Il 31 agosto 1918, tre mesi prima della battaglia finale di Vittorio Veneto, il tenente alpino Arnaldo Berni scriveva dalla Punta San Matteo, a 3678 metri:
«Carissimi, mi trovo sempre come vedete colla mia bella compagnia sul monte conquistato e vi rimarrò ancora per almeno una settimana, se le cose andranno bene. La vita quassù è alquanto dura, ma tutto si sopporta per amore di Patria e per la Vittoria…»
Berni muore tre giorni dopo, il 3 settembre 1918, e con lui e quelli come lui se ne vanno le ultime speranze di vittoria sul fronte alpino. La Guerra Bianca si poteva combattere, ma non vincere. La Guerra Bianca si mangiò vite, sentimenti e speranze come ogni altra macchina di guerra. Il motore era lo stesso: facile da accendere, impossibile da spegnere. La vera differenza la fece la montagna, che impose il suo codice ambientale sulle ragioni del conflitto. Per combattere tra i seracchi di ghiaccio, sulle cenge e sui muri a strapiombo bisognava essere alpinisti prima che soldati, e questo rivoluzionò le scelte e le strategie, le gerarchie e i rapporti umani, anteponendo il montanaro al soldato e l’alpinista al guerriero. Quando il rocciatore nemico saliva con corda e chiodi una difficile parete di calcare, per prima cosa lo guardavano arrampicare, poi lo ammiravano, infine gli sparavano addosso. E se un alpino sciatore scodinzolava sulla neve primaverile dell’Adamello, le sentinelle austriache commentavano lo stile di discesa prima di puntargli contro la mitragliatrice.
Chi operò sui terreni d’alta quota dovette per forza indossare una doppia divisa e una duplice personalità: combattente e scalatore, sottoposto e maestro, recluta e veterano. La montagna stabiliva i ruoli e la guerra li ribaltava. E viceversa. Sopra i duemila metri prevaleva l’esperienza del montanaro, sotto i duemila comandavano le gerarchie militari. Sopra erano le piccozze e sotto erano i cannoni, a dire l’ultima parola, e le due dottrine si snaturavano reciprocamente nel tentativo di conciliare due leggi inconciliabili. Perché nessun alpinista avrebbe mai affrontato la montagna con la tempesta e la neve alla pancia se la guerra non gliel’avesse imposto, e nessun militare avrebbe dichiarato guerra a una guglia di roccia se la frontiera non fosse passata per di là.
Ma una seconda ambiguità è davanti ai nostri occhi: si uccidevano in posti incantevoli, nella pace e nell’incanto della montagna più dolce. Gli itinerari di questo libro lo confermano. Come si può pensare alla morte affacciandosi alla meraviglia delle Dolomiti dalle terrazze lunari di Monte Piana o dal dosso erboso del Col di Lana? Come si fa a immaginare, oggi, le pance squarciate e le urla dei feriti sull’altopiano delle Tre Cime di Lavaredo? Quanta bellezza andrebbe sottratta al candore nordico del Pian di Neve per sporcare il ghiaccio di angoscia e sangue come allora? Per un turista di guerra è impossibile figurarsi il cupo abbaiare dei cannoni nei luoghi in cui oggi tintinnano le piccozze di lega leggera, è arduo immaginare il rumore sordo della fabbrica della morte laddove la montagna è solo una parentesi di piacere, la brezza di un giorno speciale. Nel Quindicidiciotto era pesante anche l’aria, ed era pieno anche il vuoto.
In cent’anni sono cadute le frontiere storiche e ne sono nate di nuove. Sui sentieri della Guerra Bianca si parlano ancora le lingue del Quindicidiciotto, – italiano e tedesco, prevalentemente – ma i discendenti di quei soldati camminano fianco a fianco nelle trincee e sulle mulattiere, scalano le vie ferrate, sorridono alle fidanzate e brindano con i boccali di birra nelle baracche trasformate in musei. L’epopea aleggia ancora dappertutto, – nei residuati bellici, nelle gallerie, nelle librerie, nella rete dei musei e degli ecomusei – ma ora la guerra è anche turismo, sfida culturale, delicata memoria, rischiosa sovrapposizione del piacere di oggi sul sacrificio di ieri. E qui sta il rischio di questo centenario.
In un secolo le Alpi sono cambiate completamente, dal punto di vista fisico e culturale. Dopo la Guerra Bianca, sulle montagne sono passati i treni della neve, i simboli eroici del fascismo, la resistenza dei partigiani, l’esodo dei “vinti” di Nuto Revelli, l’invasione del turismo e dello sci di massa, l’alpinismo artificiale e l’arrampicata libera, la religione dell’outdoor, gli appetiti delle seconde case, la deriva urbana, la riconversione ecologica. Le Alpi sono oggi un crocevia di contraddizioni e un laboratorio di convivenza.
Dunque l’anniversario della Grande Guerra è più che mai una questione contemporanea. Non ci si può fermare alla pietà o alla nostalgia, e forse neanche alla storia. Bisogna guardare anche al presente, tradurre quella tragedia ormai lontana nel linguaggio e nelle sfide del nostro tempo. Io credo che un modo ci sarebbe: provare a sostituire l’assurda frontiera montuosa del Quindicidiciotto in una linea di raccordo, la lunga catena di relazioni in cui si negozia la pace tra l’uomo e la natura e si sperimenta un’Europa possibile.
Sarebbe straordinario se dal centenario di una catastrofe nascesse qualche buona pratica di futuro, proprio là dove ci si sparava senza senso e si moriva senza speranza. Se quel simbolo che fu di divisione e conquista diventasse metafora di costruzione.
Il “soldato” del terzo millennio è il montanaro consapevole che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello urbano e sulle Alpi sogna di tentare nuove vie: le energie rinnovabili, l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità “sostenibile” e non distruttiva. Questi concetti vengono oggi discussi in molte località d’Europa, ma le Alpi potrebbero assumere un ruolo di battistrada, superando completamente il vecchio limite dei confini nazionali.
Infine anche un altro significato di frontiera o confine è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa il vecchio dal nuovo, l’alto dal basso, la montagna dalla pianura, la cosiddetta cultura alpina dalla cultura urbana. In questo senso la guerra ha rappresentato un tragico precedente: cittadini e montanari, operai e contadini dovettero combattere insieme per il futuro dei propri figli. Se già un secolo fa l’umanità subì la dimensione mondiale della guerra, che nessun confine naturale era in grado di arrestare, oggi più che mai percepiamo le ripercussioni globali dell’agire umano.
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