Cahier Pédagogique nouvelle série n. 58 – 2002
In passato e anche ora che dirigi L’Alpe, quale contatti o rapporti hai avuto con il mondo della scuola? In che modo pensi la scuola tenga conto dell’educazione alla “montagna”? E’ la stessa cosa dell’educazione ambientale o è diversa? E in che cosa? Quali sono le peculiarità di un’educazione che tenga conto della fisicità della montagna?
“A pensarci bene, in circa venticinque anni di attività giornalistica, ho avuto ben pochi contatti con il mondo della scuola. Ho fatto quattro o cinque chiacchierate nelle scuole medie e nei licei, ma prendendo spunto dai miei libri sulla Grande Guerra (“La guerra di Joseph”) e sulle Alpi (“La nuova vita delle Alpi”): sono state esperienze interessanti, ma isolate. Credo che la scuola vada sensibilizzandosi alla montagna man mano che ci si avvicina alle valli (Valle d’Aosta, Valtellina, Trentino, Sud Tirolo) e diventi completamente insensibile nelle grandi città. Lì occorre la mediazione di qualche insegnante particolarmente attento e coinvolto, che inviti degli esperti da fuori come è capitato a me. Nella cultura italiana in generale, e in quella scolastica in particolare, manca quasi completamente l’idea che l’Italia è un paese fatto prevalentemente di montagne e che, per quanto riguarda le Alpi, nessun altro paese europeo può vantare un simile arco di montagne. Nemmeno la Svizzera. Noi ci consideriamo ancora un popolo di santi e navigatori, anche se non è affatto vero. Per qualche oscura ragione la montagna continua a essere abbinata al mondo del passato, al territorio della nostalgia, anche se la città è salita in montagna ormai in molte vallate, con gli effetti più o meno devastanti che abbiamo sotto gli occhi. Credo che la questione si colleghi a due problemi fondamentali, che sicuramente infuenzano anche il mondo scolastico e pedagogico in genere: il problema ambientale e quello delle culture minoritarie. Ho notato che la montagna viene recepita e compresa là dove il sentimento della natura è ancora qualcosa di autentico, di vissuto, per vicinanza storica e geografica. Diversamente diventa un universo lontanissimo, astratto, paradossalmente più “innaturale” di Internet e della nostra società informatica, là dove l’ambiente naturale non fa più parte dell’orizzonte quotidiano. Ma ancora più subdolo e complesso è il rapporto tra i ragazzi e una cultura – per esempio quella alpina – che viene recepita come sottomessa e perdente rispetto a quella della città. Allora sembra di parlare di un mondo perduto come quello delle riserve indiane, e non di una possibilità di elaborazione intellettuale ed economica alternativa a quella consumistica delle pianure. Mancano quasi le “parole per dirlo””.
Qual è la tua idea di “montagna” da proporre ai giovani? In che misura può essere, per loro, maestra di vita e di valori?
“E’ una faccenda complicata, perché la montagna diventa maestra di vita là dove propone valori oggi impopolari come la sobrietà, la lentezza, la “naturalità”, la liberazione dall’automobile, eccetera. Sono convinto che tali valori abbiano un grande futuro davanti a loro, proprio per le nuove generazioni, ma è molto difficile trovare il modo di proporli ai giovani – oggi – senza passare per conservatori e retrogadi. Probabilmente è soprattutto un problema di linguaggio: se, accantonando ogni approccio moralistico, si riuscisse a girarli in positivo (non come vettori di povertà, ma di ricchezza) il gioco sarebbe fatto. Eppure è ancora un tentativo molto arduo, perché i ragazzi vengono bombardati quotidianamente da valori (o disvalori) contrari, anche se – mi pare – la scuola fa molti sforzi per passare messaggi positivi. Ci vuole del tempo, bisogna insistere e avere fiducia nella capacità visionaria di chi non è ancora inserito nei processi produttivi e che spesso – per la verità – sembra più conformista dei quarantenni o dei cinquantenni”.
Secondo te, come presentare ai giovani la crisi culturale delle Alpi e come affrontare i concetti di sviluppo sostenibile/sviluppo durevole?
“Credo sia difficile proporre la crisi delle Alpi a chi non ne ha vissuto, almeno di striscio, la ricchezza passata. E’ un po’ come spiegare che si muore di fame a chi ha troppo da mangiare. Invece mi pare si possa partire dalla crisi dell’attuale modello di sviluppo, che i ragazzi hanno tutti i giorni sotto gli occhi. Si può insegnare loro che il nostro pianeta dispone di risorse limitate, che gli errori di oggi possono compromettere per sempre la vita di domani, che il “tutto e subito” arricchisce forse una generazione ma impoverisce tutte quelle che seguono. Le Alpi sono un laboratorio esemplare di questo, con fenomeni simbolici come lo scioglimento dei ghiacciai, l’impossibilità di un’agricoltura intensiva, le contraddizioni del turismo di massa che cannibalizza la risorsa stessa da cui trae sostentamento: la qualità ambientale. Sulle Alpi è tutto più chiaro e percepibile”.
Valgono ancora, pedagogicamente parlando, i temi dello spopolamento dei “Vinti” di Nuto Revelli? Quale uso può essere raccomandato per le testimonianze dirette?
“Il “mondo dei vinti” ha rappresentato una tappa fondamentale nel processo di denuncia e sensibilizzazione, ma credo che oggi bisognerebbe provare piuttosto a parlare di “mondo dei vincenti”. Bisogna ritrovare l’orgoglio della diversità, della ricchezza interiore, dell’autonomia da un mondo falso e omologato. Ciò non toglie che, sul piano didattico e formativo, le testimonianze di chi – quasi tutti vecchi, ormai – ha vissuto le gioie e le difficoltà della cultura contadina restino una grande opportunità per i giovani. L’attuale generazione scolastica è forse l’ultima che potrà beneficiare di queste testimonianze dirette: mi sembra doveroso approfittarne, specie in zone privilegiate come la Valle d’Aosta dove il divario tra città e montagna non è ancora così marcato”.
Valgono ancora, sociologicamente parlando le distinzioni tra cittadini e popolazioni locali nella frequentazione della montagna?…
“Il problema non è più, come un tempo, che i ragazzi di montagna hanno meno risorse di quelli di città. Semmai è l’opposto: troppi soldi e poca cultura, un’indigestione di beni senza gli strumenti per digerirli. Anche in questo i ragazzi di montagna e quelli di città si assomigliano sempre di più, tanto da rendere obsoleta la definizione stessa di “montanaro”.
Ecco un altro punto cruciale: valligiani disillusi che prendono la strada della città e non tornano più indietro; cittadini idealisti che decidono di salire in montagna per rilanciare vecchie attività con idee nuove, beneficiando anche delle tecnologie – computer e modem – che riducono i tempi e le distanze. Sono forse più “montanari” questi pionieri che scelgono di vivere in un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che non hanno scelto di venire al mondo nel chiuso di una valle e dall’età della ragione non sognano altro che scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione?
Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene dell’ambiente alpino, si sarà sempre più montanari per scelta. Tanto più la montagna sarà capace di comprendere la cultura globale reinterpretandola, tanto più la montagna sarà padrona di sé. Naturalmente non penso a chi imita acriticamente lo stile di vita urbano e non fa altro che estendere le patologie della città alla montagna. Penso al montanaro consapevole, che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello urbano, e che sulle Alpi sogna di tentare nuove vie: l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità “sostenibile”.
Non penso all’“eremita tecnologico” che si isola in una centralina computerizzata per lavorare fuori dal mondo (molte esperienze di questo genere, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, hanno dimostrato che l’automazione accresce la solitudine fino a soglie inaccettabili). Penso a donne e uomini sufficientemente colti e sufficientemente creativi per unire tradizione e innovazione, esperienza di ieri e tecnologia di domani, gusto per il bello che è stato e il bello che sarà”.