Allegato al film di Alessandro Melazzini, “Stelvio. Crocevia della pace” (Banca Popolare di Sondrio, 2015).
Lo Stelvio è straordinario perché condensa tre storie in un solo luogo: la progettazione della strada più alta, l’epopea della guerra più terribile e l’invenzione dello sci più visionario: lo sci estivo. Mai montagna fu più abitata e addomesticata dalla mano dell’uomo per esigenze civili, militari, ludiche e commerciali.
Parliamo di una montagna che sfiora i tremila metri sul colle e li supera sui ghiacciai, dunque di un territorio ampiamente al di fuori, o meglio al di sopra, dei tradizionali confini antropologici della civiltà alpina, che si fermano al pascolo, a duemilacinquecento metri di altezza. Parliamo, e il film di Melazzini si sofferma in profondità su questi aspetti, degli avamposti più alti e severi delle Alpi Centrali, dove – dice un testimone del film – il primo obiettivo è sopravvivere al freddo e all’inverno. Lo è stato per chi ha combattuto la Guerra Bianca e ha costruito la carrozzabile dello Stelvio, opera degna di un Fitzcarraldo alpino, non lo è per chi ha frequentato e frequenta lo Stelvio per turismo, perché il turismo è la faccia speculare del sacrificio. Forse un riscatto? Chissà.
Strada, guerra e sci estivo hanno in comune la trasformazione dell’ambiente d’alta quota, un’idea che nel Novecento ha oscillato tra slanci progressisti e degenerazioni distruttive. Se la Grande Guerra prese slancio dall’ambigua utopia di felicità e progresso che scaldava gli animi nel nuovo secolo, la Guerra Bianca – scrive lo storico Isnenghi – si combatté «senza odio e senza speranza», con il proverbiale fatalismo dei montanari, soffrendo e cantando, bestemmiando e pregando, cercando di non farsi e non fare troppo male. Eppure nel Quindicidiciotto le Alpi diventarono un immenso cimitero a cielo aperto, sfigurate da una spartana ma pervasiva architettura di guerra che scavò strade e camminamenti fino a tremila metri e oltre, costruì città di roccia legno e vertigine, abitò i ghiacciai e spianò le cime. La Guerra Bianca è incancellabile perché ha stravolto la carne delle persone e dei luoghi, cambiandoli per sempre.
Ormai i ghiacciai non coprono più nemmeno le creste più alte, dove una volta si snodavano nastri di neve immacolata e adesso il permafrost cede all’arrivo dell’estate, strana guerra anche quella, l’offensiva del caldo contro i paesaggi posati nella memoria. La roccia si sgretola e la guerra di cent’anni fa sputa fuori ricordi tristi e dimenticati, resti di corpi, armi, suppellettili, lettere d’amore, pezzi di motore, scarponi, ramponi, strumenti musicali, ferri e legni sepolti nel ghiaccio. Nell’estate del Duemila la montagna ha restituito la scala di corda e pioli con cui i soldati alpinisti scalarono i precipizi gelati del Monte Cristallo. Nel 2004 e nel 2009 i ghiacciai del Piz Giumela e della Valpiana hanno riconsegnato cinque salme di ignoti che oggi riposano nel cimitero austro-ungarico di Pejo. Sotto gli ombrosi larici si affiancano le lapidi, e dicono tutte la stessa cosa: «Non sa dire la tomba il nome mio, ma lo conosce e benedice Iddio».
L’anniversario della Grande Guerra è più che mai una questione di senso. Non ci si può fermare alla pietà o alla nostalgia, e forse neanche alla storia. Bisogna guardare anche al presente: provare a tradurre quella tragedia ormai lontana nel linguaggio del nostro tempo. Bisogna recuperare le parole dei protagonisti, le lettere dei soldati, i loro diari, che restano puri appunti di gioventù e quaderni di speranza. La parola nuda dei notes di guerra, non troppo alterata dall’esaltazione del momento e non troppo purgata dalla censura del potere, è la sola che – oggi – possa restituirci l’uomo senza divisa, nudo anche lui nell’immensità della montagna e nella crudeltà del male.
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