Gaston Rébuffat non nacque grande. Anzi, a sentire un “grande” che lo conobbe bene, Lionel Terray, Rébuffat ebbe un’infanzia incolore, piccolo borghese, e dovette interrompere anzitempo i propri studi: «Quando lo conobbi all’età di vent’anni – scrive Terray nel suo capolavoro Les conquerants de l’inutile -, era un ragazzone dinoccolato, timido, disciplinato, dolce e un po’ opaco. Sembrava il tipico esemplare di francese medio, non dotato di particolari qualità ma neanche afflitto da difetti notevoli».
A quel tempo Rébuffat viveva vicino al mare e lavorava in ufficio. La domenica frequentava le Calanques, il paradiso degli arrampicatori marsigliesi, oppure si spingeva sui monti del Delfinato, ed era dunque un impiegato un po’ particolare benché i suoi modi svogliati e distratti, ribaditi dalla corporatura disarmonica, non lasciassero presagire i grandi progetti che gli bruciavano dentro. «Progetti apparentemente deliranti – precisa Terray -, ma sostenuti da una volontà inflessibile, da una napoleonica capacità decisionale e da un’intelligenza intuitiva acutissima».
Insomma fu la passione a cambiarlo e a cambiare la sua vita, durante la guerra divenne guida e decise di trasferirsi ai piedi del Monte Bianco, poi ripeté tutti gli itinerari più temuti delle Alpi occidentali e centrali, dalla via di Cassin sulle Grandes Jorasses all’altra Cassin sul Pizzo Badile, e aprì difficili vie nuove. Nel 1950 fu selezionato per la spedizione francese all’Annapurna, il primo ottomila salito dall’uomo, e si prodigò prima per il successo e poi per il salvataggio di Herzog e Lachenal. Dopo tornò sul Monte Bianco, il suo “giardino delle fiabe”, e con clienti assai dotati si confermò la più grande guida del dopoguerra. Nel 1952 salì la parete nord dell’Eiger in drammatiche circostanze.
Passati i trent’anni Rebuffat aveva raggiunto il pieno vigore fisico e morale; la notorietà, le esperienze e la tecnica acquisite gli avrebbero facilmente permesso di dedicarsi ai grandi problemi dell’alpinismo, dai colossi himalayani agli appicchi patagonici, ed era esattamente quello che i colleghi e l’opinione pubblica si aspettavano da lui, ma Gaston stupì gli amici un’altra volta: «Marito esemplare – continua Terray – diede una nuova svolta alla sua vita. Dimostrando una stupefacente capacità di adattamento a tutti i lavori Rébuffat riuscì a distinguersi in numerose professioni e riportò in tutte notevoli successi. Divenne nello stesso tempo l’animatore commerciale di un’azienda importante, scrittore di montagna con opere di bello stile e di grande vena poetica (con tirature eccezionali), fotografo di talento, abile e applaudito conferenziere e, infine, regista di film molto promettenti».
Tre qualità sembrano distinguere Gaston Rébuffat da gli altri grandi alpinisti del suo tempo: l’intuito, la sensibilità e il senso dello spettacolo.
L’intuito, innanzitutto. Non si limitò certo ai cambiamenti di prospettiva lavorativa – anche perché la professione di guida legò comunque come un filo rosso tutta la sua esistenza -, ma fu piuttosto la capacità di esplorare ciò che sta dietro l’orizzonte più ovvio, la linea che tutti vedono e dove i più si arrestano senza fantasia.
La sensibilità, che è una qualità che non si impara emerse invece piano dall’interpretazione di queste linee, gli “orizzonti conquistati», o meglio “guadagnati”, che sono sempre povera cosa se non nascono dall’attesa e non si realizzano attraverso una ricerca di armonia: «Nonostante i fulmini che scoppiano intorno a noi, la neve che ci acceca, le raffiche del vento che ci fanno perdere l’equilibrio, proviamo un piacere sobrio: quello di rimanere padroni di noi stessi, calmi e meticolosi nonostante le avversità».
Infine il senso dello spettacolo, cioè il fiuto per il messaggio cha fa presa sul pubblico e ne sa cullare le aspettative, i sentimenti, i sogni. Nei libri e nei film di Rébuffat troviamo alcuni ingredienti ricorrenti che, con mestiere ma senza ruffianeria, sono lì apposta per incantare lo spettatore: l’amicizia, la bellezza, la semplicità, le voci della natura. E la professione della guida, idealizzata ma non tradita, è come una liturgia a lieto fine che fa sentire gli uomini migliori, o la favola bella di Disney con cui ci illudiamo di tornare bambini: «l…l Dopo le privazioni della notte ci sediamo con piacere davanti alla colazione. Siamo pervasi da una gioia incomparabile. Il gusto amaro della birra, la minestra bollente, i muri spessi del rifugio… profumo di prosciutto, vino del paese: come è simpatico tutto questo, e che bello mordere un frutto! La felicita è fatta di cose semplici. Per farci meritare questa felicità bisogna dire che la montagna ha messo insieme tutte le sue risorse: la bellezza del Cervino, la sua storia, la salita prima facile e poi acrobatica, il bel tempo e poi la tempesta, e questo spuntino nella capanna dell’Hörnli. Ma prima di tutto c’è stata l’amicizia con i compagni di cordata, senza la quale le meraviglie della natura avrebbero rischiato di rimanere fredde e aride».
Credo che Rébuffat sia stato l’ultimo pieno interprete del classicismo alpinistico, inteso come l’incontro armonico tra l’uomo e la montagna secondo la tradizione dei padri. Ma attenzione: l’eredita dei poeti dell’Alpe non deve trarre in inganno. Rébuffat, da uomo intelligente qual era, non è mai caduto nell’ipocrisia della montagna salvifica e automatica dispensatrice di virtu. Le sue limpide denunce contro l’inquinamento biologico e mentale («Soffocare la natura è un modo per non vederci più»), che non risparmiavano agli alpinisti il peso delle loro responsabilità, sono un primo indizio di questa lucidità che oggi lo vedrebbe probabilmente impegnato nelle battaglie ambientaliste. Ma negli ultimi anni della sua vita già minata dal cancro, Rébuffat seppe denunciare anche più esplicitamente le mistificazioni del “buonismo” alpinistico, confidando al giornalista di “Alpinisme et randonnee” Jean-Michel Asselin che la montagna non porta nessuna qualità supplementare: gli alpinisti – lassù in alto – non sono dei santi».
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