Nel proclamare il 2002 Anno internazionale delle montagne, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha inteso specificamente “promuovere la conservazione e lo sviluppo sostenibile, assicurando così il benessere delle comunità montane e delle popolazioni di pianura”. Su tale assunzione di intenti campeggiano due principi forti, due idee guida che potrebbero cambiare i destini delle montagne del mondo, e delle Alpi in particolare. A ben guardare si tratta di due coppie di opposti, di fattori apparentemente antitetici, eppure il futuro delle Alpi dipenderà proprio dalla composizione di queste antinomie: conservazione e sviluppo, comunità montane e popolazioni di pianura. In altre parole: tradizione e progresso, montagna e città.
Occorre innanzi tutto liberarsi dai pregiudizi che continuano a condizionare la visione della montagna. Il primo riguarda proprio il concetto di tradizione. Dai tempi in cui Jean-Jacques Rousseau affermava ispirato che “alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, vi si lasciano tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima è toccata dalla loro inalterabile purezza” (8), l’idea dell’alpe purificatrice e del montanaro virtuoso ha segnato in profondità l’immaginario dei cittadini, tanto da imprigionare la cultura alpina in un sistema immobile di comunità arcaiche dedite ad antichi mestieri. La sensazione (o illusione) di armonia alpestre cara ai cantori delle Alpi di inizio Novecento prendeva slancio proprio dal concetto di staticità. Gli occhi romantici dei cittadini hanno identificato la tradizione con la virtù, la conservazione con la salvezza, il mito con la realtà, rifiutando di accettare, persino a fatto compiuto, che una cultura priva di tensioni e spinte innovative è una cultura sterile, quindi senza futuro.
Il secondo pregiudizio, diretta conseguenza del primo, riguarda la rigida separazione tra cultura montanara e cittadina, la divaricazione forzata tra alto e basso, la contrapposizione ideologica tra arcaicità e modernità. Nel nobile e affannoso intento di preservare l’agiografia alpestre da ogni contaminazione urbana, molti etnografi del Novecento si sono dimenticati di raccontare i continui rapporti tra il monte e il piano, le feconde emigrazioni dei valligiani verso le botteghe e i mestieri di pianura, le ricadute artistiche e culturali sulla montagna, e viceversa. Nell’ultimo ventennio del Novecento alcuni antropologi hanno denunciato l’inganno rimarcando la maggiore scolarizzazione delle popolazioni delle alte valli rispetto a quelle delle basse valli e delle pianure.
Ma ormai era tardi. Per paradosso, quando la montagna ha finito di essere letta come un mondo isolato e autarchico anche dai più irriducibili missionari della religione alpina, i benefici scambi di conoscenze e stili di vita tra il monte e il piano erano stati ormai soppiantati dalla colonizzazione urbana, con un processo di omologazione culturale che, scavalcando spesso le medie valli per inglobare i terreni turistici delle alte valli, ha diviso la montagna (specialmente la montagna alpina) in due territori segnati da contraddizioni “identiche” e opposte: l’isolamento e l’abbandono, sociale e culturale, delle zone intermedie fa da contro altare al sovraffollamento stagionale delle zone alte, “ricche” baciate dal turismo ma espropriate dei valori locali, inquietanti paesi dormitorio dove gira molto denaro ma per lo più a beneficio di tasche, progetti e riferimenti culturali esterni.
Questo, oggi, è il grande paradosso della montagna, e delle Alpi in particolare: là dove il tessuto sociale e ambientale si è salvato dalle aggressioni urbane mancano gli strumenti sociali ed economici per tirare avanti; là dove il turismo ha ricoperto come un manto artificiale la montagna originaria, mancano ormai le caratteristiche ambientali e culturali che attirarono i cittadini verso quel mondo puro e “incontaminato”.
In realtà una terza via esiste già, e si chiama Convenzione delle Alpi. Se nel primo decennio di vita del trattato si fosse cominciato ad applicare seriamente i Protocolli della Convenzione, le Alpi avrebberò già molte rughe in meno. In particolare sarebbe iniziata una politica di conversione del traffico pesante dalla gomma alla rotaia; si assisterebbe a una ripresa dell’agricoltura e della pastorizia di montagna, favorite da incentivi agli agricoltori e da forti iniziative di promozione dei prodotti tipici; si sarebbero fatti passi avanti nella difesa del suolo e nella riduzione dell’inquinamento atmosferico e delle acque; si sarebbe intervenuti sui piani urbanistici e sulle infrastrutture, favorendo un turismo “morbido” e in armonia con le esigenze ecologiche e sociali, capace di valorizzare le risorse locali senza incidere sulla qualità del patrimonio ambientale e culturale.
Invece la Convenzione delle Alpi ha incontrato molti ostacoli a livello nazionale e internazionale (il governo italiano, per esempio, continua a essere scarsamente interessato a una politica per la montagna, così come il governo europeo), e anche a livello locale: la maggior parte delle comunità montane si è sentita scavalcata da scelte imposte dall’alto e ha interpretato la Convenzione come un freno alle proprie attività e non come un programma di ampio respiro in grado di guidare le Alpi verso la rinascita. Di fronte ai progetti globali l’atteggiamento dei montanari sfocia facilmente in una chiusura campanilistica, diffidente a priori, e per mille ragioni diverse, verso ogni proposta che includa pensatori esterni.
Eppure una direzione sembra comunque indicata. I complessi problemi di disagio ambientale, incertezza demografica e difficoltà economica che, su un territorio molto articolato ma con elementi ricorrenti, accomunano gli oltre undici milioni di abitanti delle Alpi (tredici milioni secondo la stima allargata della Convenzione alpina) e i circa seimila comuni, portano ormai quasi ovunque a parlare di “sviluppo sostenibile”, definizione già inflazionata. I più sembrano aver compreso che, per esempio, non è “sostenibile” un turismo che sacrifichi la qualità dell’ambiente, che cannabilizzi le colture agricole e le attività silvo-pastorali, che annienti la storia e le tradizioni locali. Alcune amministrazioni ragionano sull’opportunità di allontanare le auto dal centro dei villaggi, per non ricreare in montagna lo stesso clima di stress che si cerca di scacciare dalle città. Altre si stanno accorgendo che la monocultura dello sci uccide ogni altro sviluppo possibile, per cui bisogna creare urgentemente delle alternative. Si tende finalmente a rivalutare la gastronomia del luogo contro le tentazioni del fast food, e a rilanciare i prodotti tipici contro la logica del supermercato. Correttivi giusti, iniziative sacrosante, che però nella maggior parte dei casi rispondono a imperativi generati dal disordine del sistema, ma non si inquadrano in un progetto a lunga durata, coordinato con i comuni e le valli vicine, inserito in una politica di larga prospettiva nello spazio e nel tempo.
Nel quadro complesso delle Alpi all’alba del terzo millennio si possono delineare tre snodi cruciali: agricoltura, turismo e trasporti. Si tratta di tre insiemi di problemi indissolubilmente connessi, ed è ingenuo e illusorio pretendere di risolvere l’uno senza intervenire sull’altro, Proprio la visione parziale delle questioni ha portato alcune valli al collasso e altre all’abbandono.
Agricoltura e turismo: salvo situazioni particolari (sussidi straordinari ai coltivatori, monoculture dello sci, casi di urbanizzazione selvaggia) è dimostrato che l’una non può vivere in assenza dell’altro e viceversa: solo un equilibrio integrato garantisce un futuro di qualche respiro.
L’agricoltura senza il turismo non è in grado di reggere l’economia alpina, ma il turismo senza agricoltura snatura in breve l’identità locale, altera il paesaggio, globalizza i prodotti e sottomette la montagna all’economia di città.
Turismo e trasporti: la dipendenza è evidente, perché sono stati i progressi nei trasporti (prima ferroviari, poi stradali)ad avvicinare la montagna alla città e a scatenare il fenomeno turistico. Ma oggi il dominio delle automobili e la loro espansione incontrollata rende invivibili molti centri alpini nei mesi punta, equiparandoli in negativo ai centri di pianura, riduce alcuni santuari delle Alpi a parcheggi d’alta quota, compromette i beni primari di silenzio e aria pulita su cui si fonda il turismo. Ai problemi del traffico locale si affianca l’emergenza sempre più drammatica dei grandi trasporti, soprattutto su gomma.
Agricoltura e trasporti: se da un lato l’agricoltura e l’allevamento traggono beneficio dalla meccanizzazione e da una rete adeguata di strade ad uso interpoderale, dall’altro lato l’abuso delle sterrare nate con finalità agricole e poi trasformate in strada turistiche dagli interessi speculativi, l’avanzata dell’asfalto e del cemento, il graduale rosicchiamento dei campi coltivati e dei pascoli, il depauperamento dei terreni agricoli di fondovalle a beneficio dei grandi assi di transito, porta l’agricoltura e gli agricoltori verso una condizione sempre più . Vittime anziché beneficiari della modernizzazione.
Oggi risulta più che mai evidente quanto l’ideologia “tradizionalista” e la spinta “modernista” si siano trovate entrambe disarmate di fronte alla crisi culturale ed economica delle Alpi.
La prima visione è sfociata in tentativi di “museificazione” dell’ambiente alpino e della sua civiltà tradizionale, a scopo conservativo e a beneficio turistico, la seconda ha fatto propri gli stili di vita della città rischiando di trasformare la montagna in una semplice “appendice per vacanze”, una protesi urbana, un surrogato.
L’idea della terza via si basa proprio sulla negazione e sul superamento di questi due esperimenti fallimentari, individuando sulle Alpi i segni del nuovo, della progettazione, del futuro (naturalmente in connessione con il passato), senza scimmiottare acriticament
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