti della roccia, insinuata tra pietra e pietra, seminascosta tra i cespugli o nel bosco di larici. Non è comodo arrivare a Pralève. Non è neanche comodo starci, nel senso che mancano parecchi “conforti”; e questa è la seconda ragione del suo privilegiato isolamento. Conviene tralasciare le altre: è come cercare le prove dell’esistenza di Dio».
Oggi si sale a Cheneil in ascensore. Per fortuna non fa rumore.
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