Nel secondo dopoguerra del Novecento si accende il dibattito sull’architettura alpina. Poco prima che i luoghi più celebrati delle Alpi vengano seppelliti dai condomini e dalle villette, alcuni progettisti di prestigio invitati a costruire in montagna si interrogano sui limiti del modello architettonico tradizionale. Carlo Mollino, cui gli amministratori di Breuil-Cervinia affidano lo studio del piano regolatore per il nuovo villaggio turistico (senza mai applicarlo), scrive nel 1954:
«Volere un’architettura folkloristica vuol dire ripetere un modo che gli stessi costruttori di baite, gli stessi maestri artigiani che col legno e la pietra costruirono antiche architetture, oggi non vorrebbero più accettare… Questo invito al folklore, pur nato con la lodevole intenzione di evitare il peggio, sfocalizza gli elementi vitali della costruzione e tronca proprio un processo storico costruttivo che altro non è che quella tradizione che si vuole giustamente salvare. Tradizione è continuo e vivente fluire di nuove forme in dipendenza del divenire irripetibile di un rapporto tra causa ed effetto, è fiume armonioso e differente in ogni ansa e non acqua stagnante o ritorno».
La tesi di Mollino genera scandalo. Ancora una volta il mondo della montagna si divide fra “tradizionalisti” e “modernisti”. Chi non approva alcuna contaminazione con la modernità e si mostra idealmente fedele ai modelli abitativi della vecchia società alpina, reagisce come al solito in due modi: l’occultamento e l’imitazione. Si occulta – a cominciare dalle cartoline, dalle fotografie e dall’iconografia tutta – ciò che contrasta con la visione tradizionale (pali della luce, cavi delle funivie, insegne alneon, automobili, garage, case più alte di due piani) e si imita un presunto stile montano “autentico”, nell’illusione che il “rustico” possa assicurare la continuità con il passato. Ecco spiegato il largo impiego edilizio del legno anche là dove il legno non appartiene alla tradizione dell’architettura locale, o l’inserimento della pietra d’importazione in zone dove la roccia è così cattiva da non poter costituire, dai tempi dei tempi, materiale per le costruzioni.
Ma quel che è peggio, sull’altro versante, invece di cercare un modello architettonico e culturale che consenta alla montagna di liberarsi dai lacci del passato senza per questo stravolgere la propria identità, si replica acriticamente il modello urbano, esportandolo semplicemente in quota. E così la montagna diventa un surrogato della città, una vuota imitazione.
Cinquant’anni dopo
Oggi abbiamo una sola certezza: “tradizionalisti” e “modernisti” sono entrambi disarmati di fronte alla crisi culturale ed economica delle Alpi.
La prima visione è sfociata in tentativi di “museificazione” dell’ambiente alpino e della sua civiltà tradizionale, a scopo conservativo e a beneficio turistico. Ne sono prova i reiterati sforzi per far resuscitare i riti e i costumi del passato anche là dove tali recuperi appaiono evidenti forzature favorite dalle pro loco e dalle aziende di soggiorno per ricostruire una parvenza di identità storica. Quale località non esibisce il suo animale selvatico o il suo essere mitologico risalente a un non ben identificato leggendario alpino? Ma sono simboli così addomesticati da fungere tuttalpiù da mascotte per le insegne delle tavole calde o per il marchio dello ski pass. Quale villaggio, infine, non riesuma con orgoglio i colori dei costumi tradizionali, le danze dei propri avi, i canti e le mascherate “alla moda di una volta”? Come a dire: qui non è arrivato nessuno a inquinare le antiche usanze, qui siamo rimasti quelli che eravamo. Ma si tratta di un’altra mistificazione, perché nessuno può congelare la tradizione.
Se non si rinnova la tradizione muore
L’antropologo Gian Luigi Bravo, attraverso una ricerca condotta in Piemonte e in Valle d’Aosta nell’ultimo quarto del Novecento, ha smascherato il preconcetto che le feste popolari sopravvivano nelle valli più arcaiche e isolate. Contro ogni apparenza ha dimostrato che la rinascita dei rituali alpini è tipica delle zone più coinvolte nei processi di scambio con la pianura e la città:
«Per una migliore comprensione apparve utile chiedersi quali categorie sociali e individui fossero i protagonisti di questa continuità del rito e i promotori delle feste ricostituite dopo interruzione o assemblate su un modello e con elementi proposti come tradizionali. Questi protagonisti, più che persone chiuse e immerse nel passato montano e rurale, apparivano gli individui più aperti, attivi nelle istituzioni e negli apparati produttivi delle strutture sociali contemporanee, dalla fabbrica ai servizi alla scuola. In particolare si è ritenuto che essi dovessero essere ricercati tra i pendolari: abbiamo inteso con questo termine non solo e non tanto coloro che si spostavano sul territorio per la loro attività lavorativa o di studio, ma più precisamente quelli che per gli stessi scopi agivano ora in un contesto socioculturale, ora in un altro, a prescindere dall’ampiezza dello spazio geografico percorso» (1).
Queste riflessioni sul pendolarismo riportano all’antica consuetudine dell’emigrazione stagionale alpina e alla ricchezza storica degli scambi tra montagna e pianura, confermando la tesi di Jon Mathieu:
«Le Alpi si differenziano dalle terre pianeggianti che le circondano in forme molteplici e mutanti nel tempo, ma non sono mai state un mondo alternativo e opposto alla pianura e ai centri europei. Ha fornito una base importante per questa illusione il fatto che la maggior parte degli intellettuali, come anche il loro pubblico, abbiano fatto ricorso alle Alpi dall’esterno, per le loro proprie necessità. Si è trattato di una di quelle piuttosto strane dichiarazioni d’amore, che non richiedono il parere dell’interessato. Il tempo per simili approcci dovrebbe essere scaduto» (2).
Tradizione e identità alpina non traggono ossigeno dall’arroccamento in enclave, ma dallo scambio creativo con la pianura e la città. È una premessa fondamentale per misurare la congiuntura attuale delle Alpi, e soprattutto per proiettarla in una visione futura. Le gelosie montanare, le chiusure regionalistiche, le sterili difese di privilegi e particolarismi, le nostalgie non salvano la cultura alpina. Senza ossigeno la montagna soffoca.
Lo sviluppo mangia se stesso
L’altra idea forte novecentesca, nata da una visione “progressista” delle Alpi ed evolutasi attraverso la moda della villeggiatura alpina, gli entusiasmi modernisti di inizio secolo, le ferrovie, le strade, le funivie, l’invenzione dello sci di massa, ha mostrato tutti i suoi limiti dopo gli anni Settanta, quando è parso chiaro che la montagna stava diventando un surrogato della città. Nient’altro che un surrogato.
Nell’euforia del progresso, abbagliati dalla panacea del turismo guaritore di tutti i mali, si era semplicemente perso di vista il punto di partenza: «Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Sono parole di fine Ottocento, eppure chi ci ha fatto caso nell’ubriacatura di investimenti e speculazioni del secondo dopoguerra? Chi ha pensato ai devastanti effetti collaterali?
Come hanno osservato gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta, il turismo “mangia” se stesso: «La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende». Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e più in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice. Eppure cosa ha fatto la città per sviluppare quei valori e godere quegli ambienti? Li ha aggrediti, rosicchiati e addomesticati, ne ha cancellato l’alterità e la bellezza, li ha ridotti a banali copie senz’anima.
Si è continuato per lungo tempo a pensare e progettare la montagna come un territorio dalle risorse inesauribili, erodendo – con la complicità di montanari e cittadini – la ricchezza delle Alpi: l’ambiente naturale. Comunità locali e investitori esterni hanno continuato negli anni settanta e oltre a ragionare su progetti di corto respiro, con operazioni di sfruttamento e rapina ambientale di cui oggi si raccolgono i pezzi.
La terza via, ovvero l’obbligo di guardare lontano
I complessi problemi di disagio ambientale, flessione demografica e difficoltà economica che, su un territorio molto articolato ma con elementi ricorrenti, accomunano gli oltre undici milioni di abitanti delle Alpi e i circa seimila comuni, portano ormai quasi ovunque a parlare di “sviluppo sostenibile”. La definizione è così inflazionata da tradire già una debolezza diffusa, proprio perché mancano i riferimenti a un modello più generale e perché ogni valle e ogni comunità pretende di risolvere (comprensibilmente, ma anche pericolosamente) i propri problemi da sé. E’ come se ogni amministratore delle Alpi avesse annusato un po’ della ricetta miracolosa.
I più sembrano aver compreso che, per esempio, non è “sostenibile” un turismo che sacrifichi la qualità dell’ambiente, che cannibalizzi le colture agricole e le attività silvo-pastorali, che annienti la storia e le tradizioni locali. Alcune amministrazioni ragionano sull’opportunità di allontanare le auto dal centro dei villaggi, per non ricreare in montagna lo stesso clima di stress che si cerca di scacciare dalle città. Altre si stanno accorgendo che la monocultura dello sci uccide ogni altro sviluppo possibile, per cui bisogna creare urgentemente delle alternative. Si tende finalmente a rivalutare la gastronomia del luogo contro le tentazioni del fast food, e a rilanciare i prodotti tipici contro la logica del supermercato. Correttivi giusti, iniziative sacrosante, che però nella maggior parte dei casi rispondono a imperativi generati dal disordine del sistema, ma non si inquadrano in un progetto a lunga durata, coordinato con i comuni e le valli vicine, inserito in una politica di larga prospettiva nello spazio e nel tempo.
Sviluppo locale e prospettiva europea
In occasione degli Stati generali della montagna tenutisi a Torino dal 27 al 29 settembre 2001, l’Unione nazionale dei comuni, comunità ed enti montani (Uncem) ha affidato al consorzio di studi sociali Aaster coordinato da Aldo Bonomi l’elaborazione di un documento programmatico per l’Anno internazionale delle montagne. Eccone alcuni passaggi:
«Siamo convinti che la montagna italiana potrà svolgere un ruolo strategico per il futuro e riscattarsi dal passato affermando il proprio modello specifico di crescita, nella consapevolezza che così facendo si svolgerà un servizio per l’intera comunità…
Vogliamo avviare un processo che ci faccia uscire dalla sudditanza di un mondo che ha dovuto cedere alle classi egemoni, ma che non si è mai rassegnato a essere un modo dei vinti. E che può tornare a essere un mondo dei vincenti, capace di indicare – grazie alla saggezza dei principi scritti nel suo codice genetico – la strada di un nuovo sviluppo…
Parlare con il linguaggio della modernità: è questa in fondo la condizione che ci consentirà di vincere la sfida».
Per raggiungere gli obiettivi il documento individua innanzi tutto una serie di trasferimenti dal centro alla periferia, tali da restituire dignità politica ed economica alla montagna. In particolare si chiede la restituzione della «proprietà di risorse»: i prodotti della caccia e del sottobosco, i marchi di qualità e la vendita di prodotti certificati, il turismo, l’agricoltura specializzata, le filiere del legno, la messa a profitto del patrimonio storico-architettonico, gli itinerari culturali, gli ecomusei. Inoltre si rivendicano dei «controvalori specifici per il “rilascio” di risorse autoctone della montagna» (ad esempio il corrispettivo sul valore finale dell’acqua prelevata dalle sorgenti e dai torrenti) e delle «percentuali sui frutti delle infrastrutture che utilizzano il territorio montano: autostrade, impianti industriali ecc.».
La Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra) ha accolto favorevolmente il documento dell’Uncem, sottolineando però che «affinché un maggior conferimento di risorse finanziarie agli enti locali possa innescare circuiti virtuosi di sostenibilità e promozione delle risorse della montagna, è necessario che sussistano solide e democratiche istituzioni sociali capaci di affiancare e assistere le istituzioni amministrative. Nella storia recente non sono mancate occasioni di elargizione di pingui finanziamenti alla montagna alpina (per esempio i fondi della legge per la ricostruzione della Valtellina) che, nonostante l’intento del legislatore, non si sono tradotti né in maggiore sicurezza idrogeologica né in progetti di sviluppo sostenibile».
La replica della Cipra si sofferma su un punto fondamentale:
«Il decentramento amministrativo senza sussidiarietà, e per di più in una compagine sociale – ahinoi – spesso disgregata, non produce sviluppo locale né tanto meno sostenibilità, ma anzi espone al rischio di eccessi di discrezionalità dell’amministrazione locale e al facile ingresso di interessi economici esterni, capaci di produrre effetti negativi ed effimeri».
Anche in questo caso le Alpi si trovano di fronte alla necessità di imboccare una terza via, che da un lato le preservi dall’omologazione politica e culturale, e dall’altro le liberi dalla tentazione autarchica, economicamente e storicamente inaccettabile: le Alpi hanno sempre tratto vantaggio dallo scambio e dalla comunicazione aperta con il resto del continente, e sarebbe oggi più che mai anacronistico limitare questa vocazione.
Le Alpi oggi sono il giardino e la spina dorsale dell’Europa, rifugio di biodiversità naturale e culturale, patrimonio storico e artistico senza pari, ma anche il corridoio dei Tir e dei più costosi transiti internazionali in termini di inquinamento e vite umane. Il loro futuro è affidato a un’accorta gestione locale governata da una saggia politica sovranazionale.