Il Nuovo Mattino non è nato in Valle dell’Orco, ma nella mente di alcuni giovani torinesi animati dalle intuizioni di Gian Piero Motti. Provarono a giocare con la storia per renderla più umana. La Valle è venuta di conseguenza, si potrebbe dire per gemmazione spontanea, perché rappresentava la faccia meno esplorata e meno commerciabile del “granito” (gneiss), perché sposava bene lo spirito ribelle dei ragazzi degli anni Settanta con le profonde radici subalpine, perché offriva il terreno ideale per quel patto di alleanza tra l’uomo e la parete che era alla base della filosofia del rinnovamento.
Avventura vuol dire incamminarsi su sentieri sconosciuti a rischio di perdersi. Per paradosso, in quegli anni, c’era più mistero in una placca di gneiss a pochi minuti dall’auto che in una remota parete del Gran Paradiso o del Monte Bianco, retaggio dell’alpinismo eroico e del suo usato e abusato corredo di fatica, sacrificio, santificazione. Era tutto già visto, insomma. Così agli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, al mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, agli abiti grigi della festa andavano sostituiti vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altipiani, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi emblematici: Tempi moderni, Itaca nel sole, Cannabis, Nanchez, Rivoluzione. Per far questo non servivano guglie sperdute in cima ai circhi glaciali o muraglie di roccia tappezzata dal gelo, ma specchi di pietra alla luce del sole dove poter giocare, arrampicare duro, catturare visioni, tirare a sera e trasgredire a volontà. La fascia rocciosa di Balma Fiorant, ribattezzata Caporal in risposta al mito americano, era il posto ideale: così vicina eppure così lontana, così visibile eppure così selvaggia, così maliarda eppure così sfuggente. Nel mistero di quei muri di pietra argento colorata di giallo dai licheni, in quel vuoto autenticato dal volo dell’aquila, in quel brivido addolcito dal profumo dei larici, c’era l’avventura che i giovani cercavano: sulla porta di casa, in bella vista da sempre, proprio sopra i familiari tornanti di Ceresole che gli alpinisti torinesi e canavesani avevano risalito decine e decine di volte per scalare le Levanne, il Courmaon, il Ciarforon e altri pezzi di paradiso. Senza alzare mai la testa.
Gian Piero Motti fu determinante nel processo di scoperta, non tanto perché scrisse sulla Rivista della montagna il famoso articolo “Il nuovo mattino” (1974), ricavando dall’alpinismo californiano e dalla famosa via di Harding e Caldwell The wall of the early morning light (El Capitan, 1970) una sorta di legittimazione domestica per rompere con il passato, quanto perché diede voce, forma e dignità letteraria a un fenomeno che forse, diversamente, si sarebbe risolto in qualche arrampicata e in un’omerica bevuta. Motti intuì che i tempi erano maturi e nell’autunno del 1972, in due tentativi, salì con Manera e compagni la parete del Caporal per la via più logica: i Tempi moderni. Le difficoltà, le tecniche e lo stile di arrampicata non erano poi tanto diversi da quelli delle montagne vicine, ma la concezione, almeno nell’animo di Motti, era già rivoluzionaria:
“È vero – scrisse su Scandere – ai piedi della parete si estende la foresta, sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e il pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso “istante” che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde”.
Alla fine aggiunse:
“Se poi qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi”. Al contrario.
Aperti i giochi, lanciata la prima pietra, mancava ancora un marchio tangibile della nuova arrampicata. Arrivò con l’inglese Mike Kosterlitz, studente al Politecnico di Torino, che nel marzo del 1973 salì il diedro centrale della Torre di Aimonin senza usare un solo chiodo. I piemontesi che lo seguivano restarono sgomenti, rondini senza ali, finché Mike non mostrò loro dei misteriosi aggeggi chiamati nut che si infilavano nelle fessure senza far male alla roccia. A metà aprile, sulla parete aperta del Caporal, Kosterlitz insegnò a Motti e Grassi come si usavano i rurp e i chiodi angolari, e soprattutto li aiutò a capire che sul granito non bisogna mai dire mai, almeno prima di averci messo le mani. Fessure invisibili gli si aprirono sotto le dita e in sette ore spuntò il Sole nascente.
Passa un altro anno, arriva un nuovo autunno. Larici d’oro, ombre intense. Il cielo di cobalto si riflette sullo specchio del Caporal. In un mese Motti, Galante, Bonelli e amici assortiti salgono due vie straordinarie: il diedro Nanchez e il Lungo cammino dei Comanches.
Il Nanchez è un’avventura fantastica, il diedro sembra partorito dalla mano di un ciclope. Più che arrampicarsi sulla parete i cinque ragazzi entrano tra le labbra della roccia, si confondono con la pietra, strisciano come rettili verso la liberazione dell’altopiano. Escono a notte fonda, rischiano il bivacco e scendono nel bosco a corde doppie, sotto una precoce nevicata.
Poi vengono i Comanches, con un magnifico sole. Motti inventa la via diagonale che dalla base dei Tempi moderni va ad attraversare la placca del Sole nascente e guadagna la cima per un temibile sistema di diedri e camini strapiombanti. Un intero giorno di viaggio tra i punti deboli della parete. L’ultimo viaggio?
Le belle storie finiscono presto e l’epoca d’oro della Valle dell’Orco si esaurisce appena tre anni dopo i primi approcci, l’antico timore, l’improvviso amore. Già nel 1975, in piena trasgressione alpinistica, Motti percepisce che il mito si è logorato e che sarebbe patetico tentare di mantenerlo in vita con degli artifizi. Le vie più eleganti sono state tracciate, i tabù sono tutti infranti, si è consumato il sacro furore. Meglio smettere in tempo, che altrimenti poi si rischia di assomigliare a quelli della lotta con l’Alpe, irriducibili masticatori di pietre senza sapore.
Motti cita Dylan:
“Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean: sono tutti morti. I grandi libri sono stati scritti. I grandi detti sono stati pronunciati. Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non so bene cosa stia succedendo”.
Prima di chiudere con la Valle gli resta ancora da salire la via più bella del Caporal, la linea perfetta sul muro a destra dei Tempi moderni, un sistema di fessure così sottili che sembrano disegnate dalla matita di un genio. Gian Piero prova già la nostalgia di Ulisse, sa che “è il viaggio stesso che mantiene in vita”, eppure arrampica con classe e determinazione, e supera il muro ricorrendo a un artificiale delicatissimo, spettacolare. Arrivato sull’altopiano battezza la via Itaca nel sole. Poi saluta la parete e se ne va.
Penso agli scarponi di Gian Piero il giorno di San Giovanni del 2003, mentre cerco di scappar via dall’ultimo spit del terzo tiro di Itaca. Diavolo, quando c’erano i chiodi a pressione non sembrava poi così liscio… Ma non è questione di spit o di chiodi a pressione, piuttosto del fatto che mi porto sul gobbone un quarto di secolo in più (ventitré anni che non vengo al Caporal: incredibile) e nel frattempo è cambiato il mondo. E sono cambiato io.
Abbandonata la famosa lama staccata ci si sente naufraghi in un riflusso di gneiss, così mi sento in quel momento, e la seconda sezione di Itaca ti batte in testa come la pagina di un libro ciclopico pronto a chiudersi e ridurti in polvere. Il registratore del cervello mi restituisce la sensazione primordiale dell’insetto spalmato sulla parete e poco alla volta, resuscitati dall’adrenalina, risalgono alla mente ricordi nitidi di grani di pietra, ombre fuggenti, vertigini addormentate, vuoto totale. Uno strano modo di tornare ragazzo.
A un tratto il film subisce un’accelerazione e dal mio stesso vuoto vengono fuori quattro scalatori velocissimi, extraterrestri. Accarezzando l’idea di buttare le doppie e ritirarmi onorevolmente, mi accorgo che si tratta di vent’anni di storia dell’arrampicata e saluto Cristian Brenna, Giovannino Massari, Andrea Gallo e Marco Ballerini. Tutti insieme sulla cengia che fu di Motti e compagni, il più arioso salotto della Valle dell’Orco.
A volte la sceneggiatura perfetta è la vita. Sono partito con la memoria del vecchio Caporal dove cantava il martello di Gian Piero e mi ritrovo due generazioni avanti, maglietta, braccia nude, muscoli scolpiti e Brenna che sale il muro di Itaca con dodici rinvii, senza toccare i chiodi. Due generazioni. Una danza. L’abisso.
Con mia moglie Gabriella affronto le fessure di Rattle Snake, a mezza strada tra i Tempi moderni e Itaca. Taglio in due la storia di Gian Piero. Pochi metri e molti gradi più in là Brenna lievita sui fessurini del muro, Ballerini lo assicura e Gallo scatta le fotografie.
“Fermati Cristian, sei in ombra.”
“Posso andare?”
“Adesso vai, bene, ancora un chiodo, così è buona.”
“Cazzo si scivola!, non c’è più l’aderenza dell’altro giorno.”
“L’hai provata troppe volte, ti sei rimbambito.”
“Hai ragione, torniamo giù.”
In discesa il Caporal è cambiato anche di più. Due doppie spaventose e altre tre normali, mezz’oretta e sei con i piedi in terra. Il tempo di un tè con i biscotti. Poi si tirano giù le corde e ci si accorge di quanto strapiombava.
“Ci vediamo da Blanchetti per una birra?”
“Va bene, un’altra mezz’ora e ci siamo.”
Nella galleria penso a Gian Piero, che mi descriveva la strada di Ceresole come un itinerario iniziatico. I massi tagliati dai ciclopi, le pareti argentate, l’oro dei larici in autunno, il rombo del torrente, l’aquila e il cielo. Adesso non si vede più niente fuori dal tunnel e la povera fessura Kosterlitz è stata imbrigliata, addomesticata, umiliata. Forse era meglio se ne facevano ghiaia. Però il Caporal è sempre stupendo, e anche la Valle è bellissima. Se avessi vent’anni la sognerei ogni notte.
La prima volta che ci siamo incontrati alla Rivista della montagna mi sono fatto coraggio e gli ho confidato che volevo andare alla Torre di Jamonin. Allora Gian Piero ha preso un foglietto di carta stropicciata che sembrava uscito dalla tintoria, ha schizzato lo spigolo di Jamonin con la matita e in cima allo spigolo, più che disegnare, ha inciso una fessura con uno dei suoi gesti carismatici:
“Ecco, qui fai conto che un dio abbia tirato un colpo di spada. Questo è il tiro dopo la grotta: bellissimo.”
Come facevi a non farti innamorare? Per noi ragazzi le sue parole avevano il suono della nuova frontiera e lui era il capo indiano che cavalcava davanti al mucchio. Finché il mito non rivela le sue crepe un capo può chiedere di tutto ai propri discepoli, anche di seguirlo su una strada pericolosa, incerta, impopolare, talvolta incomprensibile.
In lui l’atteggiamento del guru attraeva e allontanava. Certe volte era veramente il profeta che ti fa toccare il cielo con il pensiero, altre volte aveva la pesantezza dell’uomo inquieto, lacerato, psicologicamente fuori misura, anche se conservava sempre la lucidità e l’intelligenza delle menti superiori.
Ma Gian Piero sapeva anche mollare i freni, ed era il Gian Piero più caro. Come quando spuntò in Rivista con la faccia di uno che non dorme da una settimana e disse “ho finito la “Storia””. Cominciò a perdere tempo, mandò all’aria delle carte, aveva voglia di giocare. Erano due anni che lottava con quella sua opera immane, la “Storia dell’alpinismo” da Petrarca a Renato Casarotto, consultando centinaia di testi, verificando date, elaborando intuizioni. Si era cimentato in totale solitudine, una sfida da pazzo, una “prima”, perché pensava che quell’impresa riguardasse solo lui, il suo sapere, la sua eredità. E ci era riuscito.
Io non l’ho mai visto fare alpinismo sul serio. Quando ci siamo conosciuti aveva già abbandonato fisicamente l’alta montagna, pur portandosela dentro come una memoria materna, inseparabile. Però l’ho visto scrivere la “Storia” e so esattamente con che stile scalasse, quanto desiderasse, quanto si spendesse. Entrambi ignoravamo il significato dell’arrampicata a comando, per far punti o per riempire la vita; entrambi avevamo bisogno di una scintilla, un senso, una visione.
L’unica volta che abbiamo scalato insieme era di pomeriggio. Senza corda, a casa sua, su un risalto secondario del vallone di Sea.
Gian Piero sapeva che sopra quel muretto tappezzato di muschio e lichene si apriva una specie di cengia che portava sotto le pareti, tipico stratagemma da cacciatori, o da ragazzi incoscienti, ma prima della cengia bisognava fidarsi dei piedi e di quella roccia resa marcia dal gelo e dal disgelo, che se ti scivolavano le scarpe da ginnastica eri di sotto sulle pietre.
Gli ho urlato “Gian Piero, io torno indietro!”.
Lui ha continuato per la cengia ed è sceso da me. Quando ci siano ritrovati sul ghiaione ha detto:
“In alto c’era una bella luce”.
Poi ha aggiunto:
“Se ci provavi cadevi. Non era il tuo momento”.
Questo era Gian Piero, e questo era il Nuovo Mattino. Ricerca dell’inesprimibile, attimo, speranza, fuga, allucinazione. Non è vero che lo sport non c’entrasse, al contrario si allenavano come matti, ma lo sport andava maneggiato con cura perché riduceva i margini del mistero.
Per Gian Piero la montagna e la parete sono sempre state metafore di assoluto. Lui cercava la cima e guardava oltre. Nella roccia vedeva i colori di un altro mondo, libero dal dolore e dall’angoscia, dove non si sente né fame né freddo né nostalgia.
“Anche il freddo – diceva – è sintomo di cattivo spirito. Quando non sentirò più freddo tornerò a fare le invernali.”
E invece il freddo non lo ha più lasciato, nemmeno la mattina che è venuto a salutarci in Rivista, a metà giugno del 1983, ed era così sereno che nessuno di noi ha capito.
Aveva già programmato la data e il luogo, nelle sue Valli di Lanzo. Il posto lo conosceva fin da bambino e quanto al giorno aveva scelto il solstizio d’estate, quando il sole sale più in alto sulla Bellavarda e la notte fa meno paura.
Era un’anticipazione di cielo, la più verosimile immagine di infinito concessa a chi si sbatte in questo, di mondo.