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Il rifugio di montagna nel racconto alpinistico e nell’immaginario letterario

Atti del convegno, Courmayeur 22 ottobre 2005

Rifugio è innanzi tutto un concetto culturale.
Per i cacciatori e i pastori che per millenni hanno attraversato le Alpi, rifugio era uno spiovente di granito per difendersi dal temporale o un tetto di calcare dove far riposare le greggi.
Per le milizie romane costrette loro malgrado ad affrontare le montagne, rifugio era un ricovero militare sulle vie degli eserciti, luogo coatto da abbandonare al più presto per ritrovare vera protezione in pianura.
La prospettiva di rifugio in senso moderno comincia a prendere corpo con gli ospizi medievali, che conferiscono ai valichi delle Alpi una dimensione domestica nello scenario selvaggio delle cime.
“Se una cima è opera della natura – scrive W.A.B. Coolidge –, un passo alpino è opera dell’uomo”. Una sommità, in altre parole, non è altro che un fenomeno naturale, mentre un “passaggio” non può essere considerato tale fino al giorno in cui l’uomo non vi sia passato. I motivi che spingono l’uomo ad affrontare un valico attraverso il ghiacciaio sono di ordine pratico. Per scalare una cima, invece, occorrono motivi di altro tipo.
Le nuove motivazioni si manifestano alla vigilia della Rivoluzione francese. È il passaggio dai colli alle cime. È il salto verso l’alpinismo. Alla tradizionale prospettiva dell’alpe dura, oscura e minacciosa, eppure ricovero e salvezza per eretici e “diversi”, si contrappone l’idea romantica di una montagna sublime, dispensatrice di “deliziosi orrori” e conturbanti emozioni, “terreno di gioco” – come dirà Leslie Stephen nell’Ottocento – per cittadini idealisti e sportivi.
Sulla montagna anche gli alpinisti cercano pace, ma attraverso l’avventura. Per gli alpinisti idealisti le Alpi sono uno spazio protetto dalla degenerazione morale della città e, contemporaneamente, un terreno ignoto da esplorare e da vincere. La nozione di rifugio ormai è duplice: indica il romantico rifugio della natura – “si direbbe che, alzandosi sopra il soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza” (Jean-Jacques Rousseau) –, ma indica anche il rifugio alpinistico, un riparo artificiale ideato non per contemplare la natura, ma per sfidarla e sottometterla:
“Varrà la pena di descrivere quella capanna, quel rifugio così importante per noi – annota Horace Bénédicte de Saussure dopo il tentativo di ascensione al Monte Bianco del 1785, lungo la via del Goûter –. Era larga all’incirca otto piedi su un lato e sette sull’altro, e alta quattro. Era chiusa da tre muri e la roccia contro cui si appoggiava faceva le veci del quarto…”.
La capanna-rifugio della Pierre Ronde non risponde a esigenze militari o religiose, e non ha niente da spartire con le antiche consuetudini di solidarietà verso i viandanti. È stata ideata – per usare ancora le parole del Saussure – “perché la gente del posto non crede che ci si possa azzardare a passare la notte su quelle nevi”. Oltre il limite umanizzato dei pascoli, oltre la ragionevole soglia di sopravvivenza degli ultimi fiori, il buio fungeva ancora da detonatore per le angosce ancestrali dei montanari.
Carlo Alberto Pinelli l’ha definita “la conquista della notte”, vale a dire l’esorcizzazione del mistero, la sconfitta della paura nella sua dimensione più irrazionale e assoluta. Questa conquista simbolica ha preceduto la storia dell’alpinismo; l’ha resa possibile:
“Per calpestare con successo una vetta non bastava soltanto dimostrarsi all’altezza delle difficoltà tecniche e delle incognite dell’itinerario. Era necessario anche affrontare una o più notti all’aperto, a quote e in luoghi inospitali dove nessun uomo di buon senso fino ad allora aveva mai pensato di poter cadere addormentato senza risvegliarsi automaticamente nell’aldilà”.
Per questo il cercatore di cristalli Jacques Balmat fu considerato per molti anni l’eroe del Monte Bianco: non tanto perché aveva raggiunto la cima con il medico Michel Gabriel Paccard, oscurandone l’intelligenza e la volontà, quanto perché, bivaccando involontariamente tra i ghiacci del Grand Plateau nel giugno del 1786, aveva dimostrato che si poteva sopravvivere agli spiriti delle altezze.
In pochi decenni le guide alpine e le associazioni alpinistiche fanno quello che non è riuscito agli eserciti romani e neppure a Napoleone: conquistano la notte e addomesticano le Alpi. Ma è un processo lento e contraddittorio, ostacolato da vecchi fantasmi. Nel 1880, quando il Cervino è già incatenato con scale e corde fisse, e due rifugi rendono agevoli la via svizzera e la via italiana, Albert Frederick Mummery tenta la cresta di Furggen con la grande guida Alexander Burgener, un vallesano forte come una roccia, uno scalatore rotto a ogni esperienza. Racconta l’inglese:
“Evidentemente le guide volevano far dimenticare la lenta marcia della notte precedente con quella rapida di questa; fu quindi con gran gioia che salutai il nostro arrivo sul vasto piano di pascoli paludosi che si stende sotto il Lago Nero. Qualche minuto dopo eravamo circondati dall’ondeggiare stregato, soprannaturale, di innumerevoli fuochi fatui. A ogni passo vagavano a destra e a sinistra; li avevamo appena sorpassati che ricomparivano furtivamente dietro di noi, seguendo le nostre tracce, inquietanti, pieni di minacce cui non pareva possibile sottrarsi, né fuggendo né volando. Le guide erano terrorizzate. Burgener, aggrappato al mio braccio, mormorava con voce roca: “Eccole, Monsieur, le anime dei trapassati””.
Nel montanaro che osa sfidare la montagna permane a lungo il senso di colpa per la violazione del tabù. Il rifugio, in questa prospettiva, non è tanto un riparo dal freddo e dalle intemperie, quanto uno spazio protetto, un luogo senza tempo, un limbo. Mentre là fuori le anime dannate espiano tra i ghiacci i loro peccati, gli alpinisti annullano la notte e si sottraggono alla colpa chiudendo la porta. Il rifugio assume le forme e i significati di un piccolo santuario, con le candele sempre accese, il crocifisso sopra il tavolo di legno, la penombra che, anche in pieno giorno, conferisce all’ambiente un senso di pace e un alone di mistero. Per entrare ci si toglie le scarpe, come in molti luoghi sacri, e quando la notte sale dal fondovalle con le sue inquietudini si abbassa il tono di voce, quasi a sussurrare una preghiera perché il tempo sia benigno e qualche dio si prenda cura degli alpinisti, l’indomani.
Nell’intimità del rifugio la fragilità è palpabile, ma l’ansia dell’ascensione resta fuori. Il mondo è ridotto a pochi metri abitati, bastanti a se stessi, esclusi dall’universo geografico e psicologico della montagna. Il rifugio assume la funzione di un non-luogo, di un’isola al riparo dall’immensità. Non c’è vuoto all’interno del rifugio, anche la vertigine resta fuori dalla porta.
“Tutta quella sterminata notte carica d’abissi – scrive lo scrittore francese Samivel – ruotava intorno alla minuscola conchiglia di latta dove riposavano gli uomini. Là dentro c’era uno spazio addomesticato, ancora fremente di gesti umani… Nient’altro che cuori amici, una particolate tenerezza delle cose fatte per essere usate dall’uomo… La capanna navigava, come un’arca carica di tepore e di vita, tra le lunghe onde del silenzio e della morte”.
L’incantesimo si incrina in prossimità dell’alba, quando il primo alpinista apre la porta del rifugio ed esce a scrutare le stelle: “È bel tempo, bisogna andare!”. L’incantesimo si rompe del tutto quando gli alpinisti si rimettono in cammino e, con un soffio di vento sulla faccia, lasciano definitivamente alle spalle il non-spazio del rifugio, le pigre liturgie della sveglia, gli odori rassicuranti di minestrone e di caffè, i rumori domestici delle stoviglie. Passare dall’intimità del rifugio alla vastità della montagna è come riprendere la vita dopo una parentesi di non vita, o di vita affrancata dagli affanni, dalla fatica, dalla stessa morte. Le lancette dell’orologio ricominciano a correre e il cuore riprende a pulsare in cerca di una meta.
Le valenze simboliche del rifugio, legate al suo antico isolamento, vanno perdendo sostanza con la trasformazione in albergo d’alta quota.
Il rifugio ai tempi di Internet è diventato un luogo molto simile agli hotel di fondovalle, con camere, docce, bar, ristorante e grandi vetrate che si affacciano sul mondo esterno. Gli architetti non concepiscono il rifugio come spazio di incontro, ma come luogo di passaggio e di commercio, utilizzando materiali, arredi e soluzioni abitative funzionali al turismo intensivo. Soluzioni che guardano sempre più alla valle e sempre meno alla montagna.
Nelle domeniche estive e nei giorni di agosto i gitanti affollano il bar, turisti e alpinisti si confondono in sala, ma in pochi, alla fine, affronteranno la notte. È un moto ondulatorio: al mattino la città sale incontro al rifugio, alla sera il rifugio scende verso la città. La maggior parte dei visitatori mangia, guarda il panorama, beve un caffè e ritorna all’automobile prima che faccia buio.
Il telefono e la presenza psicologica dell’elicottero hanno trasformato per sempre l’esperienza del rifugio. Non si è più soli, non si è più su un’isola, nemmeno quando scende la notte. Si può immaginare di esserlo, si può far finta di tremare quando i seracchi scricchiolano nell’oscurità e le anime dei trapassati ricominciano a vagare sul ghiacciaio, ma non è più vera paura. Con l’avvento del telefono cellulare il mondo è diventato un unico grande rifugio che non chiude mai.