È nato prima il turismo alpino o l’alpinismo? Alla domanda non c’è risposta, perché nei primi tempi quasi coincidevano. Prendiamo uno dei luoghi topici delle Alpi occidentali, il Breuil, e proviamo a immaginarlo quando era un semplice alpeggio con qualche baita, una chiesetta e le vacche che pascolavano ai piedi di una montagna fantastica: il Cervino. A metà Ottocento il Breuil era già un posto eccezionale, certo più bello di adesso, ma siccome la Gran Becca non era ritenuta scalabile ci salivano solo rari escursionisti dal villaggio di Valtournenche, e ci passavano gli alpinisti diretti al Colle del Teodulo per traversare nel Vallese o per salire la bianca cima del Breithorn, sul vicino Monte Rosa. Più che turisti si può considerarli viandanti dell’Alpe con la A maiuscola, come insegnerà anni dopo Guido Rey in segno di religioso rispetto, pellegrini che non sfuggivano la fatica del cammino durante le incursioni sulle Alpi, anche perché non esistevano le strade e i mezzi di trasporto. Gli stoici pionieri erano sopportati dagli alpigiani e qualche volta ospitati nelle misere dimore contadine, se acconsentivano a dividere la notte con le pulci, il fumo e gli odori della stalla.
«Il Breuil è un vasto pianoro largo cinquecento e lungo duemila metri – preciserà il Rey nel suo libro sul Monte Cervino –. Nel mezzo serpeggia il Marmore, torrentello grigio di acque de’ ghiacciai, fra marcite di erbe e rovine di sassi; a mano sinistra di chi sale si stende una cortina di monti aspri e dentellati che dal Château des Dames va fino al Dente d’Hérens. Brani di ghiacciai precipitano rotti dalle pareti erte e lisce, trattenuti per un miracolo di equilibrio. La scogliera si abbassa rapidamente al Colle del Leone e di là, con un ultimo slancio, si solleva al punto culminante, il Cervino; nella selvaggia chiostra di rupi e di ghiacciai questi innalza nel cielo il suo cono, “solo come un pensiero superbo”. Poi la montagna s’acqueta come se fosse stanca di salire, e lo sfondo a destra della scena è tutto una calma di bianche vette ondulate; sembra che la natura abbia esaurito le sue asprezze sull’altro fianco della valle.»
Il Breuil intravede una nuova prospettiva nel 1856, quando la famiglia Favre, proprietaria dei terreni del Giomein a oltre duemila metri d’altezza, costruisce un piccolo albergo di quattro camere sulle prime balze della grande conca. Apparentemente non cambia niente perché l’hotel è solo un alloggio rustico e spartano, decisamente “sostenibile” secondo il concetto di oggi, ma dietro l’iniziativa aleggia la speranza di un futuro turistico se qualcuno si deciderà finalmente ad affrontare e domare il temuto Cervino. Le stazioni di Chamonix e Courmayeur sono decollate dopo le prime ascensioni del Monte Bianco tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, così anche il destino del Breuil dipende dall’ardire degli alpinisti.
Solo un anno prima, nel 1855, il glaciologo francese Daniel Dollfus-Ausset ha ipotizzato senza mezzi termini che «la salita del Monte Cervino sarebbe forse possibile con un pallone di inviluppo eccezionalmente solido e di forma speciale, trattenuto da una forte corda che si svolga lentamente, la quale permetterebbe all’aereo viaggiatore di dirigere la navicella e di giungere alla vetta». In Valtournenche gira ancora la vecchia storia del gigante Gargantua, il genio benefico della valle al tempo dell’Eden, quando c’era tale abbondanza di cibo che gli agnelli succhiavano il latte dai ruscelli e le bestie pascolavano al Breuil fino a Natale. Un giorno Gargantua sente la curiosità di spingersi oltre la barriera di rocce che chiudono la valle come una muraglia, ma appena tenta di scavalcare la cresta di confine la montagna cede e si frantuma tra le sue gambe ciclopiche, ritagliando la piramide del Cervino.
Nell’estate del 1857, tre bracconieri di Valtournenche si avvicinano coraggiosamente alla Gran Becca. Il più anziano si chiama Jean-Jacques Carrel ed è il migliore cacciatore di camosci della valle; il secondo Carrel, di nome Jean-Antoine, è un trentenne barbuto e severo che nel 1849 ha combattuto a Novara con i piemontesi e per otto anni è stato sotto le armi; il terzo pioniere è il giovane Amé Gorret, un gagliardo seminarista in vacanza. I tre arrivano solo sulla Testa del Leone, che non è certo il Cervino anche se lo guarda da breve distanza, ma da lassù si convincono che la scalata sia fattibile. In particolare se ne persuade il fiero Jean-Antoine Carrel, che con il ragazzo di Londra Edward Whymper diventa il protagonista della gara per il Matterhorn/Cervino nelle estati che precedono il 1865. La competizione piuttosto anarchica di Whymper e altamente strategica di Carrel, perché sostenuta e incoraggiata da Quintino Sella, uomo di stato e fondatore del Club Alpino Italiano, si risolve con un finale romanzesco il 14 luglio 1865 quando Whymper, Douglas, Hadow, Hudson e le guide Croz e Taugwalder salgono dal versante svizzero e in quattro cadono e muoiono durante la discesa, e il 17 luglio successivo quando Carrel, Gorret e altri due uomini della Valtournenche scalano la Becca dal versante valdostano, aprendo le porte allo sviluppo turistico del Breuil.
Denominato un po’ pomposamente Hôtel Mont Cervin anche se per quasi tutti continua a chiamarsi semplicemente Giomein, nel 1866 il piccolo albergo passa ai conti Passerin d’Entrèves che lo affittano alla vedova Geneviève Gorret. Come prevede il canonico Carrel nella guida della Valtournenche, «presto se ne potrà fare una struttura che non avrà niente da invidiare agli hôtel di Courmayeur, Chamonix e Zermatt». Nel 1867 si pagano 2 franchi e mezzo per la camera più un supplemento di 1 franco per il servizio e la candela, mancando ancora l’illuminazione ad acetilene; per la pensione completa bisogna sborsare 2 franchi per il pranzo e 4 per la cena; le guide spendono meno, ma sono ospitate in un locale a parte. Incuriositi dai racconti e dalle gesta degli scalatori arrivano i turisti dalle città, che comunque devono fare a piedi o a dorso di mulo il lungo avvicinamento sulla mulattiera.
Il Giomein decolla dopo il 1890, quando la gestione passa nelle mani di Eusebio Peraldo. L’oste è già conosciuto e apprezzato dagli amanti della valle per la disponibilità, la cortesia, la buona cucina e l’ottima scelta di vini. Con la numerosa famiglia, gestisce anche il rinomato Hôtel Royal di Valtournenche e il ristoro al Gouffre des Busserailles, quindi accoglie l’ospite durante le tappe del suo cammino. L’albergo del Breuil s’ingrandisce fino ad assumere la forma di parallelepipedo con la vela al centro, come un dorato veliero che galleggi sulle onde erbose. Dopo l’ingrandimento ospita un centinaio di letti, bagni, ufficio postale, telegrafo e, come testimonia il De Amicis, «eleganti sale ornate di araucarie e azalee, dove passano camerieri in giubba e cravatta bianca». Il nuovo Hôtel Mont Cervin è dotato di camere con tappezzeria, «mobiglia comoda, letti soffici, biancheria linda, odorante ancora quel sottile profumo che par abbiano l’acqua e l’aria di montagna»; la sala da pranzo profuma di conifera. Ora il Giomein può davvero confrontarsi con i migliori alberghi delle Alpi, superando l’antico complesso d’inferiorità di cui soffrivano il Breuil e la valle del Cervino. Adesso quasi si esibiscono gli illustri ospiti del passato e del presente, tra cui il ministro Quintino Sella e l’esploratore Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, gli scrittori Arrigo Goito, Matilde Serao, Giuseppe Giacosa, politici come l’onorevole Biancheri e il ministro Sidney Sonnino o semplicemente i giovani e le fanciulle saliti fin lassù ad acquistare la salute e il buon umore. Il 6 agosto 1893 si festeggia l’inaugurazione del grand hôtel con dieci portate annaffiate da pregiato barolo delle Langhe e si brinda con lo champagne e le note della fanfara di Chatillon.
Cambiano gli ospiti e le motivazioni. A cavallo tra i due secoli si sale al Giomein non solo più per camminare o scalare le montagne, ma anche per assecondare la moda della villeggiatura. Famiglie borghesi, dame colorite, fanciulle cagionevoli, giovanotti, artisti e professionisti soggiornano settimane o mesi interi, costituendo piccole comunità di vacanza; partecipano alla vita mondana senza allontanarsi quasi mai, affidando ai riti degli scalatori la cornice avventurosa: «Tratto tratto – scrive ancora Rey – si vedono giungere carovane di alpinisti e di guide che scendono dalle vette; quei volti recano il marchio del sole dell’altissima montagna; hanno negli occhi un riflesso strano degli orizzonti lontani veduti di lassù, e sembrano conservare nelle contrazioni dei lineamenti la traccia dell’emozioni. E, al loro giungere, l’albergo appare commuoversi tutto». Gli echi delle avventure altrui aggiungono sale alle villeggiature sedentarie, integrando sentimenti diversamente romantici.
In tale cornice s’inseriscono i soggiorni e le testimonianze di Edmondo De Amicis, in particolare quelli riferiti alla vacanza dell’estate 1902 in compagnia del figlio Ugo. Il racconto che presentiamo in queste pagine apparve l’anno seguente sul periodico “La lettura” diretto da Giuseppe Giacosa e venne poi ripubblicato e ampliato nella raccolta “Nel regno del Cervino. Nuovi bozzetti e racconti”, edita da Treves nel 1904. Vi troviamo i personaggi e gli avvenimenti tipici della villeggiatura alpina di inizio Novecento, ordinati e narrati con l’innegabile talento letterario del creatore di “Cuore” e drammatizzati in virtù del coinvolgimento personale dell’autore, in quanto padre di un alpinista e ansioso genitore in attesa.
Metà pascolo e metà villeggiatura, il Breuil di inizio secolo sembra resuscitare l’utopia della Valle Perduta, suggerendo l’incontro tra la gente di montagna che gioca ai birilli con pallottole di burro e forme di formaggio e la gente di città che si fa «abbracciare, baciare, accarezzare da cento bocche e mani amorose e invisibili, fresche di gioventù e fragranti di salute». Un piccolo mondo antico, al riparo da ogni modernità. Ma è l’ultimo abbaglio, perché la montagna sta cambiando molto rapidamente. Dove generazioni di alpigiani respiravano l’aria sottile senza chiedersi neanche se ne esistessero di diverse, la gente di pianura «sorseggia e gli par di bere allegrezza e forza». Dove il valligiano nauseato da tanto splendore sognava donne da osteria e un rosso da due soldi per scacciare la tristezza e la solitudine, il De Amicis annota candidamente:
«Oh, grande e benedetto silenzio! Là veramente ne apprezza e ne gode il benefizio chi ha la consuetudine del lavoro intellettuale… Appena levàti, la mente è sgombra subito d’ogni nebbia di sonno, lo spirito pronto, il pensiero chiaro come l’aria…» E ancora: «A ogni uscio, su ogni terrazzo, a ogni uscita sulla piazzetta vi sentite come abbracciati, baciati, accarezzati da cento bocche e mani amorose e invisibili, fresche di gioventù e fragranti di salute».
Il baffuto e corporuto Edmondo, pesantemente provato dal suicidio del figlio Furio, dai propri tradimenti coniugali e dalle tante amarezze famigliari, estrae poesia dalle pieghe della montagna più bella del mondo, scelta appositamente per dimenticare le pene del piano. Indentificandosi con gli spiriti più sensibili e abbracciando i sentimenti più incantati, ma non così ingenui come potrebbero sembrare, l’anziano scrittore condivide la meraviglia dei cittadini che salgono ogni estate al Breuil in cerca di pace e si perdono intenzionalmente nella nostalgia di un mondo ideale e transitorio, destinato a scomparire con la fine della bella stagione e il ritorno in città. Con un occhio osserva e con l’altro partecipa alla grande liturgia della montagna, dandosi il tempo di scrutare e afferrare la pur minima variazione di sole e ombra, riverbero e crepuscolo, fino a perdersi dolcemente in quelle atmosfere. È il gioco lento delle villeggiature romantiche, che riscattano la monotonia dei luoghi e delle situazioni con la magia delle ore e il rinnovamento dei giorni, come occorresse immobilizzarsi per vedere in profondità e svelare l’anima del paesaggio montano.
Il teatro della villeggiatura è comunque destinato a restare un posto esotico, del tutto alieno alla «Torino regolare e simmetrica – scrive in altre pagine lo stesso De Amicis – che spalanca verso le Alpi la gran bocca di Piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l’aria sana e vivificante della montagna». La Torino dell’anziano scrittore è la Torino delle Alpi sempre geograficamente e idealmente presenti, che però tra poco vedrà lievitare lo stabilimento della Fiat di corso Dante, giovane fabbrica di “mezzi di locomozione di qualsiasi genere e sistema”, dove nel 1904 il socialista Edmondo assisterà ai moti operai e allo sciopero nazionale e dove nello stesso anno nascerà il Club Alpino Accademico Italiano, una sorta di emancipazione degli alpinisti dalle zavorre del passato.
Prima che tutto questo avvenga, il 6 settembre 1903 De Amicis è di nuovo al Giomein per “benedire” il pranzo del Congresso degli alpinisti italiani:
«A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita (poiché vivere, nell’alto significato della parola, è salire); auguro quanta felicità è possibile in un mondo dove è legge la lotta; e tutti i conforti che possono dare ai dolori inevitabili l’ardor del lavoro, il sentimento della forza, l’ammirazione della natura e una profonda, invitta fede nella potenza infinita del bene…»
Il messaggio contiene i temi archetipici della religione della montagna: innanzi tutto il vangelo di Guido Rey – «Credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede» –, che attraverserà tutto il secolo stampigliato sulle tessere dei soci del Club Alpino; poi lo slancio virile e virtuoso dell’ascensione, che distingue i casti cimenti delle vette dalle lascive mollezze del piano; infine, accompagnata dalla compassione per le pene dell’esistenza umana, la fede nel bene superiore: salire più alto, dunque più vicino all’assoluto. In questo modo l’alpinismo, attività elettiva fondata su sane pratiche e buone tecniche, si candida come il veicolo privilegiato per un riscatto morale.
I fondatori dell’alpinismo subalpino sembrano nati vecchi nei loro colletti bianchi e inamidati, con le catenine dorate degli orologi che pendono sul panciotto da escursione. In realtà sono molto più giovani degli alpinisti di oggi e l’abito austero è solo il marchio che certifica gli alti valori dell’uomo di montagna. La rappresentazione in grigio del Club Alpino autentica l’intento pedagogico dei suoi dirigenti, convinti che non basti istruire i giovani all’arrampicata ma occorra insegnare loro la moderazione e la virtù che sottendono ogni sano “diletto dell’Alpe”. La montagna non è un posto per tutti, presuppone una spartana iniziazione morale. Lo sa bene Ugo De Amicis, figlio secondogenito di Edmondo, che vediamo alle prese con la prima grande ascensione nell’ansioso racconto del padre. Discepolo fedele di Guido Rey, Ugo è destinato a firmare un libro di rilievo come Piccoli uomini e grandi montagne e almeno due importanti vie nuove (con guida) sulle montagne della Valtournenche: parete est della Punta Lioy sulle Grandes Murailles e cresta sud del Cervino fino alla Cravatta.
Ed eccoci di nuovo a lui, il vero protagonista di questa storia, ed eccoci ancora al 1904, quando il poeta alpinista Guido Rey pubblica il capolavoro di letteratura alpina Il Monte Cervino (Hoepli, Milano) con l’introduzione di Edmondo De Amicis:
«Non vi ha monte che prenda ai nostri occhi un’espressione così personale; siamo tentati di cercargli una fisionomia come ad un uomo o ad un mostro, di credere che in quel capo enorme sia un pensiero, e che si legga sulla fronte di pietra l’espressione della sua alterezza e della sua forza; e per poco che le nubi, correndogli intorno, secondino con l’illusione ottica la nostra fantasia, ci sembra di vederlo muoversi, reclinare il capo in atto triste, o raddrizzarlo con ardimento di Titano, e si pensa con terrore come sarebbe potente se si movesse davvero.»
Il Cervino resta al centro della scena per altri venticinque anni, alto e incontrastato sopra il giallo vascello del Giomein, finché il turismo dell’élite diventa turismo di massa e l’invenzione dello sci scardina ogni riferimento della vecchia civiltà alpina, a cominciare dai concetti di pendio e fatica, e la neve diventa l’oro bianco delle Alpi. Per una delicatezza del destino, Guido Rey muore nell’anno in cui la strada e le automobili raggiungono il Breuil e non fa in tempo ad assistere al sacrilegio. Gli viene risparmiata la visione del nastro di terra battuta che con apparente innocenza si insinua nella conca muta, legando i primi edifici e sciogliendo l’ultimo sogno romantico. Il matrimonio è presto fatto: lo sci rappresenta la nuova visione delle Alpi e il Breuil sembra disegnato dal dio degli sciatori. Pendii dolci e apparentemente sterminati, rivolti a mezzogiorno. Se a Sestriere la famiglia Agnelli ha creato una città della neve, al Breuil non resta che imitare l’idea migliorandola quanto possibile. I cittadini incalzano i montanari perché cedano la terra, è solo una questione di prezzo. Nel 1933 la famiglia Maquignaz vende all’ingegnere biellese Lora Totino e alla sua cordata di imprenditori il primo lotto di pascolo e nasce la Società Cervino. Nell’ottobre del 1934 la prima automobile FIAT entra nella piana del Breuil sulla nuova strada sterrata, due anni dopo la funivia raggiunge Plan Maison e Gianni Albertini inaugura l’Hotel Cervinia, progettato dall’architetto Mario Cereghini. L’invenzione semantica di Cervinia è un omaggio al fascismo in dispregio all’etimologia francofona. «Cervinia, nome squillante ed italianissimo» si compiace il suo “inventore” Dino Lora Totino, che per i successi imprenditoriali in quota merita la stima del Duce e la nomina a Conte. Ma Cervinia è molto di più, perché corrisponde alla cancellazione del Breuil e alla modernizzazione del luogo antico per vocazione. Una violazione definitiva.
Lo sci di massa inventa un’altra montagna, trasformandola da luogo di vita a impianto, da ambiente a cornice, da agglomerato storico a palcoscenico. Se la Gran Becca di De Amicis e Rey era un dio capriccioso e solenne, il Cervino degli sciatori è soltanto uno sfondo. Eccezionale, certo, ma niente più di una bella tappezzeria. Cervinia è un set, uno spot, un cantiere. A partire dagli anni Trenta tutti costruiscono e intraprendono nella grande conca, ma nessuno sembra curarsi del risultato. Si commissionano linee guida e piani regolatori ai più illuminati pensatori del momento, poi i disegni vengono accantonati e ci si affida ad anonimi speculatori abbagliati dalla neve e attratti dai facili guadagni. Invece di cercare un modello architettonico e culturale che consenta alla montagna di liberarsi dai lacci del passato senza stravolgere la propria identità, si preferisce replicare il modello urbano esportandolo semplicemente in quota. Così Cervinia diventa il surrogato della città, una dorata periferia.
Con alterne fortune, l’Hôtel Mont Cervin tiene duro fino al termine degli anni Sessanta del Novecento, quando è inglobato nel complesso del villaggio Pirovano, il prestigioso centro per lo sci estivo. Anche la memoria del Giomein viene travolta dall’ondata dello sci, prima di perdersi malinconicamente in una multiproprietà che, della meravigliosa storia, non conserva nient’altro che una citazione di De Amicis sulla gialla facciata:
«…Come un punto nero vedevo ancora la finestra della mia camera d’angolo, che mi rammentava tante ore passate al lavoro…»
Oggi il Giomein che esce da una ricerca su internet è il complesso residenziale di Mario Galvagni, anni Sessanta pure quello, che si srotola come un serpente di legno e cemento sotto gli sciatori appesi nei gusci di plastica trasparente. Il Cervino vero si sovrappone a quello delle insegne e i piani visivi si confondono irreparabilmente. Il vecchio Giomein è soffocato lì in mezzo. Tumulato. Estinto.
Pubblicazione