Sinceramente dubito che esista la letteratura “di” montagna, perché in tal caso si dovrebbe anche considerare la letteratura di mare, o di fiume, o di città, rischiando l’imbrigliamento di espressioni creative che devono restare libere da ogni schema. L’unica regola che posso contemplare per la letteratura è di non avere alcuna regola. Senza dubbio esiste la letteratura dell’alpinismo, un sottogenere che di rado ha superato il confine dell’autobiografia, e naturalmente esistono varie forme di narrazione scritta che nel tempo hanno incontrato – per fortuna succede sempre più spesso – le alture e le altezze. Forse potremmo più correttamente definirla letteratura “sulla” montagna, con ampi margini di manovra da un ambiente all’altro, dalle quote urbane a quelle montane, e anche dai tempi passati a quelli presenti e futuri: l’importante è che sia buona scrittura. Quando lo è, e per qualche motivo incrocia le storie delle terre alte, la letteratura è una leva formidabile, in grado di amplificare il senso con le parole e la fantasia. La scrittura è figlia della propria epoca ma parallelamente incide sul tempo, chiarendolo, spronandolo, impedendogli la resa. Questo è il ruolo della buona letteratura, e per quanto mi riguarda deve sempre aspirare a un linguaggio universale. Se scrivo sulla montagna voglio che mi capiscano tutti, altrimenti credo di avere fallito.
Ho in mente una scrittura libera che non scaturisca dalla nicchia alpestre, ma dallo sguardo creativo che aprendosi all’universo montano sa generare nuovi sentimenti e inedite emozioni. Non è un caso che la riscoperta assai recente della montagna coincida con l’uscita dal ghetto e coinvolga anche gli scrittori “generalisti”, che fino a ieri non si sarebbero azzardati a varcare la soglia della nicchia iniziatica. Ed è confortante che i racconti e i romanzi sulla montagna si proiettino sempre più convintamente nel presente, superando i vincoli culturali della tradizione e lo stereotipo narrativo del bel tempo andato. Il prossimo passo sarà il confronto con il turismo di massa, ancora accantonato dagli scrittori come deriva sconveniente o non interessante. L’ennesimo luogo comune, figlio di ataviche rimozioni.
A parte rare eccezioni, sulla montagna prevalgono gli sguardi di città. Dal basso verso l’alto. Oggi come ieri, sono i cittadini a scrivere delle altezze mentre i montanari stanno a guardare, forse a leggere, volentieri a criticare. Da Mario Rigoni Stern a Mauro Corona, sono pochi i valligiani che abbiano preso la penna in mano per confrontarsi con i lettori; la scrittura sulla montagna continua a scaturire dalla sensibilità urbana correndo il rischio, da oltre duecento anni, di scivolare in un sentimentalismo incongruo. Ma ormai è più evenienza che realtà, perché i mondi dei cittadini e dei montanari si vanno mischiando e sovrapponendo, e la “contaminazione” genera maggiori competenze e inaspettate creatività. Si sale e scende a giorni alterni, sulle strade come sui libri, e necessariamente ci si incrocia, ci si parla, ci si scrive. La buona letteratura nasce da questi scambi, quando non prevalgono i luoghi comuni.
La radice romantica definisce lo sguardo di città. Inutile negare: l’approccio originario è sempre quello dei viaggiatori ottocenteschi e senza rendercene conto siamo ancora figli o nipoti di quegli artisti che coltivarono il mito delle nature incontaminate, dei silenzi e dei grandi spazi sui quali non era ancora calata la mano civilizzatrice dell’uomo. Nel tempo distratto e sconsacrato dell’intelligenza artificiale, le cime “selvagge” restano isole destinate al sogno e all’avventura. Pur usando parole diverse da Mary Shelley e dal fantastico Frankenstein ambientato tra i crepacci della Mer de Glace, pur osservando con sgomento la scomparsa del mare di ghiaccio sotto il sole bollente, per fortuna non siamo ancora del tutto indifferenti al silenzio solenne del «salone delle udienze di Sua Maestà la Natura, rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e spaccavano come giocattoli». Nonostante Internet, malgrado Gulliver, condividiamo l’identificazione dell’autrice con le favolose ambientazioni della storia e come la giovane Mary Shelley riceviamo emozione dalle incommensurabili manifestazioni di forza del Monte Bianco, che prima della scoperta romantica generavano infinito terrore nei montanari e assoluta indifferenza nella gente di città.
Fino al Novecento inoltrato, la letteratura mitteleuropea reinterpreta e aggiorna sempre lo stesso motivo ispiratore, secondo il quale la montagna è in perenne conflitto con il mondo inquinato e superficiale della pianura, umiliato dal denaro, dal conformismo e dalla corruzione: «Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata dalla loro inalterabile purezza» scrive il caposcuola Rousseau nelle Lettere a Giulia. «Diedi ancora uno sguardo all’infinita natura purissima e ridiscesi nell’infinita e pietosa miseria umana» conferma Ugo De Amicis, figlio di Edmondo, in un’alba alpina di moltissimi anni dopo. «L’idea dell’azione vicina suscita in me strane sensazioni e contrastanti pensieri. Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel recinto sociale… Domani sarò un gran signore che comanderà alle stelle e agli elementi» si esprime Giusto Gervasutti prima di salire in solitudine il Cervino nel Natale del 1936.
Ogni avventura alpinistica è la sublimazione di un sogno, ma non c’è mai pace sulla vetta perché il traguardo è sempre inadeguato, deludente e illusorio. L’alpinista romantico trova conforto solo nella sfida, confessa lo stesso Gervasutti dopo la scalata della parete est delle Grandes Jorasses: «Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci arrestiamo su una larga terrazza di roccia. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai».
Si potrebbe paradossalmente affermare che il problema della scalata, più che la salita sia la discesa. Lo afferma l’alpinista sudtirolese Hans Kammerlander in un libro dal titolo significativo: Discesa al successo. Leggiamo: «Questo continuo cammino verso l’alto può essere considerato l’Olimpo per l’uomo? Solamente la discesa dalla Torre di Babele, simbolo di un’umanità senza limiti, potrà garantire il successo». Ecco allora che la parete, il vuoto e il precipizio trovano altre valenze simboliche sotto lo sguardo disincantato di fine millennio. Alla luminosa china ascendente che porta alle vette del paradiso e al sacrificio degli eroi, si sovrappone l’abisso oscuro che rivela le paure, i dubbi e i limiti dell’uomo moderno. Già nel 1963, prima della rivoluzione culturale del Sessantotto, la scrittrice austriaca Marlen Haushofer ambienta La parete tra le montagne di un luogo e un tempo imprecisati, in uno chalet-rifugio scampato a una probabile esplosione nucleare. Nell’atmosfera surreale del paesaggio alpino sopravvissuto al disastro, si alza un muro trasparente che isola e salva la protagonista: «Tre volte mi alzai per convincermi che lì, a tre metri di distanza, ci fosse veramente qualcosa d’invisibile, freddo e liscio a impedirmi di proseguire il cammino. Pensai a un’allucinazione, ma sapevo benissimo che non poteva trattarsi di nulla di simile. Avrei preferito accettare un po’ di follia, piuttosto che quella terribile cosa invisibile. Ma c’era il bernoccolo sulla mia fronte che cominciava a dolere…». L’invenzione della Haushofer è talmente in anticipo sui tempi da passare quasi inosservata fino alla ristampa del 1983, quando finalmente emerge il valore del romanzo. L’inedita scrittura indica il superamento dei due ingredienti classici della letteratura precedente: la parete intesa come simbolo di sfida, ascensione e ascesa(i), da un lato, e la presunta supremazia della montagna nei confronti di pianura e città, dall’altro. Entrambi i problemi sono affrontati e risolti con uno spettacolare rovesciamento di senso, attraverso l’insinuante problematicità di una visione complessa. Da strumento di elevazione per chi progetta di salirla, la parete si trasforma in mezzo di autodifesa e sopravvivenza. La natura alpina si salva dal disastro nucleare preservando la specificità, ma paga il prezzo di una solitudine forzata che, legandola al destino del mondo esterno, la spoglia di ogni superiorità.
Credo che su queste basi si stia costruendo la nuova letteratura sulla montagna. Sui caratteri di un ambiente molto speciale che tuttavia appartiene all’intera umanità, che riguarda tutti e non ha più bisogno di eroi. Forse nemmeno di vecchi saggi. Se all’inizio del millennio c’erano lo scrittore di montagna per eccellenza Rigoni Stern e i suoi sparuti discepoli, oggi finalmente il romanzo ambientato nelle terre alte incrocia tutti i campi e quasi tutti i precipizi, emergendo con rischio e pericolo dal cenacolo accademico. Nei testi prevale una new age delle terre alte che non si contrappone al consumismo urbano, ma lo affianca e talvolta prova a superarlo con una sorta di neoumanesimo alpino (e appenninico). Manca l’esplicita denuncia politica e sociale, però abbondano le descrizioni di un vivere e un sentire alternativi alla città. Se la letteratura dell’alpinismo, insidiata dal web e dalla fretta, non vive certo uno dei periodi più fecondi, i romanzi che affollano le librerie non trattano di imprese sportive e scalate estreme, ma di una montagna intesa come spazio naturale e abitativo, teatro di storie e di persone. Questa è la novità: esiste un sentimento della montagna al tempo di Internet, che si declina in molte forme ed è racchiuso in una sola parola: natura. I lettori si identificano nei racconti del mondo “liquido” e senza barriere in cui cittadini e montanari incrociano i destini trovandosi, perdendosi e ritrovandosi. La madre che li tiene insieme è una natura sempre più necessaria, da qualunque parte si guardi; non più per pochi intenditori, montanari o alpinisti che siano, ma per chiunque abbia voglia di farsi abbracciare un po’.
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