Mensile n. 57, dicembre 2011
L’affermazione del turismo coincide paradossalmente con la crisi dell’economia alpina e con la progressiva riduzione della popolazione. Mentre i cittadini scoprono le montagne i valligiani le abbandonano.
Attorno al 1850 le Alpi hanno raggiunto la massima densità demografica della loro storia, ma subito dopo la metà del secolo il numero degli abitanti comincia drasticamente a diminuire per le difficoltà di sopravvivenza. Crescono la povertà e la fame, gli uomini scendono in pianura in cerca di lavoro, ma non è più l’emigrazione temporanea di un tempo: è la fuga definitiva. Se possono, i montanari mettono su famiglia altrove.
La crisi della civiltà tradizionale delle Alpi, per secoli fondata sull’agricoltura e soprattutto sull’allevamento – qualcuno l’ha definita la “civiltà del latte, l’oro bianco delle montagne” –, è strettamente legata al processo di marginalizzazione politica dell’arco alpino dopo la trasformazione geopolitica europea sancita dal Trattato di Utrecht: seguendo la teoria cartesiana dello spartiacque i nuovi stati nazionali trasformano progressivamente l’arco alpino in linea frontiera e terra di confine, marginalizzando le regioni che un tempo si erano trovate al centro della vita sociale ed economica. Per esempio la Savoia, che fino al 1860 era uno stato a cavallo delle Alpi e dopo la cessione dei territori alla Francia si trova spezzata e divisa dalle montagne. Prima il Monte Bianco era una cerniera, dopo diventa una barriera.
Sulle popolose Alpi occidentali, di cultura romana, l’emigrazione porta un passeggero miglioramento per chi resta, ma non pone le basi per un processo di rinascita. Nella regione tedesca, meno abitata, si abbandonano le fattorie (masi) alle quote più alte. In seguito all’impennata dell’industria siderurgica e alla conseguente richiesta di carbone di legna, circa tre quarti delle Alpi austriache sono rimboscate e trasformate in vivai forestali. Molti alpeggi tornano a coprirsi di boschi e le foreste fanno la differenza tra il paesaggio e l’economia a est e a ovest delle Alpi. Ma a partire dal 1918, con la fine della Grande Guerra, la popolazione rurale subisce un’ulteriore contrazione e con essa «cominciano a scemare le differenze tra regioni romane e germaniche – osserva il geografo Werner Bätzing –. Dove né il turismo né l’industrializzazione riuscirono ad affermarsi, i paesi andarono svuotandosi e i masi furono abbandonati. In parallelo con il “miracolo economico” delle regioni confinanti, questo processo assunse dimensioni drammatiche… Oggi riusciamo già a prevedere la morte dell’ultimo contadino delle Alpi».
Gli impianti industriali che si sviluppano nelle basse valli e lungo le principali vie di transito bilanciano in parte l’esodo, ma la cultura operaia è molto distante da quella contadina e spesso i montanari non si adeguano. Così i giovani fuggono verso le città e i vecchi restano a presidiare villaggi fantasma popolati di ricordi. Non nascono più bambini e si chiudono le scuole di montagna. Anche l’industria idroelettrica, mirabolante promessa per la montagna del Novecento (l’acqua è il nuovo “oro bianco”), non è altro che un tampone provvisorio allo spopolamento. I grandi invasi che sommergono i paesi e i pascoli compromettendo l’equilibrio idrico delle valli, incidono profondamente non solo sull’economia tradizionale alpina ma anche e soprattutto sul paesaggio. Per di più la progressiva automatizzazione degli impianti riduce notevolmente il vantaggio per le popolazioni. Parafrasando il significato della sigla ENEL, alcuni valligiani traducono ironicamente “Esporta Nostra Energia Lontano”.
Il fenomeno migratorio assume dimensioni particolarmente sconvolgenti nelle valli del Cuneese, dove in poco più di un secolo si assiste alla morte di una civiltà. La Val Grana perde il 75 per cento degli abitanti, la Valle Stura il 71 e la Val Maira raggiunge l’83 per cento. Un’ecatombe. «Nelle Valli Maira, Varaita, Po – scrive Nuto Revelli al termine della più importante inchiesta sul mondo contadino del secondo dopoguerra – le situazioni e i problemi si ripetono con una monotonia drammatica. Le comunità che si sfrangiano, le scuole che chiudono, la posta che si ferma al capoluogo, l’isolamento che cresce giorno dopo giorno. Nelle nostre valli non sono in funzione le “camere a gas”, così l’immagine del genocidio appare forse eccessiva alla folla dei “benpensanti”, dei turisti distratti, dei gerarchi dispensatori di elemosine, dei colonialisti. Ma i fatti parlano, e dicono che non c’è più spazio per gli ignoranti, per i mediocri, per le furbizie elettoralistiche. È l’ultima volta che il problema della montagna si ripresenta come scelta di civiltà».
All’altro capo delle Alpi il giornalista Aldo Gorfer racconta la sopravvivenza dei masi nelle alte valli sudtirolesi:
«Dicono che da San Nicolò ai masi ci s’impieghi mezz’ora. Con la neve alta credo che ci voglia molto di più. Senza contare l’insidia delle valanghe… Il sentiero affronta l’erta senza mezzi termini, di petto. Nei giorni di gelo ci vogliono i ramponi. Per gli inesperti come noi, sicuramente la corda. Dinanzi alla stalla incontrammo Josef, il nonno. Tutta la famiglia era radunata nell’angusto spiazzo tra la facciata del maso e lo strapiombo. Non è più largo del corridoio di un appartamento di periferia… C’è dunque una piccola comunità sulla montagna. Basta alle volte un fischio per richiamarsi da maso a maso. L’ombra della solitudine è però smisurata». Il maso è l’antidoto introdotto dalla civiltà alpina tedesca: il “maso chiuso” e indivisibile, dove il rigido rituale della proprietà trasmessa dal padre al primogenito maschio di generazione in generazione si contrappone allo sminuzzamento degli insediamenti di tradizione romana, frazionati tra troppi proprietari e spesso destinati alla rovina. Con i suoi prati saggiamente falciati, la legna accatastata in forma di scultura, i cristi lignei benedicenti la fatica dei montanari, fino a non molti anni fa il mondo del maso sembrava impermeabile alle lusinghe del progresso. L’ultimo mondo autarchico. Ma era solo apparenza, perché dietro la facciata austera e immobile, dietro il mito di Heidi e i paesaggi da cartolina, il richiamo della valle e della pianura erodeva il fondamento dell’ultima roccaforte alpina tradizionale: la famiglia.
«Spesso l’idillio alpestre si rivelava fitto di drammi personali senza sbocco. Particolarmente nei masi di alta montagna, la donna era praticamente segregata, non solo per il molto lavoro, ma anche per le grandi distanze. Non a caso, proprio nei masi di alta montagna si delineò molto presto un problema ormai diffuso ovunque nel Sud Tirolo: i contadini non trovavano più donne da sposare perché non più disposte a condividere la vita del maso».
Le Alpi omologate
Dietro le complesse dinamiche politiche ed economiche che, negli ultimi due secoli dello scorso millennio, hanno determinato la crisi dell’economia alpina e la fine di una civiltà sopravvissuta – almeno nei suoi caratteri fondanti – per circa mille anni, c’è un nemico ben più forte di ogni potere e di ogni congiuntura: il modello consumistico urbano.
È l’imperativo del “tutto e subito” che si sostituisce alla millenaria prudenza dei montanari, all’atavica diffidenza verso le scorciatoie, alla religione dell’alpe lenta e austera che verso la fine dell’Ottocento faceva scrivere all’abbé Amé Gorret, prete ribelle e profetico della Valle d’Aosta:
«Il vero viaggiatore si distingue dalla sobrietà delle sue parole, dalle ridotte dimensioni dello zaino, dalla regolarità del passo e dal calcolo riflessivo e coraggioso dei rischi di un’escursione o di una scalata. Il turista novellino, invece, si fa notare per il numero e il volume dei suoi bauli, per il clamore dei suoi programmi e dei preparativi per la partenza, per le osservazioni scientifiche fuori misura, per il panico o la vanitosa imprudenza davanti al pericolo».
Se da un lato Gorret sovrapponeva la saggezza montanara a quella del viaggiatore, facendone comune virtù, dall’altro anticipava uno dei temi, anzi il Tema, del Novecento alpino: la propagazione della nuova cultura consumistica, smaniosa e imprevidente, in grado di erodere in pochi decenni il tessuto della civiltà preesistente. Quel che non era riuscito in mille anni alle valanghe, alle frane, agli inverni, alle alluvioni, alle epidemie, agli eserciti, ai tiranni e agli invasori, riesce nell’ultimo minuto dell’orologio alpino a un modello così forte e persuasivo da stravolgere il territorio e soffocare le voci dissenzienti. Il crogiolo di popoli ed esperienze che, immigrazione dopo immigrazione, si è sedimentato nelle Alpi apportando nuove tecniche e nuove idee, e costruendo una singolare identità della diversità, viene sradicato da un invasore che dispone di un potere subdolo e micidiale: il potere di omologare anche le montagne.
Sulle Alpi non manca più il denaro, ma troppo spesso manca la voglia di progettare e sperare. Ha scritto Aldo Bonomi in un’accurata e accorata ricerca sui giovani sulla sua Valtellina:
«I mezzi sono abbondanti: denaro, energia, ambiente; tre parole chiave del moderno. Il racconto, la coscienza di luogo, di sé e dei temi sociali e individuali totalmente incerta. Lo si deduce dalle interviste agli universitari che fanno da pendolo tra questa valle e la città infinita e che dicono che la società locale è afflitta da anomia nel metabolizzare il nuovo.
Ebbi a dire che la mia valle era una valle triste per questo. In questa tristezza e incertezza occorre scavare. Socialmente mettendosi in mezzo tra i luoghi e i flussi, tra la Valtellina e la città infinita. Nella desolazione dell’io triste che non assume parola del proprio disagio scavi l’intervista dello psichiatra o il colloquio dello psicologo. Dal lavoro di ricerca questa terra di mezzo tra il “non più” e il “non ancora”, sia per l’Io che per il Noi, risulta essere il territorio dello spazio sociale e della mente da percorrere. Ne è sintomo evidente, qui come altrove, la dissolvenza e la crisi della famiglia…»
Il rapporto tra città e montagna risulta cruciale, perché l’emarginazione e l’isolamento non sono più soltanto i segni evidenti di un abbandono, ma diventano la fotografia di un mondo che si considera ancillare alla città, trascurato e dimenticato dal proprio tempo. L’antico orgoglio della montagna autarchica, che non fu mai veramente tale e, anzi, insegnò spesso alla città come si può vivere con poco coltivando la bellezza e l’arte, si è trasformato – per usare ancora le parole di Bonomi – nell’inesausto «lamento montanaro» su ciò che manca, dimenticando il molto che abbonda in montagna e difetta sempre più drammaticamente alla pianura: l’aria, l’acqua, il silenzio, la solidarietà delle piccole comunità, la possibilità di vedere e godere i frutti del proprio lavoro, il lavoro stesso.
Questi valori a prima vista ancestrali, perché apparentati con le società arcaiche, diventano attualissimi se letti come “altro” di una società frenetica, utilitarista, rumorosa, individualista e artificiale. Allora il passato assomiglia al futuro, e la tradizione ha sentore di avanguardia.
Città e montagna
Di solito l’abbandono nasce da due patologie: il disinteresse della città verso le difficoltà della montagna che non porta abbastanza voti per entrare nelle stanze del potere, e l’autoemarginazione degli abitanti che si arroccano sulle visioni del passato, rimpiangendole, senza provare a darvi nuova vita. Ma in montagna come altrove una cultura sola non basta più: per ridisegnare il “locale” bisogna imparare le parole del “globale”, i concetti e i valori del passato vanno riscritti con un linguaggio contemporaneo. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, dimentica che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella urbana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). L’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza e dignità se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori” facendone emergere i limiti e candidandosi – dove possibile – come alternativa capace di futuro.
In tal senso va analizzata la complessa e difficile relazione tra cultura interna e cultura esterna, che viene spesso declinata come uno scontro-incontro fra tradizione e turismo, ma in realtà non è altro che l’incontro-scontro tra locale e globale, interno alpino ed esterno metropolitano. Le due culture, appunto.
Anche in riferimento alla “tradizione” credo occorra spostare i termini della questione, perché “tradizione” non è un concetto statico, la tradizione non si può congelare, ma appartiene a una realtà culturale in continuo divenire attraverso scambi, condizionamenti e contributi esterni. Dunque, riferendoci alla realtà alpina contemporanea, si può notare come il turismo faccia già parte della cultura alpina ottocentesca, e nel Novecento sia diventato “tradizione” esso stesso, cioè cultura locale motivata e condizionata da spinte esterne.
Chi saranno i “montanari” di domani? Valligiani disillusi che sognano la strada della città, oppure cittadini intraprendenti che decidono di salire in montagna per rilanciare “vecchie” attività con idee nuove, beneficiando delle tecnologie che riducono i tempi e le distanze? Sono forse più “montanari” questi pionieri che scelgono di vivere in un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che non hanno scelto di venire al mondo nel chiuso di una valle, e dall’età della ragione non sognano altro che scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione?
Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene dell’ambiente alpino, si sarà sempre più montanari per scelta. Tanto più la montagna sarà capace di comprendere la cultura globale reinterpretandola, tanto più la montagna sarà padrona di sé. Naturalmente non penso a chi imita acriticamente lo stile di vita urbano e non fa altro che estendere le patologie della città alla montagna. Penso al montanaro consapevole, che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello urbano, e che sulle Alpi (o sull’Appennino) sogna di tentare nuove vie: l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità “sostenibile”.
Non penso all’eremita tecnologico che si isola in una centralina computerizzata per lavorare fuori dal mondo (molte esperienze di questo genere, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, hanno dimostrato che l’automazione accresce la solitudine fino a soglie inaccettabili). Penso a donne e uomini sufficientemente colti e sufficientemente creativi per unire tradizione e innovazione, esperienza di ieri e tecnologia di domani, gusto per il bello che è stato e il bello che sarà. Perché vivere sulle Alpi nel terzo millennio sarà anche una questione estetica e una scelta di stile.
Werner Bätzing scrive a conclusione del suo lavoro:
«Per la stabilizzazione ecologica dei paesaggi culturali divenuti instabili e per la conservazione delle Alpi come spazio economico non è sufficiente elaborare programmi settoriali… C’è bisogno di un modo di fare economia che riconosca una grande importanza alla produzione ecologica, e di una cultura che consideri socialmente ragionevole questa forma economica e sviluppi una comune responsabilità. Senza un cambiamento fondamentale non si può realizzare uno sviluppo sostenibile. Ma con altrettanta chiarezza le Alpi ci fannno capire che senza un simile cambiamento il nostro sistema economico e sociale non ha futuro e distrugge per sempre le proprie basi materiali e immateriali. Questi nessi vengono oggi ripresi e discussi in molte località d’Europa. In questo dibattito le Alpi potrebbero però assumere un ruolo di “battistrada”: poiché in passato, proprio prendendo a modello le Alpi, l’Europa ha sviluppato la propria concezione della natura e dell’ambiente con immagini particolarmente dense, intense e impressionanti, sempre facendo riferimento alle Alpi si potrebbero discutere con particolare vigore anche le questioni di fondo dello sviluppo sostenibile… In tal modo le Alpi – proprio come “caso normale”! – potrebbero diventare le antesignane di uno sviluppo sostenibile in Europa».
In questa visione le Alpi si pongono – sempre per usare le parole di Bätzing – come «una regione unica al centro dell’Europa» –, superando completamente il vecchio limite dei confini nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa la montagna dalla pianura, o la cosiddetta “cultura alpina” dalla cultura urbana, emarginando la prima e accentrando la seconda. Il centro, oggi, è ovunque e da nessuna parte.
Tre valli in una
Se è sbagliato considerare la città e la montagna come due mondi separati, è altrettanto riduttivo parlare di una sola montagna, perché ce ne sono tante, tantissime. In particolare esistono tre tipi di montagna che possono convivere anche nella stessa valle, in relazione alla quota, alla vocazione turistica e alla vicinanza con la pianura. L’industrializzata bassa Valle di Susa, che da decenni si oppone al progetto dell’Alta Velocità maturando una consapevolezza sociale ed ecologica che è andata molto al di là della difesa dell’orto di casa, è diversissima dall’alta valle colonizzata dagli imprenditori dello sci ed è altrettanto separata dalla media Valle di Susa, dove sopravvive più viva la memoria contadina e si soffre più a fondo il senso di emarginazione.
Altro esempio la Val Chisone, dove la muraglia del Forte di Fenestrelle funge da separazione fisica e simbolica. Fenestrelle e il suo intorno, un tempo oggetto di aspra contesa tra i Regni di Francia e di Savoia, rappresentano oggi una “terra di mezzo”, né bassa né alta montagna, dove la gente, nel Novecento, ha dovuto fare i conti con due fenomeni di espansione urbana – l’industria pesante e il turismo di massa –, che l’hanno circondata, scavalcata, attraversata, trasformata senza recare particolari benefici economici, privandola tuttavia dei vantaggi, soprattutto di natura identitaria, propri dell’antica economia rurale. In un certo senso la media Val Chisone, come tante altre terre di mezzo delle Alpi, si pone come una sorta di “non luogo”, non più contadino, non ancora turistico, probabilmente mai industriale, se si escludono le opportunità di quell’industria leggera, cosiddetta “soft”, che teoricamente potrebbe insediarsi ovunque all’interno della catena alpina, sfruttando la banda larga e la comunicazione virtuale.
Esistono un Est e un Ovest, un’alba e un tramonto, un mattino e un pomeriggio a destra e a sinistra della grande muraglia di Fenestrelle, che se in epoca moderna separava i territori francesi da quelli piemontesi, costituendo un argine contro l’invasione straniera, oggi funge semmai da frontiera immaginaria tra le “alte Alpi” consacrate al turismo di massa e sottoposte a pesanti fenomeni speculativi (in particolare con i giochi olimpici del 2006) e le “basse Alpi” in parte segnate da un’industria in crisi, in fase di smantellamento o riconversione, in parte caratterizzate da scelte di salvaguardia naturalistica, che nel caso della media Val Chisone si identificano con il parco naturale regionale Orsiera-Rocciavrè, destinato a unirsi al Parco dei Laghi di Avigliana e così a costituire una grande area protetta alpina e pedemontana.
Frontiera immaginaria, dunque, ma anche simbolo della città che si impossessa della montagna, prima, e della montagna che ritorna padrona, poi, della natura che riconquista il proprio territorio, di un dialogo possibile e necessario tra innovazione tecnologica, nuove residenze e tutela ambientale. La media montagna non tollera né la logica dell’industria pesante né la pesante logica dei grandi eventi. Sopporta solo altri modelli di sviluppo leggero. La media montagna il vero terreno su cui si giocherà la sfida delle Alpi, il superamento dell’abbandono, il passaggio dal mondo di ieri a quello di domani.