Catalogo della mostra. Valle D’Aosta, Forte di Bard 17 giugno – 18 novembre 2022
Perché le persone sottovalutano il riscaldamento globale? Perché il mondo è pieno di scettici, denigratori e detrattori climatici? Perché i ricercatori si sgolano da trent’anni senza ottenere l’attenzione e la preoccupazione che ci si aspetterebbe dall’evidenza scientifica? Dato che ci nutriamo di immagini, dev’essere un problema di rappresentazioni visive. Forse i sintomi sono evidenti, ma i simboli non lo sono affatto.
Il primo simbolo di grande impatto fu l’orso bianco su una fetta di iceberg galleggiante. Ricordate? La zattera (l’iceberg) e il naufrago (l’orso) avrebbero dovuto gridare all’umanità che si andava inequivocabilmente alla deriva e che la fusione del ghiaccio polare comportava la perdita di ogni sicurezza futura. Ma alcuni obiettarono che l’orso era in salute e non sembrava affatto terrorizzato, altri aggiunsero che gli orsi polari s’erano sempre divertiti a fare surf sugli iceberg nel mare artico, e siccome il mondo trabocca di “zoologi” che sanno tutto degli orsi e delle loro abitudini, l’immagine, pur forte ed emblematica, cominciò a sbiadire alla velocità con cui sbiadiscono le gioie e gli affanni su internet.
Finché nel 2017 arrivò l’orso bianco di Paul Nicklen, fotografo del National Geographic e attivista di Sea Legacy. L’animale in fin di vita spiato da Nicklen fu presto immortalato in un video così scioccante da fare il giro del mondo. Il protagonista del filmato era un maschio dell’isola di Baffin; la location una spiaggia priva di ghiaccio a fine estate. La sequenza scorreva rallentata e tremante come un’eutanasia visiva. Il magrissimo orso dalle ossa sporgenti si trascinava sulla ghiaia in cerca di cibo, afferrava qualcosa da un bidone arrugginito, trangugiava a fatica con la bava alla bocca e poi si sdraiava in terra aspettando di morire.
Nicklen colpì nel segno: attraverso la diffusione sui canali social, l’orso morente di Baffin divenne il simbolo dell’ignavia dell’uomo contemporaneo, anche se l’autore dei video, onestamente, ammise che non si poteva provare con assoluta certezza che «l’animale si trovasse in quelle condizioni a causa della mancanza di ghiaccio sull’isola». Ma insinuò una provocazione: «Non si tratta forse di un primo terribile sguardo verso un futuro in cui il ghiaccio raggiungerà la minima estensione storica?» Per Nicklen la morte di stenti di quel grande mammifero vestito di bianco era l’assaggio del grigio futuro dell’umanità.
Le due storie finirono lì, come finiscono spesso i melodrammi inscenati dai social media. Abbiamo rimosso dalla coscienza gli orsi traghettatori del mare artico e ci siamo scordati l’orso moribondo sull’isola di Baffin, perché siamo bravissimi a mettere da parte ogni cosa, anche la più dolorosa, purché non capiti proprio a noi, sotto casa, dentro casa, purché non travolga direttamente i nostri affetti, i nostri sguardi e i nostri paesaggi. Finché avremo abbastanza orsi di peluche per far giocare i bambini, potremo anche fare a meno di un anonimo orso denutrito che si trascina a morte migliaia di chilometri più a nord. Finché avremo i frigoriferi ben provvisti di ghiaccio e le piste di neve artificiale per posare gli sci quando viene il Natale, potremo anche ignorare la fulminea fusione del manto glaciale nei sei continenti, a cominciare dall’Antartide che ormai ne perde più di 250 miliardi di tonnellate in un anno.
Ma c’è una rappresentazione traducibile in emozione che non può sfuggire nemmeno a chi si chiude gli occhi e si tappa le orecchie: è il segno del tempo. Il tempo è parte di noi; il tempo siamo noi. Possiamo chiamarci fuori dallo spazio, rinchiuderci in una stanza, escludere le distanze geografiche, ma non possiamo ignorare lo scorrere del tempo dentro e fuori le nostre persone, perché negare i passaggi temporali equivarrebbe a negare la nostra esistenza di esseri viventi, prima ancora che pensanti. Passato, presente e futuro riguardano il percorso transitorio di ogni vita terrestre, nessuna esclusa, comprese le lunghe (ma non eterne) vite geologiche. Il tempo marca la storia del pianeta e dei suoi abitanti – animali, vegetali, minerali – a qualsiasi latitudine e longitudine. Siamo tutti figli del tempo andato e anticipatori di quello a venire: il passato ci appartiene avendoci generati e cresciuti, il presente è adesso, ci viviamo dentro, e il futuro contiene la sopravvivenza o l’estinzione della specie. Di ogni specie.
Ecco il punto, ecco il simbolo, ecco la chiave: il tempo. Con il progetto “Sulle tracce dei ghiacciai”, realizzato in tredici anni tra il 2009 e il 2021, mentre i ghiacciai continuavano a cambiargli sotto gli occhi, il fotografo romano Fabiano Ventura ha usato la metafora del tempo per inscenare il racconto contemporaneo della Terra, che è l’unica casa che abbiamo. Quella vera (ma non eterna). Partecipando ad alcune esplorazioni scientifiche, visitando il Karakorum nel 2004 per l’anniversario dell’ascensione del K2, Ventura ha capito che nessuna materia avrebbe potuto rappresentare meglio del ghiaccio lo scorrere o il precipitare del tempo sulla superficie terrestre. Ha scelto i grandi ghiacciai, che non sono corpi morti ma organismi in perenne trasformazione, molto più vivi degli uomini che li umiliano senza rendersene conto.
Nelle pagine del Mont Analogue, uno dei libri di culto del Novecento francese, il filosofo scrittore René Daumal ci offre una vibrante rappresentazione dei ghiacciai:
«I ghiacciai – scrive Daumal – sono esseri viventi, in quanto la loro materia si rinnova con un processo periodico in una forma quasi permanente. Il ghiacciaio è un essere organizzato: con una testa che è il suo nevaio, con cui bruca la neve e ingoia dei frammenti di roccia; poi un enorme ventre, in cui si compie la trasformazione della neve in ghiaccio, ventre inciso da profondi crepacci e da solchi, canali escretori dell’acqua superflua; e nella sua parte inferiore rigetta, sotto forma di morena, i rifiuti del proprio nutrimento». Daumal era un umanista, non un glaciologo, ma la sua descrizione è illuminante, quasi scientifica.
In realtà la vita del ghiacciaio comincia con la trasformazione di un fiocco di neve caduto dal cielo, che quando tocca il suolo è una meravigliosa forma cristallina. Come un neonato dalle straordinarie possibilità evolutive, il fiocco racchiude in una stella l’infinità delle forme che assumerà da adulto. Non ce n’è uno uguale all’altro, sono origami, tele di ragno, fantasie di gelo rappreso; tuttavia ogni fiocco è destinato a semplificarsi per aderire al fiocco vicino, oppure a sparire sotto i raggi del sole. Se la temperatura è abbastanza alta il fiocco fonde; se non lo è evapora per un processo di sublimazione. In un modo o nell’altro, se non tornerà allo stato liquido, il fiocco di neve diventerà un compatto cristallo di ghiaccio primaverile, e se i suoi granuli resisteranno all’innalzamento della temperatura saranno il germe della lingua di neve che, inspessendosi, originerà il primo nucleo del ghiacciaio.
Dunque i ghiacciai nascono, crescono, si muovono, si trasformano, fondono e a volte muoiono. In una parola: vivono. Se lo spessore e la quantità del ghiaccio superano l’equilibrio di massa, il fiume gelato avanza e si fortifica; se l’apporto nevoso è insufficiente, o le temperature estive sono troppo elevate, la fronte arretra e le dimensioni della massa si riducono. Allora il ghiacciaio smagrisce, s’impoverisce e si avvia verso la consunzione.
L’immagine è fortissima; la realtà supera la metafora, e viceversa. Osservate le giovani lingue di neve che guizzano al sole di prima estate, lucertole piene di vita, dalle sette vite, che se le prendi per la coda e quella ti rimane in mano provvedono immediatamente alla ricostruzione della parte mancante, perché non c’è ostacolo che possa fermarle. E poi guardate quei dorsi gelati e coperti di pietrame che scorrono sempre più lenti nei corridoi himalayani o nel solco ormai fossilizzato del Miage, a sud del Monte Bianco. Sono corpi di dinosauro condannati all’estinzione, che si trascinano nel solco della propria storia mostrando incavature cariate come i denti di certi vecchi. Questa è la vera fotografia del cambiamento climatico.
Ma come fare a rappresentare le recenti trasformazioni dei ghiacciai sul pianeta? Non era un problema da poco. Ventura e la sua équipe avrebbero potuto piazzare gli obiettivi in faccia alle fronti per documentarne i cambiamenti di anno in anno, ma l’operazione avrebbe richiesto decenni per mostrare qualche interesse scientifico e qualche risultato visivo. Avrebbero potuto ricorrere alle pietre di riferimento, quei grandi massi piallati dal ghiaccio su cui i glaciologi marcano l’arretramento (o la crescita) annuale delle fronti, ma così il pubblico non avrebbe neanche potuto immaginare il paesaggio di un secolo fa e tanto meno il cambiamento successivo. L’unica strada percorribile, la più affascinante e tortuosa, passava per la fotografia stessa, che, applicata ai ghiacciai, vanta una storia di circa centocinquant’anni, arco di tempo esemplificativo per documentare gli effetti del riscaldamento globale in concomitanza alla crescente emissione dei gas serra.
Il problema erano le fonti, cioè le immagini storiche di riferimento sulle quali sovrapporre gli scatti contemporanei per ottenere il confronto ed evidenziare i segni del tempo. Ora gli spettatori che si riempiono gli occhi con gli accostamenti commoventi e scioccanti dei ghiacciai di ieri e oggi, esplorando con lo sguardo paesaggi visivamente trasformati, a volte irriconoscibili, ignorano che dietro il risultato finale si nasconde un lavoro invisibile e forse ancora più impegnativo di quello sul terreno; si tratta della ricerca consumatasi negli archivi e nelle biblioteche di mezzo mondo, a cominciare dal leggendario atelier biellese di Vittorio Sella. Certamente Ventura ha viaggiato sulle tracce dei ghiacciai, ma prima di tutto ha seguito le tracce degli alpinisti, esploratori e fotografi che cento e più anni fa piazzarono i loro pesanti apparecchi davanti agli stessi suoi, e adesso anche nostri, fantastici orizzonti di ghiaccio.
Ora che il grande lavoro è terminato ed è finalmente allestito in forma di racconto per la gioia e lo sdegno dei nostri occhi, oltre alla meraviglia che sentimenti ne ricaveremo? Molti spettatori saranno pervasi di malinconia, proprio come ci si sente quando si pensa alla gioventù perduta. Ai più sensibili mancherà l’incanto di un paesaggio nel quale siamo esteticamente cresciuti quasi tutti, e ci ha accompagnato in tanti viaggi e sogni. Altri, ostinatamente, commenteranno che è sempre successo perché la storia terrestre è fatta di periodiche glaciazioni e successivi ritiri glaciali, ma le date scritte sulle didascalie li riporteranno a tempi umani, non geologici, mostrando che qualcosa sta andando storto. Altri ancora s’indigneranno e grideranno «Salviamo il pianeta, non c’è più tempo da perdere!», e qui saranno le stesse fotografie a mostrare senza ombra di dubbio che il pianeta si salva benissimo da solo, tanto che i vuoti di ghiaccio documentati dalle fotografie di Fabiano Ventura, anche i più spaventosi, sono già stati colmati da nuovi ecosistemi. È bastato un secolo, un battito di ciglio.
Infine scopriremo che gli unici personaggi perdenti di questo film fantastico e di questa inquietante sceneggiatura siamo noi stessi: gli spettatori del nostro operato. Noi specie umana dissipatrice siamo gli unici naufraghi da salvare in questo affondamento epocale, perché la scomparsa dei ghiacciai è il segno del nostro fare e del nostro distruggere. E allora ci resteranno due soluzioni: continuare a stendere su quel che resta dei ghiacciai lenzuoli bianchi come sindoni, spacciando delle cerimonie funebri per vittorie della tecnologia, oppure accettare che ogni frammento di ghiaccio, acqua e bellezza che è scomparso dalle vecchie fotografie corrisponde a un nostro gesto ignorante e arrogante nei confronti della casa comune. L’unica che abbiamo, meravigliosa e fragile come un fiocco di neve.