Pubblicazione

Il punto di non ritorno

“Aperture. Punti di vista a tema”, rivista semestrale, n. 5, 1998

Nei primi giorni di febbraio del 1963 gli alpinisti francesi René Desmaison e Jacques Batkin affrontano la parete nord delle Grandes Jorasses per la famosa e temuta via Cassin, sull’immenso sperone della Punta Walker. Solo Walter Bonatti e Cosimo Zappelli sono riusciti a scalarla in pieno inverno, con un’esperienza pari a una grande traversata polare.
La sera del 6 febbraio, dopo due giorni di dura scalata, la radio di Desmaison trasmette le previsioni del tempo per l’indomani:
“Maltempo generale persistente, neve su tutte le Alpi”.
“Ma sono matti!” replica l’alpinista sotto un cielo meravigliosamente limpido e pieno di stelle.
Ma intanto il sonno se n’è andato e l’angoscia è salita in parete. Le ore trascorrono lente, interminabili. Verso le due di notte una nuvola avvolge la cima delle Grandes Jorasses, per scomparire e ricomparire poco dopo, sempre più grande, sempre più minacciosa. La luna che illuminava la montagna viene inghiottita dal fronte della perturbazione, che sembra un mare in tempesta. Desmaison ormai è sveglio del tutto e annota mentalmente: “So che potremmo ancora calarci sul ghiacciaio. Ripasso il nostro itinerario di salita: per quanto molto difficile, la discesa non è impossibile. Eppure l’idea non mi piace per nulla” (1). Ne discute con il compagno mentre i primi fiocchi di neve vorticano nell’aria: hanno forse una probabilità su cinque di uscire in vetta e sanno che più in alto non potranno più tornare indietro. Allora si guardano negli occhi come due cavalieri prima della battaglia, si stringono le mani inguantate nelle moffole di lana e lucidamente, senza altri tentennamenti, scelgono di lanciarsi nel vento verso la grande avventura.
Soltanto chi come Desmaison e Batkin, almeno una volta nella vita, ha superato il punto di non ritorno, può dire di aver veramente vissuto. Il punto di non ritorno è il confine invisibile che separa le placide acque della “normalità” dai neri oceani dell’incognita e del mistero. Una vera esperienza avventurosa, fisica o spirituale che sia, richiede l’abbandono dei porti sicuri e la navigazione in mari inesplorati, senza ormeggi, senza salvagenti, senza certezze, senza maestri, senza tracce da seguire. L’esperienza avventurosa prevede che ci si metta in gioco completamente e si accetti di perdersi per ritrovarsi in un altro luogo. E’ come un viaggio di cui il viaggiatore conosca solo il punto di partenza.
Spesso l’esperienza dell’alpinismo risponde a questi requisiti, anche se gli elicotteri, i telefoni cellulari, le vie ferrate, gli spit e le altre scorciatoie fornite dalla tecnologia tendono a ridurre sempre più i margini dell’avventura, sostituendo le priorità dello spirito con quelle dello sport. Non bisogna confondere i due piani, anche se apparentemente presentano uno sfondo comune (la montagna) e una finalità condivisa (la vetta). Naturalmente si può salire una montagna anche senza mettere in gioco nulla di se stessi: si può salire sulla Tofana in funivia, così come dalla galleria del treno della Jungfrau ci si può affacciare sulla parete nord dell’Eiger, non lontano dal luogo dove morì Toni Kurz stremato dalla bufera. Ma evidentemente non è la stessa esperienza..
In alpinismo chi ha “esperienza” è colui che si è messo in gioco più volte e ne è uscito con dignità, senza sotterfugi. “By fair means”, con mezzi leali, diceva l’alpinista inglese Frederick Mummery. Più della tecnica, più del curriculum, più dei titoli accademici, viene considerata e rispettata l’esperienza di chi ha superato delle situazioni critiche consapevolmente, in bilico tra l’audacia e la prudenza. In fondo l’alpinismo è una strana, irragionevole, sconsiderata attività che consiste nel mettersi nei guai e nel tirarsene fuori. Meno prosaicamente, è un mezzo per rimettere costantemente in discussione le proprie capacità, i propri limiti, la propria esperienza.
Una bella esperienza, per un alpinista, non è mai un’esperienza scontata, con il cielo sereno, la neve perfetta, il fisico in forma, il compagno generoso, la fatica lieve. Una bella esperienza prevede sempre qualche imprevisto risolto brillantemente, un’incidente evitato senza conseguenze, un ostacolo superato con determinazione e intuito.
Un tempo l’alpinismo, figlio del romanticismo, era un viaggio in terre ignote, le ultime nel cuore di un mondo interamente civilizzato: oggi è un gioco che consiste nel nascondere agli altri (almeno in parte) le tracce del proprio passaggio, perché ogni ripetitore possa (o debba) ritrovare la via da sé. E’ un tacito patto di omertà e dissimulazione, fondato sul paradosso che l’esperienza di chi precede può uccidere l’esperienza di chi viene dopo.
Ogni alpinista, in fondo, vorrebbe scalare per primo la “sua” montagna: vergine e incorrotta, come al tempo della Creazione. Ogni alpinista desidera un “suo” Cervino, un “suo” Bernina, una “sua” Civetta, un “suo” Gran Sasso, così come li ha sognati su una cartolina, uno schizzo, una cartina topografica, o nel racconto ispirato di un altro alpinista salito prima. Alla fine ne è infinitamente geloso in quanto oggetti della sua fantasia e prodotti della sua esperienza.
Massimo Mila ha notato che “l’alpinismo è una delle forme di conoscenza dove più inestricabilmente si uniscono il conoscere e il fare, dove il soggetto si impadronisce anche materialmente dell’oggetto conosciuto. E, poiché le parole hanno una loro saggezza segreta, questa ebbrezza estasiante di sentirsi dio nell’identità di conoscere e fare, l’alpinista la racchiude in quel curioso particolare linguistico del suo frasario: fare una punta. “Ho fatto le Jorasses”, dice l’alpinista, e non: “Sono andato alle Jorasses”. L’alpinista crea la montagna nell’atto stesso di dominarla, di prenderne possesso palmo per palmo, riconoscendone la struttura, la qualità della roccia, gli anfratti, le cenge, le spaccature. Le montagne che non abbiamo ancora salito sono qualche cosa di esterno a noi, materia grezza, non ancora illuminata dalla luce dello spirito. Le montagne che abbiamo “fatto” sono diventate parte di noi stessi, condividono la nostra natura umana, non sono più materia, ma spirito”.
Questa singolarissima esperienza di “incarnazione” e di sublimazione rischia di venire annullata dal processo di omologazione che ha investito anche le montagne, disegnando itinerari, vie attrezzate, appigli, chiodi, sentieri, mappe, guide, orari, convenzioni e obblighi sociali uguali per tutti, con lo spettro della profanazione che già il Primo Levi alpinista aveva evocato nel ricordo del compagno Sandro Delmastro, archetipo esperienziale di tutti gli alpinisti:
“Sandro portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del CAI, tutta sbertucciata, e sempre una matassa di filo di ferro per le operazioni d’emergenza. La guida, poi, non la portava perché ci credesse: anzi, per la ragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo; non solo, ma come una creatura bastarda, un ibrido detestabile di neve e roccia con carta. La portava in montagna per vilipenderla, felice se poteva coglierla in difetto, magari a spese sue e dei compagni di salita. Poteva camminare due giorni senza mangiare, o mangiare insieme tre pasti e poi partire. Per lui, tutte le stagioni erano buone…”.
Dietro questa testimonianza c’è tutto l’orgoglioso codice empirico della tradizione alpinistica, secondo cui l’esperienza individuale vale più di un primato e di ogni vittoria. Al contrario, la montagna preconfezionata che si compera al supermercato delle cime rischia di cancellare con un colpo di spugna duecento anni di esperienze solitarie e irripetibili, fondate sul pervicace principio che ogni alpinista debba “conquistare” da solo la sua cima, anche se è già stata “fatta” e “rifatta” da qualche migliaio di suoi simili. La riproducibilità delle esperienze non potrà che aprire nuovi orizzonti sociali e chiudere antichi orizzonti spirituali, riducendo sempre più gli spazi dell’incognita e del mistero a favore del gioco, della sicurezza, del piacere. Nuove esperienze per tempi nuovi.