Atti del convegno, Introd 17-18-19 dicembre 2004
Una direzione sembra segnata. I complessi problemi di disagio ambientale, flessione demografica e difficoltà economica che, su un territorio molto articolato ma con elementi ricorrenti, accomunano gli oltre undici milioni di abitanti delle Alpi (tredici milioni secondo la stima allargata della Convenzione alpina) e i circa seimila comuni, portano ormai quasi ovunque a parlare di “sviluppo sostenibile”. Una definizione già inflazionata, cui va restituito un significato.
I più sembrano aver compreso che, per esempio, non è “sostenibile” un turismo che sacrifichi la qualità dell’ambiente, che cannibalizzi le colture agricole e le attività silvo-pastorali, che annienti la storia e le tradizioni locali. Alcune amministrazioni ragionano sull’opportunità di allontanare le auto dal centro dei villaggi, per non ricreare in montagna lo stesso clima di inquinamento e di stress che si cerca di scacciare dalle città. Altre si stanno accorgendo che la monocultura dello sci uccide ogni altro sviluppo possibile, per cui bisogna creare urgentemente delle alternative. Si tende finalmente a rivalutare la gastronomia del luogo contro le tentazioni del “fast food”, e a rilanciare i prodotti tipici contro la logica del supermercato.
Un turismo saggio e responsabile è l’opposto del modello unico. Consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni località, dal dialetto alla cucina, dai colori agli odori, consiste nello scambio di culture esogene ed endogene, consiste nel graduale e morbido inserimento del visitatore nella realtà locale, rispettandone i tempi, i riti, gli usi, perfino le imperfezioni.
Il primo esercizio degno di un visitatore sensibile dovrebbe consistere nel decifrare il luogo delle sue vacanze, nel cogliere scampoli di verità e bellezza (ma anche di contraddizione) dietro il sipario asettico dell’apparato turistico. Per ottenere qualche risultato bisogna imparare a guardare oltre la rustica consolle dell’immancabile Bar delle Alpi, le tovagliette ricamate del Ristorante Belvedere, i campi da tennis seminascosti dai Cedri del Libano, la pizzeria camuffata da rascard o il rascard trasformato in discoteca. Bisogna cominciare a parlare con la gente del posto, sgretolare con pazienza il muro della diffidenza e dell’omertà, per scoprire – ad esempio – che il “formaggio di malga” viene dalla Brianza ma esiste una toma senza etichetta, un formaggio locale, che scende con il pastore due volte al mese dall’alpeggio e ne vale cento di quei latticini senz’anima. E poi magari, dopo qualche giorno di sguardi di traverso e mezze parole, il lattaio ti confida dove si trova la baita del pastore, così che invece di salire sulla solita seggiovia del Rifugio Stella Alpina – dove si mangiano i salami Negronetto con la forma delle Tre Cime –, ti incammini su per un sentiero vero, senza la vista delle cartoline illustrate ma con i rumori e gli odori dell’alpeggio, comprese le mosche, il letame e il cane che spaventa i bambini ma non fa male.
Se il turista e l’allevatore, o il turista e l’agricoltore, o il turista e il produttore di miele mostrano un reciproco atteggiamento di attenzione e rispetto, allora può nascere l’esperienza dell’agriturismo, sintesi ottimale di indigeno e forestiero, di elargizione della terra e appagamento dello spirito, di natura e cultura.
Si tratta in due parole di individuare una “terza via” tra la “rapina” indiscriminata delle ricchezze tradizionali alpine (produzioni agricole e alimentari comprese) a solo scopo turistico, secondo modelli di sfruttamento urbano, e la tentazione altrettanto rischiosa di una “museificazione” della montagna, congelando la stessa tradizione ad uso e consumo della fruizione esterna, senza lasciar maturare ed evolvere le competenze antiche verso nuove forme di utilizzo e sviluppo.
La riscoperta dell’alimentazione alpina autoctona è storia recente, perché fino a dieci, vent’anni fa molti ristoratori erano ancora convinti che i cittadini preferissero mangiare come a casa loro. Era il tempo delle pizzerie napoletane, delle tagliatelle alla bolognese, del pesce di mare servito nei ristoranti a quattro stelle. I piatti di montagna venivano considerati piatti poveri e li si rinnegava continuamente. Camion carichi di scorte di pianura rifornivano gli alberghi delle Alpi e altri camion scendevano a valle con i prodotti della montagna. Niente di più autolesionista: ora si è finalmente capito che i prodotti locali vanno consumati sul posto, per accrescerne la tipicità e invogliare i turisti a scegliere una meta e a ritornarvi. Un esempio tra mille: nessuno forse è mai salito a Bormio solo per gustare l’amaro di erbe dello Stelvio, ma da quando il Braulio si trova nei supermercati delle grandi città c’è un motivo in meno per andare in Valtellina.
Il vero pericolo per l’agricoltura e l’allevamento sulle Alpi è la perdita di identità. Un processo senza vie d’uscita, perché le produzioni di montagna non saranno mai competitive con quelle di pianura se si misureranno con le stesse “armi”. Inoltre la liberalizzazione dei mercati tende a estendere sempre più i suoi effetti anche nelle regioni alpine, e gli svantaggi derivanti dalle caratteristiche geografiche e naturali del territorio portano a evidenti condizioni di inferiorità, salvo i casi in cui i contributi pubblici riescono a compensare lo squilibrio. Una “fontina globalizzata” non ha vie di scampo: la spunta il Fontal venduto a basso costo nei supermercati di pianura.
Il riscatto dell’agricoltura di montagna è dunque ipotizzabile solo nei termini di un’elevata qualità del prodotto e di una collocazione diretta sul mercato locale attraverso un circuito virtuoso con il mercato turistico: agriturismi, coltivazioni biologiche, marchi tipici, prodotti estremamente differenziati e assolutamente caratterizzati in base alla zona e addirittura all’azienda di provenienza. Non c’è alternativa. La montagna è costretta a seguire questa direzione.
D’altra parte esistono già alcuni successi che testimoniano la bontà della scelta. Bisogna innanzi tutto credere nel cambiamento e investire in fiducia e creatività. Accettare che la qualità costa e non vergognarsene. Anzi. Si vergognano forse i creatori di moda o i venditori di gioielli?
Proverò a rifarmi, e a fare a tutti voi, le domande che ci siamo posti nel 2003 quando le redazioni (italiana e francese) della rivista L’Alpe hanno affrontato congiuntamente il tema dei “Prodotti della montagna”.
Innanzi tutto ci siamo domandati se esista una definizione statica di “alimentazione alpina tradizionale” e la risposta è stata ampiamente negativa: la stessa tradizione alpina è una frontiera culturale in continuo mutamento, che proprio nel movimento trova la propria ragione e la propria sopravvivenza; nel senso che se si ferma muore.
Nessun prodotto è “alpino” per vocazione e per definizione, ma molti prodotti lo sono diventati per “caso”, arrivando sulle Alpi nel preciso momento in cui le popolazioni alpine avevano bisogno di loro per integrare la scarsa disponibilità alimentare, insidiata da carestie, guerre e altri flagelli. Dunque la prima categoria di scelta è stata il bisogno, senza il quale il mais non sarebbe approdato sulle tavole dei montanari in forma di polenta, diventando un fondamento dell’alimentazione alpina e successivamente uno stereotipo della stessa cultura montana, e le patate non sarebbero passate dalle tavole d’oltreoceano a quelle europee, sostituendosi ad altri prodotti impoveriti o scomparsi. Così è stato anche per i cereali di più vecchia introduzione, che il bisogno e l’inventiva contadina dimostrarono poter sopravvivere alle quote più alte, là dove il terreno sgela solo per alcuni mesi all’anno e permette un fugace quanto prezioso raccolto.
Ma non basta il bisogno, ci siamo accorti, a spiegare le scelte alimentari della montagna. C’è una seconda categoria storico-antropologica indispensabile per capire l’evoluzione dei prodotti nel passato e per dare prospettiva alla loro sopravvivenza nel futuro. È il processo di acculturazione, ben riassunto da Rosanna Caramiello nel suo testo introduttivo al fascicolo dell’Alpe:
“Le popolazioni locali non cercarono nuovi cibi ma subirono l’introduzione delle specie esotiche come scelta obbbligata per superare periodi di crisi alimentare; la loro fortuna fu successiva e il passaggio dalla cultura contadina a quella “alta”, che li modificò nobilitandoli, fu spesso tardivo. Tuttavia proprio le specie più lontane dal gusto antico, come mais e grano saraceno, possono oggi essere considerate alimenti tradizionali delle valli alpine dal momento che, nonostante la pressione del bisogno, furono accettate solo quando le loro preparazioni riuscirono a integrarsi con quelle della tradizione locale, dimenticando o addirittura ignorando gli usi dei paesi d’origine. La selezione del gusto e della cultura ha modificato i prodotti fino al punto da renderli autoctoni”.
Questo processo di acculturazione è lo stesso che regola la “nuova” alimentazione alpina, o meglio la produzione tipica sviluppatasi sulle Alpi negli ultimi decenni del Novecento, dopo che un turismo fondato su modelli e abitudini urbane aveva scalzato o messo in seria crisi la cosidetta cucina “tradizionale”. Nel campo dell’alimentazione, o meglio delle scelte alimentari ad uso interno (ma soprattutto esterno) della montagna, si è verificata la classica forbice degli anni del boom: mentre una visione romantica e irrealistica tendeva a salvare la cucina “antica” anche quando vecchio significava ripetitivo, scadente ed economicamente insostenibile, l’urgenza di livellare la montagna (cucina compresa) ai presunti gusti della città spingeva la diffusione di piatti e cibi improbabili, omologati, lontani anni luce dalle abitudini locali. Mentre nelle valli più povere e meno interessate dai flussi turistici si continuava ad offrire salumi e formaggi di dubbia provenienza, polenta cucinata di malagrazia e vino scadente, nelle valli baciate dal turismo (che spesso erano le stesse vallate: media valle “contadina” e alta valle “turistica”) nascevano pizzerie e spaghetterie, paninoteche e tavole calde, oppure lussuosi ristoranti a base di pesce e piatti esotici. Era la classica dicotomia tra una montagna ossessivamente e ottusamente legata al tempo che fu, dunque a una tradizione senza futuro, e un’altra montagna colonizzata dal modello cittadino, fatalmente destinata a diventare una periferia della città stessa, un surrogato.
In che cosa si difettava? Esattamente nei due attributi che, a fine secolo, si riveleranno decisivi nei processi di trasformazione dell’alimentazione locale, ma soprattutto dell’offerta alimentare e dell’immagine culturale esterna: la qualità e la tipicità.
In tema di alimentazione e produzione alimentare, più che in ogni altro settore, la montagna ha dimostrato negli ultini due decenni che può esistere una terza via culturalmente ed economicamente sostenibile, che facendo propri alcuni elementi della tradizione (tipicità) ed elaborandoli secondi nuovi gusti e nuove tecnologie (qualità) può portare non solo all’identificazione di prodotti specifici alpini, ma anche a un buon grado di concorrenzialità sul mercato globale, dove il consumatore da qualche tempo ha imparato ad abbinare il valore di un prodotto alla sua storia e al luogo di provenienza.
Nel nostro lavoro per l’Alpe abbiamo identificato e analizzato alcuni casi diversi per storia e collocazione geografica, ma simili nell’assunto che la montagna, se offre prodotti di alta qualità, può competere anche con la logica del supermercato, rovesciandola o adattandola alle proprie esigenze. Nella diversità e nella complessità delle situazioni esistenti, che vanno dai vini valdostani ai vini valtellinesi, dalle mele della Val di Non ai piccoli frutti delle piccole valli, dai mieli alle marmellate, dagli insaccati agli amari, dalle lavorazioni artigianali a quelle industriali, attraversando il pianeta dei formaggi di malga, in questa complessità di modelli più o meno vincenti ritorna sempre la vecchia regola:
“La selezione del gusto e della cultura ha modificato i prodotti fino al punto da renderli autoctoni.”
Questa è la tradizione alpina, l’unica che abbia un futuro.
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