Nel 1961, durante una lezione alla Scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, l’accademico Pino Dionisi sale in cattedra: «Non è necessario rammentare che la disciplina, in tutti i casi della vita, ha un’importanza di prim’ordine, poiché nulla si può ottenere quando essa venga a difettare […] Nella scuola che dirigo da molti anni è obbligo all’Istruttore dare del Lei all’allievo, così come, naturalmente, l’allievo deve fare rivolgendosi all’Istruttore».
Era inevitabile che tanto obbedire portasse a una ribellione. Nei primi anni Settanta, tra Torino e la Valle dell’Orco, Milano e la Val di Mello, Trieste e la Val Rosandra, Reggio Emilia e la Pietra di Bismantova, nasce un movimento di rivolta che alle piazze preferisce le montagne e in montagna fa la sua rivoluzione. Gli esponenti del rinnovamento alpinistico sono ispirati dal torinese Gian Piero Motti, giovane colto e tormentato, ottimo scalatore e insaziabile trasgressore. I nuovi arrampicatori vogliono spazzar via l’alpinismo eroico e i suoi simboli: per esempio il rito della vetta, e con esso il bagaglio di croci e morti connesso alla simbologia sacrificale dell’ascensione; oppure l’immagine dell’alpinista duro e puro, che spesso fa acqua nella vita reale. «Ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini – scrive Motti in un articolo famoso: I falliti – che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno».
I giovani contestatori cercano in parete il loro altrove, che è una verità complementare ma non conflittuale all’esperienza urbana. Rifiutano i vecchi pantaloni alla zuava e gli abiti grigi della festa, mettendoci vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi musicali: Itaca nel sole, Luna nascente, Il cammino dei Comanches, la via della Rivoluzione. Ispirati dal mito dell’arrampicata californiana anche se non hanno mai attraversato l’oceano, lavorando di fantasia quei giovani trovano splendide rocce a pochi minuti dalla strada e su quei sassi immaginano di essere in Yosemite Valley, sulle Dolomiti o in Paradiso, comunque lontano dagli obblighi e dai tabù.
Nel 1972 Motti intuisce che i tempi sono maturi e sale con alcuni compagni la parete del piccolo Capitan, il Caporal, per la via dei Tempi moderni. Le difficoltà, le tecniche e lo stile di scalata non sono poi molto diversi da quelli praticati in montagna, ma la concezione, almeno nell’animo di protagonisti, è rivoluzionaria: «È vero – scrive Motti – ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e il pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde». Alla fine aggiunge: «Se poi qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi».
Gli fa eco Andrea Gobetti, il nipote di Piero, ispirato dalla speleologia e dall’arrampicata: «Quando guidato dal mio amico Roberto Bonelli passai dalle grotte alle pareti era il 1974 e lì trovai in piena fioritura un’acuta analisi sul perché si va in montagna, su come goderne anziché soffrirne. L’inutilità dei monti era ancora rispettata come il loro tesoro più grande. Era un mondo emozionante in cui potevi migliorare la tua vita reale e spirituale di tutti i giorni riflettendo e risolvendo problemi di pietra».
Per capire le esperienze di noi ragazzi di allora, compreso il simpaticissimo capo pensiero Carlo Possa, ben ritrovato in queste pagine, esistono due parole chiave: piacere e libertà. Il problema è che erano e sono difficilmente conciliabili, perché la libertà è cosa faticosa e fragile, mentre il piacere aspira alla solidità e alla durata. Il vero piacere lo hanno goduto non gli apripista di quegli anni là, ma gli arrampicatori sportivi dagli ottanta in avanti, che sono un po’ figli del sessantotto alpinistico e un po’ traditori di quello spirito anticonformista e ribelle. Perché, come scriveva Pasolini, «arriverai alla terza età e poi alla vecchiaia senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere, e così capirai di aver servito il mondo contro cui con zelo portasti avanti la lotta». Alla fine il Nuovo Mattino è morto non perché gli alpinisti siano tornati a indossare i pantaloni alla zuava, ma, al contrario, perché le scarpette da scalata, le braghe di tela, le magliette attillate, la polvere bianca e le fasce nei capelli – vecchi segnali di guerra – hanno sorriso al mercato dello sport e il mercato ha ricambiato il sorriso.
Negli anni ottanta la passione per la roccia è rinata in panni atletici e collettivi, beneficiando del cammino liberatorio del decennio precedente: si è buttata la dimensione simbolica e si è conservata la parte utile, esportabile e riproducibile. Lo sport dell’arrampicata, un’eresia che da almeno cent’anni scandalizza i sacerdoti del romanticismo alpino, si è imposto con lo spit, il ferro più democratico che esista. E oggi scalare è come giocare a calcio: una cosa bella, una cosa per tutti. Si può fare anche in città.
Il complicato passaggio culturale – alpinismo eroico, ribellione, trasgressione, sport – ha mandato alcuni alpinisti al manicomio e altri li ha mantenuti giovani. In fondo è sempre una questione di fantasia, anche oggi. Chi saprà stupirsi regnerà. Ma rileggendo il manifesto della Pace con l’Alpe, di cui Carlo Possa è stato ispiratore, si scopre che loro erano più avanti con il lavoro perché non si consideravano grandi alpinisti, e non gliene importava. Per questo la loro rivoluzione ha fatto meno vittime che sulle Alpi. Erano già cambiati dentro.
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