Kurt Diemberger è un personaggio anomalo nel panorama alpinistico europeo, perché non appartiene a nessuna scuola, non è fedele a nessuna chiesa, non si sa più nemmeno a che paese attribuirlo. E’ nato in Austria, a Salisburgo, si è innamorato di due donne italiane, ha cercato montagne sacre ovunque, ha salito il Broad Peak con Hermann Buhl e il K2 con Julie Tullis, e Julie gli è morta tra le braccia in una tempesta, scrive libri, scatta fotografie, gira documentari, si batte per l’ambiente, tira avanti come un vagabondo colto, un cittadino del mondo.
Kurt è il contrario della specializzazione, Kurt è il contrario della programmazione, Kurt è il contrario del conformismo. E’ capace di andare solo dove lo porta lo spirito («solo gli spiriti dell’aria sanno che cosa incontrerò dietro le montagne…»), non sa sottomettersi a niente e a nessuno, non rispetta i tempi, non rispetta le regole, persegue testardamente obiettivi e sogni come se esistesse lui solo su questa terra. Kurt è anarchico nelle idee, è anarchico in montagna, è anarchico nelle amicizie, è anarchico nel lavoro, ma è un anarchico tedesco, ostinato, puntiglioso, talvolta addirittura pedante. Può esistere un anarchico pedante? Sì, può esistere, si chiama Kurt Diemberger.
Quando monta un documentario o pubblica un libro, Kurt è il terrore dei montaggisti e degli editori, perché non si accontenta mai, ritocca ogni giorno da capo, toglie, aggiunge, corregge all’infinito. Eppure montaggisti ed editori gli perdonano molto: innanzitutto perché Kurt è un uomo buono, uno che non gioca con il potere, e poi perché chi lo conosce sa che da quel processo infinito da quelle misteriose alchimie della sua mente, alla fine sboccerà il fiore del racconto.
Diemberger ha un dono naturale, che è il dono di vedere i segreti che stanno dietro la maschera delle cose, ed è il dono di rielaborarli e di raccontarli. “Gipfel und Geheimnisse, Cime e segreti” è appunto il titolo del suo secondo libro pubblicato nel 1980, e molte cime e molti segreti fanno parte di questo nuovo libro che tenete in mano. Che poi Kurt salga la lunga cresta di Peutérey al Monte Bianco (che bello quel film, semplice e bello) o esplori il versante cinese del Broad Peak non fa una gran differenza. Non fa differenza neppure quando racconta la Meseta spagnola nelle ultime righe di “Tra zero e ottomila”, il suo primo libro. E la Meseta diventa poesia.
Un personaggio anomalo, premettevo, e ora credo di aver capito perché. La storia dell’alpinismo è piena di visionari che hanno proiettato le loro montagne in una realtà metafisica e metarazionale, così come è pieno di uomini d’azione che hanno misurato le montagne con la forza della ragione. Di solito i visionari hanno versato fiumi d’inchiostro, con linguaggi lirici e sognanti, traboccanti di simboli, mentre gli altri hanno scritto poco, o nulla. Ecco, Kurt Diemberger è poco classificabile perché è un visionario addolcito dalla logica, un sognatore salvato dalla professionalità. Il metodo e il puntiglio che lo caratterizzano sono i segnali di una ricerca espressiva che non si ferma all’intuizione, o all’esperienza, ma che assegna alla narrazione anche la dignità di un mestiere.
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