Pubblicazione

La montagna a tempo pieno

Catalogo della mostra. Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1.aprile – 3 luglio 2022.

Ho incontrato Grassi la prima volta alla fine del 1978, nell’austera sede del CAI di Torino in via Barbaroux. Io avevo appena compiuto ventun anni e lui trentadue. Ci trovavamo nel posto che meno ci assomigliava e più ci intimoriva, ospiti del direttore di Monti e Valli, Gianni Valenza, che cercò una stanza tranquilla perché potessi fare le mie domande al «maggiore rappresentante dell’alpinismo piemontese», come lo presentammo poi sulla rivista della sezione. Grassi era guida da un paio d’anni e da circa un anno aveva un contratto con Fila. Dopo una lunga e tumultuosa giovinezza da dilettante della montagna, durante la quale era ricorso a ogni invenzione per dare sfogo allo sfrenato bisogno di scalare, era finalmente diventato un professionista e me lo spiegava usando parole un po’ formali, che non gli assomigliavano affatto, quasi scusandosi:
«La decisione è stata solamente dettata dalla mia volontà di dedicare più tempo alla montagna per poter meglio esprimermi ai massimi livelli. Per il resto continuo ad andare come prima – vorrei dire, anzi, più di prima – e proseguo nella mia lenta e difficile trasformazione personale, rivolta sempre a concepire e risolvere nuovi problemi».
Sciogliendosi durante il racconto, riassumeva la complessa evoluzione che dalle prime vie nuove sulle Alpi occidentali e qualche invernale «strappata al poco tempo disponibile, perché per le invernali servono metodo e strategia», l’aveva portato con Motti, Galante e Bonelli all’esplorazione delle pareti della Valle dell’Orco, la nostra piccola California, e poi alla sistematica ricerca – come la chiamava lui – dei massi dell’anfiteatro morenico della Valle di Susa, sottolineando di dedicarci lo stesso impegno che rivolgeva alle grandi vie d’alta montagna: «Si tratta solo di un metro diverso con cui misurare la propria attività: se vissuta intensamente, ogni forma di arrampicata può portare a una nuova conoscenza qualitativa». Era uno dei suoi cavalli di battaglia: non contano i numeri ma la qualità e l’originalità dell’esperienza; salvo poi contraddirsi con inestricabili ragionamenti sulla quantificazione dei gradi e sull’alterazione dei risultati. Il primo pensiero era assolutamente sincero, in linea con il carattere istintuale, mentre i calcoli e le definizioni rispondevano a una specie di difesa preventiva da eventuali attacchi di fantomatici detrattori. In questo senso Grassi era un uomo a due dimensioni: luminoso e visionario come un bambino quando poteva esprimere la sua fantasia, incupito come un adulto in gabbia quando un ostacolo vero o presunto glielo impediva.
Per fortuna di solito prevaleva lo sguardo idealista, capace di sognare, progettare e realizzare un numero disumano di scalate, che diventava umanissimo dentro il personaggio. Perché Grassi non era un esaltato, semplicemente non poteva farne a meno.
Quel pomeriggio in via Barbaroux fu piuttosto realista e riflessivo. Evidentemente voleva staccarsi di dosso il cliché del ragazzo naif. Per esempio disse che il rapporto con i compagni di cordata andava visto «in funzione della sicurezza, e non necessariamente in funzione dell’amicizia e di legami profondi estesi anche agli altri momenti della vita», e aggiunse che «una vera amicizia è molto difficile e non è per niente conseguenza naturale del fatto di andare in montagna insieme: posso dire di aver raggiunto questo tipo di rapporto solo ultimamente con Gianni Comino». Disse anche moltissime altre cose, spaziando dai problemi delle guide alpine alle difficoltà di essere un professionista della montagna, in Italia; dall’approccio americano all’arrampicata (era appena stato nella valle di Yosemite con Renato Casarotto) all’atteggiamento super competitivo dei francesi, a casa loro e a casa d’altri, perfino al di là dell’oceano. Oggi mi accorgo che parlò per ore senza una battuta a vuoto e senza scivolare mai nel luogo comune, e infatti ne uscì un’intervista lunga, lucida, che scattava una nitida fotografia del momento personale e del momento storico.
Siccome c’eravamo dentro fino al collo, non ci rendevamo conto che proprio il 1978 sarebbe passato alla storia come un anno spartiacque per l’alpinismo. Ci vuole tempo per storicizzare. Eppure sarebbe bastato considerare che fino all’anno precedente l’UIAA vietava di parlare di settimo grado – mentre in America si facevano già almeno due gradi di più, e Messner aveva sfiorato da tempo l’ottavo grado sulle Dolomiti – e in Europa i fenomeni Berhault, Edlinger, Manolo e Bernardi (che sarebbe diventato compagno di Grassi) erano più che pronti a infrangere i limiti e i tabù. Stavano già volando, ma noi non riuscivamo ancora a mettere a fuoco. Nella scalata su ghiaccio, dopo la grande svolta di Boivin e Gabarrou a metà degli anni Settanta, le nuove vie di Grassi e Comino tra goulotte verticali e seracchi pericolanti si ponevano come il nuovo e decisivo salto di qualità, proprio a cavallo tra il 1978 e il 1979. Dunque eravamo nel cuore della rivoluzione e Grassi era uno dei protagonisti, ma lui stesso, per ragioni di età e cultura, faticava a collocarsi nell’avanguardia.
Per l’ex ragazzo di Condove un percorso alpinistico su una montagna era semplicemente il migliore modo di vivere che conosceva: la ricerca spontanea dell’attimo, l’innamoramento ossessivo per il progetto, l’inesauribile immaginazione che gli permetteva di spaziare dalle domestiche Alpi Graie alle grandi pareti del mondo senza apparenti contraddizioni. L’importante era non fermarsi. Se la trasgressione del Nuovo Mattino andava sbiadendo nella performance sportiva, lui si buttava sul ghiaccio; se la roccia non gli bastava, scopriva mattini di cristallo, seracchi di fiaba e sogni congelati. Così l’avventura ripartiva.
Anche se non era nato per viaggiare, per circa quindici anni ha continuato a cercare il proprio sentiero in ogni parte del mondo: Alpi, Ande, Patagonia, Nepal, America settentrionale, Norvegia, India, Algeria, Africa centrale, Alpi ancora. Ha arrampicato in ogni luogo, vicino e lontano, con la passione del ragazzo assetato di conoscenza. Non è mai stato capace di programmare scaltramente le sue mosse, tantomeno di monetizzare la sua attività; se l’avesse fatto sarebbe diventato miliardario. Invece è rimasto un Peter Pan della montagna.
Grassi credeva veramente che scalare un masso dietro casa avesse lo stesso valore di una goulotte sul Monte Bianco, altrimenti non si spiegherebbe, quando ormai era affermato e avrebbe potuto centellinare gli obiettivi, la spasmodica ricerca di terreni nuovi, centimetro per centimetro, in ogni luogo inesplorato vicino casa: dai mille dirupi di Caprie all’ombroso Vallone di Sea, senza contare le cascate di ghiaccio scoperte, scalate e successivamente catalogate nei libri e nelle guide. In questa ricerca rientra anche il certosino lavoro sul massiccio del Gran Paradiso – “Le cento più belle ascensioni”, Zanichelli – che completò nel 1982 sotto la severa supervisione di Gaston Rébuffat.
Ho un ricordo personale. Un giorno di primo autunno del 1981 andai a ripetere con mia moglie una bella via sulla Cristalliera, che era una delle montagne care a Grassi. Puntualmente lo incontrai in parete perché il suo itinerario – un nuovo tracciato – incrociava proprio la mia via. Gioioso e scherzoso, si divertiva come un bambino su quei pochi metri di roccia ignota e punzecchiava in piemontese uno dei tanti, misteriosi compagni di cordata:
«Fa freddo eh, oggi si trova lungo, oggi ce la fanno pagare!»
Doveva essere lì dalle prime luci del mattino, a picchiare sui chiodi americani a lama sottile, ma quel muro di pietra rossa e compattissima non cedeva e così noi lo sorpassammo e lo perdemmo di vista, scavalcando la cima e scendendo senza fretta nelle brume della sera. Raggiungemmo l’auto che era quasi buio e s’era alzata la nebbia.
«Che diavolo – pensai –, Gian Carlo domani parte all’alba per il Monte Rosa e dovrebbe averne abbastanza della Cristalliera!»
Eppure non tornavano, e faceva sempre più scuro. Di risalire non se ne parlava perché ero senza pila, ma loro con poche corde doppie potevano scendere dalla parete e avrebbero dovuto essere giù da un pezzo, ormai. Finalmente, non prima delle nove di sera, sento uno che canta e riconosco la sua voce di Grassi. Trotterellava felice davanti al suo strano compagno, dopo essersi goduto fino all’ultima luce quello sporco muro di serpentino su cui era stato venti altre volte almeno.
«Grazie tante di averci aspettato!» urlò nella nebbia, cacciandosi sulla fronte il suo buffo cappello peruviano.
Gianni Comino era morto l’anno prima sulla Brenva, precipitando con il seracco di destra della Poire. Com’erano diversi! Comino era un po’ il Jean Couzy italiano, calmo, lucido, introverso e riflessivo. Comino architettava le scalate come si concepisce un’opera, badando che tutti i pezzi fossero perfetti uno per uno e che stessero anche bene insieme. Gian Carlo era il contrario: esuberante, naif, generoso, permaloso, entusiasta. Sul ghiaccio sono stati la più forte cordata italiana di tutti i tempi, salendo itinerari inconcepibili come l’Ypercouloir delle Grandes Jorasses e i seracchi della Poire e del Col Maudit. A ogni ritorno raccontavano di couloir fantasma, seracchi fiabeschi e specchi di cristallo. Partivano come un commando nel cuore della notte ed emergevano quando li sorprendeva la luce.
Purtroppo un mattino il sole sciolse il ghiaccio e il cristallo si ruppe, e con il seracco della Brenva si spezzò anche il cuore di Gian Carlo, che scrisse del suo amico Gianni (e di sé):
«La parete, una storia di seracchi, una scalata in apparenza un po’ pazza e posta ai confini di un mondo proibito. Ambiente irreale e inafferrabile nella sua irrazionalità. Scontro di sensazioni opposte. Spirale di follia, senza per questo valicare il confine della separazione totale. Una storia di due uomini che, in fondo, cercavano soltanto di raggiungere la vetta del proprio Io, alla ricerca di quella nostalgia di felicità che è in tutti noi».
Dopo la morte di Comino ha continuato a scalare, anzi ha intensificato l’instancabile attività di ricercatore, con una messe e una varietà di vie nuove che stancavano più noi, a seguirlo, che lui a realizzarle. L’abbiamo visto impegnato su ogni terreno, con una predilezione per i più improbabili flussi di ghiaccio: centinaia di cascate nascoste nelle valli piemontesi e decine di canali e canalini d’alta quota. Nel 1980, con Marco Bernardi e Renzo Luzi, ha raggiunto la cima del Monte Bianco lungo il Supercouloir del Frêney, la cascata più alta d’Europa. Nel giugno 1985, con lo stesso Luzi e Mauro Rossi, è riuscito a salire in piolet-traction la grandiosa e spaventosa parete sud delle Grandes Jorasses, proprio dove batte il sole. Amava anche la roccia senza riserve e ha aperto decine e decine di itinerari nei solitari valloni delle Alpi Graie, o si è lanciato in progetti più eclatanti come la nuova via sulla parete sud del Pic Tyndall al Cervino, risolta con Renato Casarotto in una limpida giornata di settembre del 1983, o i severi itinerari sul Pic Gugliermina e sui pilastri del Brouillard. Come s’è detto ha viaggiato lontano, assaggiando le pareti della Yosemite Valley, gli scivoli della Cordillera Blanca, le inedite goulotte patagoniche – dalle quali tornò entusiasta –, le straordinarie cascate canadesi con Ghigo e Casarotto, e nell’inverno 1985 l’interminabile cresta ovest dell’Everest con i francesi, che fu un fallimento alpinistico, una prova di pazienza eccessiva e una delusione umana. Le grandi spedizioni non facevano per lui.
Ha sempre arrampicato con la passione del ragazzo innamorato e in fondo è rimasto un incorreggibile dilettante, nel senso nobile del termine, talvolta masticato dalla morsa del professionismo. Anche la sua morte è in questa linea, perché non arrampicava per gli sponsor e nemmeno per un cliente quando, a quarantaquattro anni, è caduto con una cornice di neve sul Monte Bove, nei Monti Sibillini. In seguito alle lesioni riportate, è morto a Camerino il primo aprile del 1991.