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Il cavaliere dell’ideale

Torino ha un cattivo rapporto con i figli migliori: qualche volta li dimentica, che è un modo assai sabaudo di tradire, altre volte li santifica, rendendoli astratti, incorporei, umanamente inesistenti. A Giusto Gervasutti è toccato il secondo trattamento, anche se si potrebbe obiettare che Gervasutti non era torinese, perché veniva dal Friuli, e lo è diventato in uno dei periodi più oscuri e contrastati della storia italiana: gli anni Trenta del Novecento. Ma questo non toglie niente alla sostanza: uno dei più geniali alpinisti di tutti i tempi è stato garbatamente rimosso dalla memoria subalpina e solo dopo il Duemila, a oltre cinquant’anni dalla sua morte prematura, si è tentato di restituirgli spessore umano e prospettiva storica.
Oggi sappiamo molto di Gervasutti, ma non tutto. Sappiamo che è nato nel 1909 a Cervignano del Friuli ed è cresciuto in un centro agricolo di pianura, figlio unico, pochi amici e due genitori forse troppo impegnati all’emporio di famiglia; Giusto si è formato alpinisticamente sui calcari delle Alpi Giulie e delle Dolomiti, ha scoperto le Alpi occidentali durante il servizio militare e, per motivi non chiari, nel 1931 ha deciso di trasferirsi a Torino appoggiandosi a parenti ospitali. Restano i misteri, e sempre rimarranno, circa i delicati rapporti con il fascismo e le sue occupazioni professionali nei primi anni torinesi. Una leggenda metropolitana racconta che sarebbe venuto in Piemonte per iscriversi all’università, anche se lui non l’ha mai scritto. Forse l’ha lasciato credere. Il particolare emerge da alcune testimonianze di amici e da un articolo di Guido Pallotta sul Popolo d’Italia del 27 gennaio 1934. Tra i componenti della spedizione diretta in Sudamerica risulta un certo “Gervasutti, studente in Scienze Commerciali”. Lui si dichiara studente fino alla spedizione andina, e per il passaporto lo è ancora nel 1937. In effetti l’iscrizione all’università avrebbe senso sulle orme degli alpinisti “orientali” che frequentarono l’ateneo subalpino – Prati, Rudatis, Videsott e Ortelli –, ma il friulano, che pure bazzica studenti e docenti annusando l’ambiente accademico, non segue le loro orme. I parenti stretti lo credono al Politecnico, gli amici torinesi a Economia (che all’epoca è il Regio istituto superiore di Scienze economiche), l’alpinista francese Lucien Devies lo pensa a Giurisprudenza e un ammiratore lo immagina già ingegnere, un mestiere che gli starebbe bene addosso. È tutto falso, perché Giusto nel 1930 s’è iscritto al Corso per Tecnici dell’Istituto superiore Avogadro, una specie di Politecnico in forma minore. Nel 1931 ha frequentato i corsi superando otto esami e poi ha abbandonato gli studi.
Basta scuola! Solo montagna. Per tre anni, sembra che la testa e le energie siano rivolte esclusivamente alle scalate, anche perché conosciamo quasi tutto della sua vita sopra i duemila metri e piuttosto poco dell’altra, quella cittadina. Abita non lontano dal centro di Torino e frequenta la gente del centro. Soprattutto studenti, intellettuali, professionisti e alpinisti, tra cui il docente di Anatomia Alfredo Corti e il prossimo musicologo Massimo Mila, studiosi di vaglia e futuri antifascisti.
Giusto è un bel giovane, affabile e affidabile. Piace alle donne e a tutti quelli che nutrono aspettative alpinistiche. Si concede qualche lusso, offrendo in cambio servizi da capocordata. Colpisce la varietà dei compagni di montagna, sempre inferiori a lui tranne Gabriele Boccalatte in roccia e Renato Chabod sul ghiaccio; alterna grandi scalate a facili gite, secondo le occasioni della vita e i capricci del tempo, anche se ha ben chiari gli obiettivi e non nasconde le ambizioni: «Iniziai il secondo periodo – ricorda riepilogando la propria vita –, quello della preparazione fisica e spirituale a qualunque grande impresa. Di questo periodo, che va fino alla fine del 1933, io ricordo bene soprattutto l’atmosfera nella quale vissi le ore che non si dimenticano».
Con Boccalatte, pianista assai dotato e delizioso arrampicatore, avrebbe probabilmente condiviso grandi successi se Gabriele non si fosse innamorato perdutamente della milanese Ninì Pietrasanta, cominciando a scalare con lei, mettendo su famiglia e allontanandosi dai compagni originari. Con Chabod, Giusto forma una cordata solida e vincente per alcuni anni, finché il valdostano non abbandona l’alpinismo di alta difficoltà. In seguito trova un ottimo compagno e amico in Lucien Devies, anche se il fascismo tenta di separarli con stupidi pretesti nazionalistici.
Gervasutti segue l’istinto e il talento, avvicinandosi rapidamente al sesto grado; dopo il necessario adattamento alle Alpi occidentali, nel 1934 s’affaccia all’alpinismo di ricerca e alle vie nuove estreme. Predilige la roccia granitica. Sa bene dove vuole arrivare, ma non è uno scaltro programmatore. Sembra accettare con un certo fatalismo i compagni di percorso e prova a conciliare l’incessante bisogno di superarsi («osa sempre per essere simile a un dio», dice l’ultima riga dell’autobiografia) con un adattamento fin troppo paziente al secondo di turno. Potrebbe raccogliere molto di più se fosse un filo più opportunista, ma non ci riesce. È un altro dei suoi segreti.
Il mistero principale della maturità resta il rapporto con il fascismo, che influenzava pesantemente gli alpinisti di punta dell’epoca. Sappiamo che nel 1937 Giusto si associa al Gruppo Mussolini del fascio di Torino e nel 1942 passa al Gruppo Corridoni. L’iscrizione del 1937, motivata da ragioni pratiche, corrisponde all’inizio della vita lavorativa e anche al prossimo impegno nei corsi di alpinismo. Gervasutti non si oppone mai al regime, anzi pare assecondarlo, ma intanto frequenta nemici dichiarati del fascismo come Massimo Mila e, su testimonianza dello stesso Mila, non partecipa al dibattito più per ragioni filosofiche che per scelta ideologica. Il friulano non crede che con la politica si possa cambiare il mondo. Ufficialmente è fedele al “nome sacro del Fascismo”, come scrive con una certa accondiscendenza l’8 giugno 1934 in una cronaca dalle Ande, personalmente tiene le distanze. I gerarchi non riescono a farne un’icona del regime perché il “campione” non predica l’ideologia e non si mostra in pubblico. È un uomo riservato: predilige lo stile anglosassone di Albert Frederick Mummery, il pioniere britannico «che faceva grandi salite senza retorica e senza atteggiamenti epici», annota con ammirazione. Come Mummery, Gervasutti crede al talento poco esibito e all’impresa non urlata, apprezza l’understatement, il riserbo e l’autoironia. In questo è esattamente agli antipodi del linguaggio fascista.
L’impresa che lo rende famoso è la salita solitaria invernale della cresta del Leone al Cervino, che non è affatto una scalata estrema, ma unisce in sé gli elementi cari al grande pubblico: il Natale (1936), la fama della Gran Becca e l’atteggiamento solitario, letto come eroico. Lui stesso, nell’autobiografia, sceglierà parole vagamente superomiste per spiegare i sentimenti prima dell’ascensione:
«Ultimata la preparazione del sacco esco per le vie della città per dar aria alla mia eccitazione. Quasi automaticamente salgo al Monte dei Cappuccini… Sopra il Gran Paradiso due nuvolette riflettono ancora l’ultimo sole. Sotto di me la città sta accendendo le prime luci… Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel recinto sociale… Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro, ma oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua libertà. Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte…»
Il vero motivo del successo sta nel fatto che il Cervino domina Breuil-Cervinia, la nuovissima città della neve, invenzione assai gradita al regime e al bel mondo borghese. L’inviato del Corriere della Sera scrive: «Si è visto un chiarore alla capanna del Cervino e l’insolito segno di vita ha richiamato l’attenzione dei numerosi sciatori che soggiornano negli alberghi del Breuil, cosicché l’ardita impresa è stata seguita da una vera folla a mezzo di binocoli e cannocchiali… Al ritorno l’alpinista solitario si è trovato in mezzo a una folla di ammiratori che l’ha preso letteralmente d’assalto».
Le guide del Cervino gli offrono un bicchiere, il locale si affolla di gente, i curiosi e le ammiratrici fanno la fila. «Che bell’uomo, questo Gervasutti…» «Hai visto gli occhi?» «Sono neri?» «No, sono castani.» «Che begli occhi, comunque.» Lo festeggiano fino a notte e la dorata Cervinia si contende il suo Ulisse a giri di grolla.
In realtà, Giusto è andato al Cervino per riprendersi da un trauma e una convalescenza. Nell’estate del 1936 ha portato a termine un’impresa incredibile, scalando con Devies la parete nord ovest dell’Ailefroide, tetra e altissima muraglia degli Ecrins, dopo essersi ferito gravemente nel raggiungere la base. Chiunque altro sarebbe tornato indietro, ma lui ha «sentito subentrare un’inaudita insensibilità di riflessi. Tutto il mondo sensibile che lega al resto della vita è scomparso, annullato dalla sola volontà di azione. È l’euforia folle del combattente che si lancia a corpo perduto contro l’arma spianata». La scalata con la bocca insanguinata e due costole rotte è durata 56 ore, tra momenti epici e dolori lancinanti. Completamente soli nella solitudine del Delfinato, Gersavutti e Devies non si sono resi conto di scrivere una pagina fondamentale della storia dell’alpinismo, pari a quelle sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Il solo a dar peso all’impresa è stato il dottor Couturier, che ha visitato Giusto di ritorno in città:
«Il comportamento del paziente dopo l’incidente – osserva l’affettuoso referto – fu quello di un soggetto che mostra una resistenza al dolore fuori dal comune e una volontà sovrumana nell’affrontare due bivacchi di alta montagna, e soprattutto nel portare a termine, sempre in testa alla cordata, una “prima” tra le più celebri dell’Oisans. Si può parlare di stoicismo degno di un antico romano, ma anche di gran cuore per l’uomo che non volle deludere l’amico Devies obbligandolo a rinunciare.»
I compagni di cordata confermano il “gran cuore”. Quando una corda resta impigliata durante la discesa, è sempre Giusto a offrirsi per risalire. Se l’amico non ce la fa, è lui a caricarsi generosamente il peso. Ma l’aspetto che lo rende ancora più umano, in netto contrasto con l’immagine eroica che gli è stata cucita addosso, è la disponibilità verso i principianti e i neofiti, dapprima nelle gite sociali e poi nelle scuole di alpinismo. È come se Gervasutti sentisse il bisogno di restituire alla collettività il talento e l’esperienza che possiede, condividendoli con i giovani. Senza lesinare consigli.
Per capirlo bisogna accettarne la doppia indole: l’idealismo dell’alpinista e il pragmatismo dell’uomo. Le due nature si rispettano e convivono. Sono due facce della stessa persona, una festiva e l’altra quotidiana. Mentre il Gervasutti di ogni giorno annota appuntamenti e spese con la precisione del ragioniere, svolgendo mansioni ordinarie e onorando meticolosamente gli impegni feriali, l’altro Gervasutti ha bisogno dell’ispirazione. Da maestro del verticale, deve sentire il libero richiamo della montagna per lanciarsi nell’avventura, mentre la gara lo indebolisce, snaturandolo. Per questo ha perso tutte le sfide dell’epoca: Grandes Jorasses, Eiger, eccetera.
Il friulano coltiva un’idea cavalleresca dell’alpinismo. Quando nel 1939 i lecchesi Ratti e Vitali salgono a casa sua, a Courmayeur, per tentare la via diretta sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, e non hanno idea di come sia fatta la parete, lui, il loro concorrente, disegna il profilo triangolare della montagna su un foglio di carta e traccia una riga nel punto giusto: «La via buona è su di lì, buona fortuna».
Nel 1937 è diventato torinese a tutti gli effetti. Rompendo i ponti con il Friuli, ha spostato formalmente la residenza anagrafica in corso Regina Margherita, non lontano da Porta Palazzo. Per Giusto è di nuovo un momento di passaggio. Tra il 1937 e l’inizio della guerra si delineano i caratteri e le abitudini del trentenne, un neo imprenditore che viaggia in automobile e si occupa di sughero e altri commerci indossando abiti elegantemente dimessi. Ama i tessuti di taglio scozzese, lana d’inverno e velluto in estate, e nel tempo libero veste alla montanara esibendo i calzettoni e gli scarponi come una divisa. Una fotografia in bianco e nero lo ritrae in piazza San Marco, a Venezia, con una gentile fanciulla. Le sta accanto con i calzettoni bianchi, gli scarponcini e il giubbotto sportivo. Mostra lo stile dello scalatore anche in riva al mare.
Nel 1938 si scioglie la cordata Gervasutti-Devies e rinasce il legame con Boccalatte, che nel frattempo ha sposato la Pietrasanta ed è diventato padre. A luglio Boccalatte è sotto il Bianco per la campagna estiva, con Ninì e il bambino. È in parola con Gervasutti, che giungendo a Courmayeur all’inizio di agosto scopre che Riccardo Cassin è stato visto al Colle del Gigante con una cartolina dello sperone Walker. Pessima notizia. Per di più Boccalatte è andato alla cresta dell’Innominata. Giusto si sente fregato per la seconda volta, perché ha già perso la corsa allo sperone Croz. Le solite Jorasses, la vecchia gara. Maledetta indecisione! Corre a cercare Arturo Ottoz, la più forte guida del Monte Bianco, e nel tardo pomeriggio si mettono in cammino. Arrivano al rifugio Torino di notte, dormono sulle panche, ripartono per la capanna Leschaux. Sul ghiacciaio trovano il giornalista Guido Tonella e la conferma del disastro: Cassin è in parete con Esposito e Tizzoni. Sale inarrestabile, la Walker ormai è sua.
Quando Giusto e Gabriele finalmente s’incontrano, devono cercare un’altra meta. Boccalatte propone il pilastro sperduto sopra i seracchi del Frêney, tra la Noire e la Blanche de Peutérey, che precipita per seicento metri dalla cima del Pic Gugliermina. Salgono alla capanna Gamba, dove oggi c’è il rifugio Monzino, adocchiando il pilastro arrossato dal tramonto. Ripartono con la luna, tribolano sul ghiacciaio, toccano le rocce. Il pilastro s’impenna verso pendenze dolomitiche e la scalata è delicatissima, su roccia frantumata e ricompattata dalle pressioni del ghiacciaio. I chiodi entrano a fatica e bisogna scappare via veloci, d’istinto. Non è un posto per deboli di cuore. Dopo un giorno di arrampicata, un bivacco e altre ore di scalata toccano la cima del Pic Gugliermina, che è una piccola guglia affacciata sulla lunga cresta del Peutérey. Sono appagati e si stringono la mano, felici. Cinque giorni più tardi arriva la terribile notizia che Boccalatte è morto con Mario Piolti nel bacino del Triolet. Una scarica di sassi sull’Aiguille. Gervasutti, dopo due giorni tristissimi, si carica la bara sulla spalla e lo accompagna con gli amici al cimitero di Courmayeur. La foto di un autore ignoto mostra un uomo curvo e invecchiato nell’abito di velluto; Giusto appoggia la mano sulla schiena di chi lo precede, come gli mancasse l’equilibrio.
Sono lutti che lasciano il segno negli animi sensibili, anche se il friulano sa di non avere scelta. Gli piacerebbe possedere talento d’artista e indirizzare la febbre creativa su una tela, o uno spartito di musica, ma il suo talento è arrampicare, che vuol dire salire e ridiscendere senza fine, come Sisifo, inseguendo nuovi sogni e altre illusioni. È fin troppo cosciente che la felicità dell’alpinista sia un istante effimero, sa che inevitabilmente dovrà fare i conti con il trascorrere degli anni e il calare delle energie. Non si vede vecchio e prevede di morire in montagna.
Lo confida all’amica Maria Luisa, figlia dell’alpinista Umberto Balestreri, che ha perso il padre in un crepaccio e trema alla prospettiva di perdere anche l’uomo che ama. I due parlano di matrimonio, ma Giusto si mostra duro per proteggerla. Pensa che uno scalatore dell’estremo non possa permettersi un legame per la vita, una famiglia, dei figli, se un brutto giorno non vuole distruggere chi gli sta accanto. Così si avvicinano e si lasciano molte volte, senza mai spingersi oltre.
Intanto si addensano le ombre della seconda guerra mondiale e il 3 giugno 1940 Giusto è richiamato al fronte, sul Monte Bianco, con il grado di sottotenente di artiglieria. Comanda un manipolo di alpini, alpinisti e guide che hanno il compito di presidiare il rifugio Gonella sulla via normale italiana, ma fortunatamente gli alpini e i chasseurs mantengono la promessa di non far male. L’assurda febbre del conflitto si consuma senza troppi danni e a luglio i fucili tacciono; i nemici-amici del Monte Bianco brindano alla serenità ritrovata e ripensano alle scalate.
Gervasutti ha messo gli occhi sul magnifico pilone nord del Frêney, che sale in cima come un dito disteso. S’è accordato con Paolo Bollini, un ventenne magro e gentile uscito dai corsi della Scuola Boccalatte. Sa che Paolo ha il tempo e l’incoscienza necessari per tentare la scalata in capo al mondo. Bollini infila nello zaino una gigantesca porzione di arrosto con i funghi e lasciano la Val Vény per raggiungere il pilone dopo un avvicinamento eterno, alle dieci del 13 agosto. È tardi per cominciare una scalata di settecento metri, ma sotto il pilone Giusto vive la mutazione dei giorni grandi: posa le mani sul granito, assorbe il tepore, ingrana la marcia e va. Arrampica come un fulmine senza battere chiodo, con Paolo all’inseguimento.
A mezzogiorno hanno scalato il primo terzo, il più facile. Poi arriva la gran placca a strapiombo, passaggio chiave, un muro rosso tagliato da due fessure di cui una promette di riprendere lo spigolo: «Per più di un’ora – ricorda Bollini –, a perpendicolo sulla mia testa, Giusto guadagna faticosamente quota, centimetro per centimetro». Dopo la fessura ce n’è un’altra, e dopo la placca un muro gigantesco. Bollini è perplesso, pensa “adesso siamo fregati”, ma Giusto ci crede e «lo attacca con tale decisione che un quarto d’ora e tre chiodi gli sono sufficienti per superare l’ostacolo». L’ultimo terzo del pilastro è gelato e devono lottare fino a notte inoltrata per venirne fuori, poi incontrano un grande seracco verdazzurro. Due filate al cardiopalma li portano sotto l’ultimo muro di neve, che il friulano lavora di piccozza «in un crescendo di toni e variazioni emotive quali neppure una composizione di Wagner…». Escono a mezzanotte. Gervasutti gioisce perché non è mai stato in cima al Monte Bianco.
Dopo il pilone può puntare al sogno della vita: la parete est delle Grandes Jorasses, il muro di protogino più sperduto, un’impresa che anticipa di quindici anni la storia. Fantalpinismo, all’inizio degli anni Quaranta. Prova con Bollini e torna indietro. Due anni dopo riprova con Giuseppe Gagliardone, trova una via ma deve calarsi sotto la bufera. Ripartono il 16 agosto 1942, macinando dislivelli sulle tracce di se stessi. Alle due del pomeriggio sono ai piedi della torre dall’aspetto yosemitico, il punto cruciale. Nessuno ha mai superato simili difficoltà sul Monte Bianco.
«Dopo tre metri duramente guadagnati, ho la netta impressione che cinquanta centimetri di più mi farebbero volare. Già il discendere diventa problematico. Allora incastro una gamba più a fondo possibile e, allungandomi sulla parete di destra, trovo un’incrinatura chiusa dove pianto un chiodo che entra tre centimetri…»
Ogni volta che le fessure sembrano interrompersi, confida nell’impossibile e trova un sistema per andare avanti. La roccia monolitica è il risultato di frane ciclopiche seguite da millenari fenomeni di erosione. Tutto quello che c’era da togliere è stato asportato dall’acqua e dal gelo; bisogna adattarsi alle poche pieghe:
«Metro per metro avanzo faticosamente. Ecco, ora la fessura finisce, ma, sollevato sull’ultimo chiodo, già le mie mani arrivano alla fine del muro, dove la roccia rientra nettamente. Fino all’ultimo, l’incubo di non poter passare resta su di noi. Le dita si agganciano ad esili rughe… “Pronto?” “Pronto.” “Molla tutto!”».

Mentre le corde si allentano, scatta oltre il chiodo. Afferra il bordo dell’ultimo strapiombo ed esce con un movimento atletico e liberatorio. «Siamo fuori!», grida dentro di sé. La parete est è un vuoto alle spalle.
Sul muro concavo delle Jorasses ha sfiorato il settimo grado, è il momento più alto della sua carriera, ma in cima Giusto ha pensieri amari:
«Ci arrestiamo su una larga terrazza di roccia una ventina di metri sotto la calotta ghiacciata della sommità. Ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia, niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai.»
Ha capito che più in alto non si può andare, non lui, anche se serba sogni ancora più visionari: la parete ovest del Petit Dru, il Fitz Roy… Ma ci sono la guerra, i bombardamenti, le delusioni lavorative e la morte della madre a riportarlo alla realtà. Il friulano ha imparato a conoscersi e, senza confessarlo neanche a se stesso, teme che i giorni grandi siano alle spalle. Non sopporta la discesa, è un lottatore all’antica, dunque dopo la guerra si scrolla la ruggine di dosso e riparte.
Il 16 settembre 1946 il cielo è sereno sul Monte Bianco. Gervasutti e Gagliardone si avviano sul ghiacciaio del Gigante, diretti al pilastro di mezzo del Mont Blanc du Tacul, una via evidente, elegante, molto desiderata.
«Attacchiamo alle 8 – scrive Gagliardone sul “Corriere delle Alpi” –. Incontriamo subito due passaggi difficili; Gervasutti è in gran forma e li supera col suo solito stile brillantissimo… Sempre salendo sul lato sinistro dello spigolo giungiamo a poco meno di metà salita, dove ci fermiamo a fare una piccola discussione, se proseguire o ritornare, dato che il tempo dà segni di evidente cambiamento: io sono per proseguire, ma Gervasutti prudentemente riesce a convincermi…»
Si calano a valle sulle doppie corde, ma le corde s’incastrano. «Perdiamo molto tempo nel tentativo di liberarle, ma non vi riusciamo, così a malincuore decidiamo di risalire. Lasciati i sacchi sul terrazzino, ci leghiamo nuovamente: Gervasutti al capo della grande, io al capo della piccola. Arrivato a metà delle placche che ci dividono dall’uscita dello strapiombo, Giusto pianta un chiodo e mi fa salire fin là per assicurarlo. Intanto ha ricuperato abbastanza corda da permettergli di uscire… Mentre sto chinato sul sacco, sento un tonfo ed un’esclamazione. Mi raddrizzo e lo vedo precipitare. La corda piccola sfila ancora dall’alto nell’anello, ed è istintivo il gesto che faccio per afferrarla, cosa umanamente impossibile. Sono forse le 17 o le 17,30.»
Gervasutti se ne va così, a 37 anni, per una distrazione. Il povero Gagliardone è costretto a un terribile bivacco solitario e viene salvato il giorno dopo. Il corpo del friulano rientra a Torino dopo gli accertamenti legali. La camera ardente è allestita nella sede del CAI di via Barbaroux, dove gli allievi lo vegliano per un giorno e una notte, organizzando il servizio di accoglienza. Tra rose e stelle alpine sfilano le guide in divisa, gli alpinisti accademici, gli amici e i famigliari. Il 19 settembre il corteo funebre lascia le austere stanze per scendere nelle vie del centro. Un mare di persone mute e una sola voce disperata: «Non ho mai smesso di piangere – confiderà Maria Luisa Balestreri –, mia madre cercava di calmarmi e io continuavo imperterrita. Ho pianto tanto, non ho mai pianto così tanto». I torinesi cominciano a domandarsi: che faremo senza di lui? Qualcuno pensa: «Doveva succedere, era scritto». L’aveva scritto lui stesso: «Ho sempre apprezzato ed invidiato, nei racconti di saghe e leggende, lo spirito del cavaliere dell’ideale, purificato di ogni umana debolezza dalla morte. Se talvolta qualche audace che sentì e seguì quella voce cade sui monti, grandi come il nostro amore, non dobbiamo imprecare contro di essi… perché non si potrà mai disprezzare ciò che si ama, e se per qualche istante ci sembrerà di odiare la montagna, ciò non sarà che esasperato amore».