Umili vittime dei nostri capricci
19 aprile 2014
Quando nel lontano 1953 Hillary e Tenzing scalarono per primi la montagna più alta del mondo, il Chomolangma o “madre dell’universo”, Sagarmatha per i nepalesi ed Everest in onore del geografo ufficiale britannico in India, lo scrittore Dino Buzzati si domandò con il consueto disincanto romantico: «Guardatela, ora, la superba montagna, la solenne cattedrale che fino al 29 maggio poteva essere creduta un miraggio, una parvenza, un mito. Non è forse più piccola di ieri? Non è in un certo senso meno bella? E quell’infinitesima traccia che i quattro ramponi e le piccozze hanno lasciato sulle cornici della suprema cresta non sono in fondo malinconiche a vedersi?».
Certo Buzzati non immaginava che il sogno dell’Everest, di lì a qualche decennio, sarebbe diventato una meta commerciale e che i discendenti di Tenzing Norgay, il primo sherpa a calcare la cima della montagna con il suo “signore” neozelandese, si sarebbero trasformati in addetti turistici al servizio delle grandi spedizioni mercantili, montanari che rischiano quotidianamente la vita per preparare i campi e fissare le corde necessarie agli occidentali per andare in vetta. La tragedia di ieri appare ancora più sconcertante perché non colpisce degli stravaganti avventurieri degli ottomila e nemmeno degli alpinisti famosi in cerca dell’exploit; colpisce degli umili operai locali che lavorano al servizio dei vacanzieri della vertigine, come chi fissa i cavi delle funivie sulle Alpi o chi ti dà il piattello per afferrare lo skilift. Operatori qualificati, indubbiamente, ben pagati in rapporto allo stipendio medio di un nepalese, ma infinitamente mal compensati in relazione alla fatica, agli imprevisti, al rischio della vita.
La via nepalese all’Everest comincia con un labirinto di crepacci e seracchi pericolanti che nessuna polizza renderà mai sicuri, dove le scale metalliche e le corde fisse vanno spostate in continuazione per assecondare i capricci del ghiacciaio e prevenire, senza alcuna certezza definitiva, le fratture del ghiaccio, i crolli e gli incidenti. In alto sulla montagna gli alpinisti affrontano i pericoli della quota e del maltempo, in basso sono in balia di un fiume congelato che scorre senza tregua, muggisce, raschia, si rompe e si ricompone. Se fosse roccia si arrampicherebbe sicuri, ma il ghiaccio è imprevedibile, bizzarro, lunatico, e al ghiaccio si aggiungono le valanghe della neve fradicia di primavera, oppure gli accumuli freddi depositati dal vento. È come camminare su un campo minato.
Non c’è mai la sicurezza assoluta dietro i trionfali apparati delle megaspedizioni commerciali, né per gli sherpa né per i clienti, ma il sogno di scalare la cima del mondo abita anche in chi paga centomila dollari per la vetta e in chi si fa portare perfino le bombole dell’ossigeno dalle guide nepalesi, respirando la vita dalle spalle di un altro, e da una macchina, come un malato terminale. Il sogno esiste e resiste anche in chi non è mai stato un vero alpinista, ma semplicemente un buon camminatore, e in chi sa di essere – nel migliore dei casi – l’ultra millesimo salitore della montagna più alta e famosa, un anonimo candidato all’avventura pianificata e mercificata, un imitatore di scalatori che vissero la solitudine, l’incognita, il mistero. Il sogno resiste, e anche il mito, e sogno e mito fanno crescere i prezzi, le domande, i pretendenti, rinascendo sempre a ogni estate. Se non fosse crudele dopo una tragedia come quella di ieri, si direbbe che gli sherpa addetti alla Madre dell’Universo siano come dei facilitatori di sogni, o almeno di quella voglia molto prosaica e molto contemporanea di conquistarsi la meta più prestigiosa e un attimo di gloria programmata.
Scalando le montagne si capisce la vita di sotto
11 luglio 2014
Per spiegare il senso del viaggio verticale, il più assurdo e meraviglioso che esista, si può chiedere aiuto a uno scrittore che frequentava solo gli strapiombi del pensiero ma trovò ugualmente le parole: «L’incredibile spicco delle cose nell’aria ancor’oggi tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio». Così scriveva Cesare Pavese senza specifico riferimento al Sinai di Mosè o al monte della Trasfigurazione, le classiche rappresentazioni della montagna biblica, ma alludendo a un luogo che incarnava il mito delle origini. Pavese non era un “montanaro”, disdegnava la claustrofobia delle valli e dei versanti smisurati, però aveva praticato gli anfratti di tufo delle Langhe e adorava il mistero. Sapeva che l’appicco – di legno, argilla o roccia che sia – è il posto dove la terra e il cielo si possono incontrare, e che l’ascesa è il modo per raggiungerlo.
Si può scalare a forza di braccia, ma il desiderio viene prima. La guida marsigliese Gaston Rébuffat insegnava che «l’alpinista è chi conduce il corpo dove un giorno gli occhi hanno guardato». Era un uomo secco e allampanato, Rébuffat, il ritratto della disarmonia, ma in parete diventava una farfalla. Non si stancava di ripetere ai giovani alpinisti che è altrettanto importante sognare una montagna che salirla.
L’esperienza della scalata trascende l’atto fisico per caricarsi di significati simbolici: basta arrampicarsi su una pianta di un certo rispetto, sulla torre del paese o meglio su un’altura montana, per accorgersi che il mondo della pianura e i relativi riferimenti cambiano proporzioni. Guardandolo dell’alto il grande diventa minuscolo, ciò che era importante passa in secondo piano. Le priorità della vita quotidiana svaporano e si confondono via via che si fa il vuoto, fino a dissolversi in una presenza affettuosa ma distante. Mentre l’altura o la parete si compongono in forme tangibili, il mondo del piano perde peso e si ridimensiona. Al contempo la giusta distanza pulisce lo sguardo sulla vita “di sotto” e aiuta a comprenderla.
Questo succede a chi scala fisicamente la montagna ma anche a chi la sale con il pensiero, il desiderio, lo spirito. L’ascesa non è una conquista bensì la tensione verso l’alto, il viaggio su una cima che sostanzialmente non esiste perché è sempre sormontata da un cielo irraggiungibile. Anche in questo senso l’alpinismo insegna, o impara, che la cima non è un traguardo definitivo ma solo la fine di una visione. Il grande alpinista friulano Giusto Gervasutti, quando completò la sua impresa più bella sulla parete est delle Grandes Jorasses, scrisse malinconicamente: «Niente fremiti di gioia, niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa».
Domani al Forte di Bard si parlerà di ascesa in questi e altri termini. Si affronterà anche il rischio della fuga dalla realtà, assai caro al filosofo alpinista torinese Gian Piero Motti che non esitò a definire l’alpinista totale un “fallito”. Lo psicoanalista Michele Oldani spiega che «diventa necessario per ogni uomo trovare un equilibrio tra l’alto e il basso, tra lo straordinario e l’ordinario, quel particolare punto di vista che gli permetta di percorrere la propria strada guardandola contemporaneamente da una prospettiva più elevata». Il concetto della «discesa salvifica» è ribadito con forza dal monaco biblista Luciano Manicardi, vicepriore di Bose: «La disciplina spirituale cristiana chiede adesione alla terra, all’umano, allo storico, al relazionale, come via di comunione con quel Dio il cui volto è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. Anche l’esperienza del peccato, della caduta, mentre rivela una distanza tra l’uomo e il suo Dio, pone le basi per l’esperienza della salvezza che non consiste nell’innalzamento umano a Dio, ma nell’abbassamento divino, nella sua kénosis, che raggiunge l’uomo là dove egli è».
Si può vedere una sintesi di tutto ciò nella relazione che l’alpinista himalayana Nives Meroi proporrà al convegno di Bard: “Io sono le montagne che non ho scalato”. Lì c’è tutto il senso dell’ascesa.