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Evoluzione sul ghiaccio: tre epoche, tre rivoluzioni

Catalogo della mostra. Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1.aprile – 3 luglio 2022.

La scalata su ghiaccio ha vissuto tre epoche d’oro. La prima corrisponde agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le guide salgono con lunghe piccozze e scarponi chiodati le più belle creste ghiacciate delle Alpi e alcuni ripidi pendii. Il secondo periodo comincia dopo il 1908, con l’invenzione del rampone a dieci punte che successivamente diventano dodici. Negli anni Settanta del Novecento arriva la terza rivoluzione, quando sulle Alpi approda la nuova tecnica di arrampicata sperimentata con successo sui canali gelati delle cime scozzesi e americane, in particolare da Hamish MacInnes e Yvon Chouinard. Con affilati ramponi multipunte sotto gli scarponi e due piccozze dentate nelle mani, gli scalatori del ghiaccio non devono più sottoporsi al lungo ed estenuante lavoro di gradinamento. È una rivoluzione che sovverte i tempi e i tabù del passato, spalancando le frontiere dell’estremo.
Ecco che cosa succedeva nel 1968 sulle Grandes Jorasses:
«In due giorni avanziamo solo di duecento metri. Dobbiamo incidere delle tacche nel ghiaccio per i piedi e per le mani; è così duro che rompo due chiodi da ghiaccio a cavatappi mentre i tubolari entrano a fatica e non tengono bene. Devo piantarli con grandi colpi di martello, ma si piegano e si strappano con una mano sola… Non è più alpinismo, ma lavoro forzato!»
L’autore del racconto è René Desmaison, il più famoso alpinista di Francia. Nel gennaio del 1968 ha deciso di appendersi con Robert Flematti al Linceul, il Lenzuolo, sulla parete nord delle Grandes Jorasses. La scalata è trasmessa in diretta radiofonica. Sembra che la tecnologia abbia finalmente la meglio sulle ripide pareti ghiacciate, e invece ci vogliono nove giorni perché una delle più forti cordate veda la cima dello scudo vetrato su cui non batte il sole. La lentezza dipende dalla tecnica e dai materiali, che hanno fatto grandi progressi in roccia ma sono rimasti quasi bloccati, anch’essi congelati, nell’arrampicata su ghiaccio. Anche se le piccozze si sono fatte più corte, dentate e leggere, oltre i cinquanta gradi di pendenza serve ancora scavare centinaia di scalini per salire.
Sei inverni dopo è cambiato tutto. Le guide Walter Cecchinel e Claude Jager scalano in tre giorni il couloir nord est dell’Aiguille du Dru sul Monte Bianco, uno spaventoso budello di ghiaccio che si insinua tra il Grand e il Petit Dru facendo impallidire la fama del Linceul. L’ultimo giorno del 1973 Cecchinel e Jager affrontano una cascata gelata con pendenze vicine alla verticale:
«Walter non vuole barare – scrive Jager –, non è certo il caso per 15 metri a ottanta gradi di fare la scala per galline… Due chiodi e il mio compagno sparisce al di là della cascata; un terzo chiodo e poi ecco la sosta dopo 35 metri, proprio a picco sopra la mia testa. Caccio in fretta il materiale da bivacco nello zaino e salgo il più veloce possibile per scoprire che cosa ci aspetta su. Ancora ghiaccio, sempre ghiaccio, ripidissimo, a lambire il cielo, dove un essere vivente fa la sua apparizione. «Ma da dove vengono quelli?» sembra dire il corvaccio che volteggia sulle nostre teste».
È tutto un altro arrampicare da quando la tecnica dei ramponi a punte avanti è entrata nel bagaglio degli alpinisti. L’innovazione decisiva deriva dal modo di impugnare la piccozza e dalla curvatura speciale degli attrezzi. All’École Nationale de Ski et Alpinisme di Chamonix la nuova tecnica è stata definita piolet traction; Walter Cecchinel la insegna dal 1970 alle aspiranti guide del Monte Bianco.
«La novità – spiega ancora Jager – consiste nell’impugnare la piccozza non più secondo il sistema di ancoraggio classico, il vecchio metodo francese, né in appoggio, l’attuale tecnica austro-tedesca, ma afferrando con la mano la parte bassa del manico. L’altra mano esercita anch’essa una trazione servendosi di un martello da ghiaccio a becco ricurvo, o di una seconda piccozza con le medesime caratteristiche. Così si procede con il massimo di sicurezza anche sui pendii più ripidi e persino al limite della verticale».
La tecnica frontale alza di colpo le prestazioni abbattendo i tempi di scalata. È un po’ come reinventare l’arrampicata su ghiaccio, scoprendo linee di salita che prima degli anni Settanta sembravano inimmaginabili: colatoi verticali, seracchi, cascate congelate. Si scala sull’acqua e sull’effimero. Dopo la storica salita di Cecchinel e Jager ai Drus, sono ancora i francesi a raccogliere e applicare sistematicamente sulle Alpi la magia del piolet-traction. Jean-Marc Boivin e Patrick Gabarrou s’impongono come gli interpreti più brillanti e fantasiosi, frantumando i tabù della scalata. Salendo il Supercouloir del Mont Blanc du Tacul, un budello dove qualche volta un serpente di ghiaccio aderisce misteriosamente alla roccia, nel 1975 dimostrano che si può sperimentare un nuovo alpinismo. Per esempio si può scalare in meno di tre ore (Boivin, 1977) il famoso Linceul di Desmaison e Flematti senza neanche sentirsi superiori: semplicemente più veloci. Ogni sogno è possibile con il gelo, basta aspettare che il ghiaccio offra la possibilità di piantarci gli attrezzi.
In Italia, a pochi anni di distanza, entra in scena un’altra coppia di giovani che vuole misurarsi con la sfida delle cascate gelate, dei seracchi sospesi e dei couloir fantasma che appaiono e scompaiono come in un incantesimo: è la cordata di Gian Carlo Grassi e Gianni Comino. I due piemontesi formano un’alleanza geniale ed eterogenea. Nel 1978 lasciano la prima firma d’avanguardia sull’Ypercouloir delle Grandes Jorasses, in pieno sud, dove superano tratti di cascata verticale correndo di notte per precedere il sole. Nel 1979 affrontano due seraccate da cui gli alpinisti di ogni tempo si erano tenuti a debita distanza: il seracco aggettante del Col Maudit e il seracco di sinistra della Poire, la Pera, sulla parete della Brenva. Il 28 febbraio 1980 Comino riparte per un progetto ancora più azzardato e visionario: il colatoio chiuso tra gli speroni della Major e della Poire, sempre sulla Brenva. Ormai vicino all’uscita dal gelido imbuto, proprio dove la cupola del Monte Bianco luccica come una chimera, il solitario alpinista che voleva diventare medico è colpito da una scarica di ghiaccio e precipita. Con Comino se ne va uno dei più sublimi ghiacciatori di sempre e Grassi deve ripartire senza di lui.