Tra gli infiniti sguardi che un uomo può dedicare alle montagne, ce ne sono due che non si incontrano quasi mai: quello del documentarista e quello dell’alpinista. Quando la febbre dell’azione muove un uomo verso un obiettivo, non c’è spazio per l’immagine e la rappresentazione. Il mondo, con le sue regole e le sue esigenze figurative, si fa da parte per lasciar spazio a una cresta, una guglia, una parete inesplorata. In quei momenti tutto il resto non ha più senso. Eppure è esistito un Vittorio Sella che ha speso la vita a documentare le Alpi e si è distinto in imprese d’eccezione, come la prima traversata invernale del Cervino, ed è esistito un Guido Rey che per cantare la montagna si è scoperto cultore delle luci e delle inquadrature, raggiungendo risultati deliziosi. Eppure gli alpinisti hanno segnato l’evoluzione della fotografia sulle Alpi, dilettanti colti da una folgorazione artistica, o appassionati dediti alla rappresentazione geografica. C’è una spiegazione. Lo hanno fatto per amore della memoria, immortalando i volti e i paesaggi della loro esperienza straordinaria Se si escludono le rare famiglie di professionisti (i Bisson, i Tairraz, i Ghedina, Sella naturalmente), se non si incorre nei tranelli della fotografia celebrativa di fine Ottocento, si incontrano infinite testimonianze di passione individuale e amatoriale, unite a qualche spinta associativa e a ingenue ambizioni editoriali, spesso disinteressate. Non si può raccontare la storia della fotografia sulle Alpi senza incrociare quella degli alpinisti, e se non si comprende quest’ultima si rischia di inciampare in un linguaggio cifrato che lascia ben poco spazio alle interpretazioni.
I primissimi artigiani che si avvicinarono alle montagne armati di lastre e obiettivi furono mossi dalla novità e dallo stupore, come John Ruskin – il teoreta delle «Alpi cattedrali della Terra» – che nel 1854 (ma l’attribuzione temporale è incerta) fotografò l’Aiguille Verte e i Drus dal fondovalle di Chamonix. É certo invece che lo stesso Ruskin, cinque anni prima, aveva immortalato l’immenso fiume sconvolto della Mer de Glace, lasciandoci una visione misteriosa e apocalittica del primo ghiacciaio del Monte Bianco. Altri fotografi, ancora prima di lui, si interessarono ai paesaggi svizzeri, dal Cantone di Zurigo all’Oberland Bernese, con particolare predilezione per i ghiacci e le cascate che, evidentemente, rappresentavano un doppio simbolo, di purezza e di potenza, caro ai primi visitatori delle Alpi. Nel 1862, anno storico per la fotografia alpina, i fratelli Bisson inquadrano splendidamente il Cervino dal Riggel (Zermatt): è un’immagina simbolica, perché la vetta sarà raggiunta appena tre anni più tardi proprio dalla cresta svizzera dell’Hörnli. . Ma i Bisson faanno molto di più, documentando un’ascensione al Monte Bianco lungo la via dei Grands Mulets. Per la prima volta anche i profani possono penetrare nei segreti delle alte quote, trepidando per i temerari alpinisti che con corde e scale si districano nel dedalo di seracchi dei Bossons. Quella dei Bisson è sicuramente un’opera di avanguardia, di straordinaria abilità tecnica e pittorica, ma come tutto ciò che si era svolto a Chamonix, sui fianchi francesi del Monte Bianco, risulta sbilanciata rispetto agli sviluppi dell’alpinismo e della fotografia d montagna. ll Bianco fu scalato (da Nord) almeno mezzo secolo prima delle altre cime importanti, le guide di Chamonix si costituirono in società trent’anni prima che a Courmayeur, dunque anche i fotografi d’oltralpe si mossero con anticipo eccezionale, più testimoni (e beneficiari) di una storia privilegiata che iniziatori di una nuova professione.
Le motivazioni dei pionieri
Per capire veramente cosa mosse i primi fotografi alpinisti sulle Alpi, o meglio cosa mosse gli alpinisti fotografi di fine Ottocento a interessarsi alla documentazione delle proprie ascensioni, è necessario fare un passo avanti di due-tre decenni. Terminato il periodo esplorativo dei pionieri, salite quasi tutte le vette più rappresentative, verso la fine del secolo l’alpinismo entra nella fase più ricca della sua storia, quella delle grandi cordate con guida (Ryan-Lochmatter, Young-Knubel, Norman Neruda-Klucker) e dei primi senza guida (Mummery, davanti a tutti). Non è più il sentimento romantico naturalistico, inteso in senso rousseauiano, che guida gli alpinisti, non è neppure il richiamo esplorativo la vera molla che li spinge sulla montagna; non è, tantomeno, la motivazione scientifica, che peraltro non è mai andata molto più in là degli strumenti di de Saussure. L’alpinismo è diventato una disciplina autonoma e matura, che non ha più bisogno di prendere a prestito dalla filosofia, dalla geografia o dalla scienza le ragioni della sua esistenza. Si va in montagna per salire le montagne, si arrampica per aprire nuovi itinerari sempre più audaci ed eleganti; ci si consorzia per raggiungere la maggiore efficienza possibile sulla roccia e sul ghiaccio. Resiste, naturalmente, quella visione idealistica ed eroica dei monti che costituirà il collante di tutta l’epopea alpinistica, ma pochi ormai si sognano di negare alla scalata la motivazione sportiva e competitiva che genera il desiderio d’avventura.
L’alpinismo, di fatto, ha segnato l’inizio del turismo alpino. Se si esclude quel fenomeno significativo ma circoscritto che è stato il soggiorno termale, in grado di promuovere fortunate località alpine come Valdieri, Courmayeur, Bormio o San Pellegrino, si deve agli alpinisti la paternità delle vacanze cittadine sui monti, che a partire dalla seconda metà del secolo rinnovarono la rigida economia tradizionale dando lavoro ai primi albergatori e alle prime guide. Anche questo è un elemento che va tenuto ben presente nell’osservazione della fotografia alpina, dove la rappresentazione delle tradizioni, degli usi e dei costumi montanari è sempre filtrata dalla sensibilità e dal privilegio di quei borghesi via via più numerosi che ebbero la fortuna di spendere il proprio tempo libero nelle vallate. In atre parole, la fotografa nasce e si afferma proprio quando la montagna, cessando di essere un territorio autoctono e indipendente, inizia a indirizzare una parte considerevole delle proprie risorse per il soddisfacimento – ben remunerato – dei bisogni dei cittadini. I quali, con i loro scritti e le loro fotografie, tendono a valorizzare e a divulgare la cultura rurale dei valligiani, gratificando così le proprie scelte e – talvolta – mettendo a tacere quel sottile senso di colpa che si insinua nell’animo dei colonizzatori. La retorica del buon montanaro, insieme a quella dell’Alpe, è uno dei fili rossi destinati a legare tutta la rappresentazione iconografica almeno fino al secondo dopoguerra.
In Primis il Monte Bianco
Qualunque viaggio nella storia della fotografia alpinistica, come si è visto, comincia con l’immancabile ascensione al Monte Bianco. I passaggi dei seracchi sulle scale di legno sono immagini di prammatica, ma non manca mai neppure la foto ricordo davanti al rifugio dei Grands Mulets. Colpiscono la raffinata costruzione dell’inquadratura e la regia del fotografo, che dispone gli alpinisti e le guide in pose plastiche e armoniose tra le torri di ghiaccio. Ce la immagineremmo, oggi, una comitiva che posa per ore tra i seracchi pericolanti per esigenze artistiche o celebrative? Eppure disponiamo di macchine tascabili e di esposimetri automatici, contro le camere monumentali che due o tre portatori trascinavano verso la vetta più alta d’Europa sotto gli occhi vigli e preoccupati del proprietario.
Il taglio è più o meno quello della fotografia di corte, senza un filo di ironia, anche se la comitiva è ridicolizzata da tante maschere bianche che ricoprono i volti di altrettanti impassibili fantasmi d’alta quota. Si posa sempre, nei primi piani come nelle foto d’insieme, e alla Barre des Ecrins la guida finge di scrutare le profondità di un crepaccio anche quando, evidentemente, la via passa per nevi ben più rassicuranti. Sul ghiacciaio della Tribolazione, che non è certo il posto più tranquillo delle Alpi, il fotografo di Venezia Pier Italico Tavani imbastisce lezioni di progressione alpinistica: la guida – elegante – che gradina il pendio, il secondo di cordata con gli anelli di corda in mano, la guida che lo assicura sulla piccozza e poi tasta la neve alla ricerca di un ponte sicuro. Lo scopo è didattico, ma in un senso più ampio di quanto lo possiamo intendere oggi. Descrivendone le tecniche ti promuoveva soprattutto un’attività, intesa come scuola di vita, indirizzando alle giovani leve messaggi di incoraggiamento e di stimolo. La fotografia, ala fine dell’Ottocento, serviva anche a questo.
Un capitolo a parte spetta a Vittorio Sella, che elaborò una tecnica e una filosofia assai personali. Tutti gli alpinisti conoscono le sue eccezionali immagini in bianco e nero, che dalle Alpi spaziano fino al Caucaso e all’Himalaya. Si è scritto molto sul fotografo biellese, a buon diritto considerato il maestro italiano della fotografia di montagna; il critico fotografico Piero Racanicchi è stato – tra i vari osservatori- il più puntuale e convincente: «La fotografia non è per Sella un elemento letterario, romantico e simbolico, ma piuttosto un procedimento che prepara ed elabora le condizioni di un diverso linguaggio, fondato su nuove scale di valori. Distaccandosi dai canoni celebrativi della pittura piemontese di soggetto alpino a lui contemporanea, egli allontana dalla rappresentazione convenzionale dello spazio i grandi misteri delle lontananze e l’”aura estetica” delle vedute panoramiche. Non cade mai nell’annotazione, con cede mai alle lusinghe dello spunto aneddotico. La sua visione è sempre totale perché il risultato d’insieme di infiniti e definiti particolari: “ Soltanto la fotografia – egli infatti scrive – può riprodurre fedelmente gli innumerevoli dettagli degli elementi, che uniti formano il quadro che il nostro occhio vede nella natura (…) Quando egli sta dietro l’obbiettivo con l’occhio vigile dello scalatore e del naturalista, pronto ad armonizzare i dati del pensiero con quelli dell’immaginazione, attento a percepire fedelmente i fenomeni del naturale, sa perfettamente che lo spettacolo non è nella realtà ma nell’artificio della sua rappresentazione (…) le sue immagini sono come le sue salite. Senza eroismo, distese entro spazi in cui l’equilibrio dell’uomo può serenamente confrontarsi con quello della natura» (Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore, TCI-CAI 1981). In questo il maestro Sella (fotografo- alpinista) si distingue dai suoi adepti (alpinisti-fotografi): nella coscienza che la fotografia è sempre una rappresentazione, mai uno specchio romanticamente fedele della realtà vissuta.
Il poeta del Cervino
Anche Guido Rey, il poeta del Cervino, l’autore di alcuni tra i libri simbolo del nuovo secolo, è stato un fotografo raffinato. Ce lo dicono le splendide del Pic Tyndall, dell’Aiguille Verte, del Grépon, della Ciamarella e della Tofana, ma ce lo dice lui stesso nel primo capitolo di “Alpinismo acrobatico”: «L’antipatico gingillo meccanico che rechiamo sui monti legato alle spalle è divenuto per noi un compagno utile e fedele che, ad un nostro cenno, guarda e ritiene con memoria più sicura della nostra; un compagno che malediciamo le cento volte nella salita, che pesa, ci preme il fianco e sbatacchia sulla schiena, squilibra i moti e c’impaccia nei momenti difficili, ma che, al ritorno, benediciamo; e siamo lieti se è uscito con noi salvo ed intatto dalla battaglia. La piccata scatola racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori; quando nella camera oscura assistiamo trepidanti al rivelarsi delle minuscole immagini, rivediamo comparire le rupi sfuggenti nell’abisso, le guglie terribili che salimmo ansanti, e i luoghi aerei ove riposammo. Ci riappaiono nostri compagni sorpresi nel vuoto così istantaneamente che ci è dato di scorgere le contrazioni del loro volto, il loro sforzo nel trarre la corda, gli atteggiamenti curiosi nei passi difficili. Strana magia questa di fermare per sempre ciò che è stato un attimo fuggente alla vita». Rey è stato uno dei primi alpinisti che hanno appreso l’arte della fotografia, elaborandola ben oltre la semplice intuizione amatoriale eppure in queste righe descrive inconsapevolmente quello che sarà il rapporto di schiere di migliaia e migliaia di appassionati con la macchina fotografica,. Il magico legame della memoria visiva, che permette all’innamorato di eternare l’oggetto della sua passione, condividendolo anche con chi non va in montagna. Da questo legame usciranno alcuni interpreti di spicco, dotati di tecnica e sensibilità visiva, ma usciranno soprattutto milioni di immagini a un tempo mediocri e significative, destinate a custodire delle storie, a testimoniare i caratteri di un’epoca, a trasmettere le gioie di un’esperienza. Le foto di Rey sui gendarmi del Grépon sono eccezionali, e non soltanto per i sapienti tagli di luce e le pregevoli inquadrature. Sono importanti perché rappresentano l’arte della scalata in quello che fu (e che era ancora ai tempi d Rey) il santuario dell’arrampicata stessa. La storia è nota: quando Mummery riuscì con Burgener e Venetz a domare l’Aiguille, si parlò della «più difficile scalata delle Alpi». Poi tornò a ripetere l’impresa con Miss Bristow e, con ironia tutta anglosassone, corresse con «facile ascensione per signore». Il grande Mummery aveva intuito l’evoluzione dell’alpinismo, senza lasciarsi intrappolare dalle griglie del mito, ma il Grépon restò il temuto banco di prova per i più brillanti alpinisti europei di fine secolo. Anche Guido Rey, il nostalgico adoratore dei paesaggi alpini, accolse il fascino della sfida e, con l’occhio dell’obiettivo, fu testimone del più puro simbolo dell’alpinismo sportivo, concentrandosi sui passaggi e sulle vertiginose lastre di granito. Attraverso le sue immagini, noi oggi ci accorgiamo come l’alpinismo di un secolo fa fosse un equilibrato e splendido mélange di romanticismo e sport. Ci convinciamo che quei signori sempre pronti a decantare le bellezze dell’Alpe innalzando lodi al Creatore, erano nel contempo acrobatici domatori della verticale, attratti delle difficoltà almeno quanto i successivi interpreti del sesto grado. Quegli eleganti borghesi immortalati dallo stesso Rey sul ghiacciaio della Ciamarella, che sembrano tanti notabili in ordinata processione, custodivano sotto il panciotto la fiamma della passione.
Da Piacenza a Casara
Più classico, forse anche più stereotipato, lavoro fotografico di Mario Piacenza, che il solito Rey ci presenta all’opera sulla Grande Tour del Cervino. Di Piacenza ammiriamo (con nostalgia) i particolari interni della capanna Luigi Amedeo e poi lo stesso rifugio inquadrato dall’alto, piccolo nido sospeso sull’abisso. Quella della Gran Becca fu sempre un’interpretazione romantica, molto distante dalle acrobazie d’avanguardia di Chamonix.
Due alpinisti rappresentati dai fratelli Gugliermina con lo sfondo dell’immensa parete nord delle Grandes Jorasses e i due preti sorpresi negli anni Venti sul ghiacciaio del Monte Rosa ci dicono molto sulla visione del nostri antenati. L’uomo è sempre immensamente piccolo al cospetto della montagna («Piccoli uomini e grandi montagne» scriveva Ugo De Amicis), la figura appare preferibilmente di schiena, o in controluce, per non distrarre l’osservatore dalla maestosità del paesaggio.
I primi piani sono banditi, o appartengono alla categoria inferiore della foto-ricordo, quella che non si esibisce mai alle esposizioni ufficiali. La retorica dell’Alpe, che ci fa apparire poetica e impersonale una stagione che ebbe come ogni altra i suoi personaggi e i suoi protagonisti, impone una rigorosa e discreta integrazione dell’alpinista nel quadro d’insieme, come appare chiaro – per esempio – dai due omini nella grotta di ghiaccio sulla Marmolada. Nasce l’iconografia alpina del nostro secolo e nasce la foto cartolina, che ancora fa bella mostra in tutte le rivendite di souvenir e si prepara – intramontabile – a ornare le rivendite turistiche del terzo millennio.
Ma l’alpinismo si evolve rapidamente, e con le difficoltà maturano gusti e i riferimenti della gente. Ne dà atto Adolfo Hess con il suo rocciatore impegnato sulla Rocca Bernauda, ma l’emblema insuperato dell’iconografia alpinistica tra le due guerre è rappresentato da Emilio Comici. Con Comici l’alpinista diventa un personaggio, un attore, un divo, una star, anche se la rappresentazione non corrisponde al carattere introverso, schivo e malinconico di Emilio. Sicuramente l’immagine del regime fascista ha il suo peso in questa trasformazione, elevando a simbolo di virilità e di ardimento i campioni della montagna, ma è anche l’alpinismo che è cambiato, innalzando l’eleganza del gesto individuale e riponendo un po’ in disparte il quadro d’insieme.
Quella operata da Comci, grazie all’intermediazione dei suoi agiografi più fedeli (primo tra tutti Severino Casara, che fu anche regista di montagna), è una vera rivoluzione che promuove l’arrampicatore dal ruolo di comparsa, sempre in fuga dalla società, a quello di protagonista. L’eroe della montagna fa il suo ingresso nell’immaginario collettivo e i giornali, per la prima volta, iniziano a occuparsi seriamente di lui. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza le immagini – forse costruite, ma ancora oggi insuperate – che ritraggono il triestino appeso agli strapiombi della Val Rosandra o delle Dolomiti, impeccabile danzatore del vuoto: «Che una danza fosse l’ascendere di Comici sulla roccia, lo si poteva rilevare osservandolo. Al primo contatto, dalla sua figura traspariva una gioia fisica, quasi un’ebrezza, non disgiunta da un’espressione spirituale che brillava nel suo sguardo. Il suo arrampicamento era un principio di volo, uno slancio verso un moto più eletto, verso qualcosa di aereo, come se il ritmo dei suoi movimenti fosse guidato da un canto muto, interno». Sono le parole di Casara (“L’arte di arrampicare” di Emilio Comici) che non cede all’immagine «pubblicitaria» ma rivaluta l’uomo, dentro al corpo d’atleta: «Toccava egli la roccia con l’animo puro dell’asceta e in ogni prova, anche la più difficile, dalla sua figura mai uscivano espressioni incerte e scattose o violente e brutali, ma erano sempre movimenti ed elevazioni armoniose, leggere, continue, e ritmate dalla serenità dell’animo che riusciva, nei più terribili frangenti, a dominare e a equilibrare nella gusta misura le forze». Questo dicono le fotografie di Comici, testimoniando il sentimento dell’alpinismo eroico.
Sella, Garbari, Rey: una sezione dell’ampia documentazione fotografica custodita dal Museo Nazionale della Montagna e dedicata ai paesaggi alpini. Vi sono rappresentate alcune tra le vedute più classiche, dal Cervino alle Dolomiti di Carezza, dalle Grigne meridionali al Campanile Basso di Brenta. Queste “nature morte” sembrerebbero poca cosa, se si trascurasse un avvertimento fondamentale: ogni montagna non è soltanto diversa da un’altra, ma ogni cima, ogni valle, ogni paesaggio è anche diverso da se stesso, nel senso che viene vissuto (e fotografato) con gli infiniti occhi di chi lo osserva.
Dino Buzzati
Dino Buzzati attribuiva alla montagna due caratteristiche assolutamente peculiari, assenti in ogni altra espressione della natura: l’immobilità e la verticalità. «La “differenza specifica” non può essere la lontananza, e neanche la straordinaria fantasia e varietà delle forme de paesaggi, il trionfo, per così dire del pittoresco; si deve infatti riconoscere che anche il mare, le pianure, le selve possono offrire visioni non meno spettacolose e ispirate. Ugualmente, scartiamo l’oscuro rispetto che ci incutono le cose antichissime. Ugualmente il mistero (non sapendo noi, dal basso, che cosa vi si nasconda). Ugualmente l’estrema purezza incontaminata. Di tali qualità anche i mari e i deserti sono partecipi ricavandone larga parte della loro spirituale bellezza. Quali eccezionali attributi distinguono allora la montagna? Io credo di riconoscerne principalmente due: la ripidezza e la immobilità» (“Le montagne di vetro”, Vivalda 1989). Eppure anche nella loro apparente immobilità, le montagne hanno volti infiniti, perché sono innanzitutto un paesaggio dell’anima.
A pensarci bene esistono migliaia di Cervini e migliaia di Marmolade, tanti quanti sono gli uomini che vi hanno affidato un progetto, un sogno, una o cinquanta estati; quanti sono coloro che, muniti di raffinata sensibilità personale e abituati a rapportarsi con le espressioni della natura, vi hanno vissuto le luci di un’alba o i colori di un tramonto. A pensarci ancora meglio, senza le fantasie e le immagini degli alpinisti le Alpi non esisterebbero affatto, se non come inutili cumuli di sassi e di ghiaccio del tutto simili tra loro. Così le vedono, infatti, i turisti che salgono in auto le vallate o i passi famosi.
Da un punto di vista tecnico, se si esclude il sapiente uso del bianco e nero che, col tempo, è stato quasi del tutto esautorato dal colore, la fotografia di paesaggio è quella che è cambiata di meno. In assenza di punti di riferimento epocali, come gli alpinisti con le loro buffe attrezzature, o i turisti con i loro datatissimi fronzoli esteriori, un Campanile Basso del 1920 non è per nulla diverso da un Campanile del 2000. E anche questo fa pensare, perché invece gli occhi degli alpinisti che si arrampicano sulle sue pareti sono cambiati completamente e la lista delle ascensioni annotate nel libro del rifugio si è moltiplicata in termini esponenziali.
Le vedute panoramiche
Un posto a sé nella fotografia di paesaggio spetta alle vedute panoramiche che, legittimamente, hanno sempre colpito la fantasia dei fotografi. Gli orizzonti che in alta montagna si dispiegano allo sguardo, la successione delle vette che si distendono di fronte all’alpinista da una cima o da un colle, la teoria delle quinte rocciose che si succedono sui diversi piani dell’orizzonte sono altrettante suggestioni che possono essere «catturate» con l’obiettivo. I pionieri – come il Sella o i Bisson – ricorsero spesso alla successione delle immagini che, opportunamente incollate l’una di fianco all’altra, riescono a rappresentare un’intera catena montuosa, con evidenti risultati spettacolari e documentaristici. Fotografi estrosi, come Valbusa, ricorsero all’obiettivo panoramico per immortalare i gruppi dei gitanti, rendendo a dovere l’idea degli ampi spazi in cui si muove la comitiva. Se oggi il grand’angolo fa parte di ogni attrezzatura fotografica, con una diffusa standardizzazione delle immagini, nei decenni passati la foto panoramica è stata una conquista progressiva, che ha permesso agli autori di esprimere sempre più compitamente la grandezza della montagna. Nell’introduzione a “Panorami delle Alpi” di Willi P. Burkhardt, il più affermato specialista contemporaneo di queste rappresentazioni, si legge: «Per l’alpinista, il momento nel quale raggiunge la vetta è la ricompensa suprema ai suoi sforzi, cui si aggiunge il godimento del panorama. Nell’ottica invece di chi non pratica la montagna, lo spettacolo che si scopre dalle cime è, senza alcun dubbio, l’unico criterio per valutare il successo. La visione dell’universo alpino, obiettivo voluto e ricercato dalle due categorie summenzionate, offre a ciascuno l’impressione di volare sul mondo pur conservando il contatto con la terra, e consente di riannodare un rapporto con le potenti forze che furono all’origine dei rilievi montani» (Priuli&Verlucca,1986). «Volare sul mondo pur conservando il contatto con la terra»: è una bella immagine per esprimere le motivazioni della fotografia alpina.
Vita alpina
Meno simboliche, certo più divertenti, sono le fotografie che aprono il capitolo dedicato al turismo e alla «vita alpina». Nella prima pagina fa sfoggio di sé un ritratto che riassume tutta la prosopopea degli alpinisti Fin de siécle, in bella posa davanti al fotografo. Con austera pomposità, i tre personaggi «di ritorno dai ghiacciai» espongono come trofei i panni e i ferri del mestiere. Portano di tutto, dalle racchette da neve ai lunghi bastoni alle smisurate ghette fin sopra al ginocchio. Non manca una divisa militare, alla quale fanno da contraltare – sopra gli abiti borghesi – due gagliarde piume sui cappelli. Se l’alpinismo è stato di fattoil primo approccio turistico alle vallate alpine, i tre alpinisti del 1890 esprimono un atteggiamento quasi programmatico, sottolineando i caratteri di virilità e di grave distacco che diventeranno cliché per i frequentatori della montagna.
Il folto gruppo con signore nei prati di Ceresole Reale riprende il serioso messaggio dell’Alpe, appena addolcito dalle lunghe gonne femminili e dagli immancabili ombrellini buoni per la pioggia e per il sole. Gli uomini, baffuti e barbuti, si dividono tra i fautori del copricapo a larga tesa e i cultori dell’elmetto in stile coloniale. La media montagna estiva, che di per sé è un ambiente dolce e ospitale, veniva presa maledettamente sul serio, per assolvere al ruolo educativo e moralizzatore. Oppure era tutta una finzione scenica?
Adolfo Hess è un personaggio interessante della cultura alpinistica italiana. Ingegnere, arrampicatore, brillante scrittore (è l’autore di “Trent’anni di alpinismo”), si dedicò anche allo studio della psicologia dell’alpinismo, pubblicando una raccolta di saggi sull’argomento. Qui lo ritroviamo in veste di fotografo, a firmare due immagini dal titolo suggestivo: «Il ghiacciaio domato». Vi appaiono scale e ponticelli di legno sui quali due turiste superano indenni i crepacci. Ci si chiede: sarà la fede illuministica dell’ingegner Hess a compiacersi dell’addomesticamento della natura, o sarà il dubbio dello psicologo – sottilmente provocatore – a interrogarsi su questi curiosi interventi dell’uomo? Adolfo Hess è scomparso nel 1951, la domanda è destinata a non avere risposta.
La religiosità popolare ha sempre solleticato l’interesse dei fotografi alpini, che non hanno lesinato primi piani a croci, cappelle e madonnine nelle loro innumerevoli interpretazioni pittoriche. Ma la processione di Fontainemore, in Valle del Lys, esprime tutta la compostezza e la ritualità di un sincero sentimento spirituale, quel sentimento che ha avuto un posto insostituibile nella nostra tradizione montanara. Non c’è assuefazione, non c’è folclore nelle pie donne degli anni Venti che marciano con il velo bianco verso la Madonna di Oropa.
E due donne, due turiste dall’aria gaia e spensierata, concludono la rassegna della vita alpina, ricordandoci il ruolo del gentil sesso. Anche se l’iconografia «ufficiale» relega le signore e le signorine a un ruolo accessorio, di grazioso contorno, non sono mai mancate le gonnelle negli alberghi e sui sentieri delle montagne. Anche se l’alpinismo si è imposto come attività squisitamente maschile, scuola di coraggio e di virilità, sarebbe un errore credere nella totale autonomia dei signori uomini. Sarebbe un’ingenuità accreditata dalla rappresentazione e dall’interpretazione a«sesso» unico, delle apprezzabili facezie di Paul Preuss:«Un destino benigno mi ha concesso di stringere stretti rapporti – per mezzo della corda, s’intende – con diciassette giovani donne. Cercherò di narrare le gioie e i dolori di queste esperienze, a rischio di perdere il favore di qualche bionda, castana o bruna bellezza. Le difficoltà più grandi cominciano a valle. Per convincere le madri, eternamente preoccupate per l’incolumità e la moralità delle figlie, bisogna sfoggiare mille arti diplomatiche e fare uso di tutta la propria forza di persuasione (…) Una volta spianata la strada delle difficoltà teoriche, si passa a quelle pratiche: controllare che le pedule non siano troppo consumate, che i calzini non si strappino, che gli scarponi chiodati non siano troppo grandi, o lo zaino troppo piccolo. Bisogna poi verificare di non aver dimenticato nulla: la cipria, la crema di bellezza, la pomata per le labbra, l’acqua di colonia, l’olio di rose e il necessario per la manicure (…) La mancanza di senso di orientamento nella maggior parte delle donne è talmente incredibile che qualche volta riescono persino a trasmetterla a chi le accompagna. Per smarrire la strada che porta al rifugio basta che una donna guidi la comitiva per cinque minuti. Colpiti dal suo sguardo penetra nte, i segnali vanno a nascondersi dietro la corteccia dei tronchi e perfino i pali del telefono scompaiono nel terreno. Di solito, quando si sale al rifugio, l’uomo deve accollarsi tutti i bagagli della compagna e inerpicarsi rassegnato sul ripido sentiero pietroso ansimando sotto il pesantissimo carico. E proprio quando il fiato gli viene quasi a mancare si sente domandare all’improvviso: «Ehi, Paul come mai oggi sei così laconico?» (“Deutsche Alpenzeitung, XII/1, 1912). La verità? C’è sempre stata una donna dietro ogni alpinista, in ogni epoca e in ogni vallata.
Foto d’autore
Chiude la rassegan di questo cahier una sezione dedicata alle foto d’autore. Le prime due immagini sono ambientate sulle Alpi, con un’elegante veduta dell’Aiguille Noire de Peutérey e un affascinante ritratto di guide nella tormenta delle Grandes Murailles. La foto, scattata da Guido Monzino negli anni Cinquanta, ci proietta nella maturità dell’alpinismo: I primi duvet in piuma d’oca collocano i protagonisti negli anni fecondi del secondo dopoguerra, quando le ultime pareti delle Alpi attendevano ancora i loro salitori e le grandi imprese invernali custodivano la sfida dell’alpinismo classico.
Non è un caso che la rassegna si fermi lì anche se forse ci si sarebbe potuti spingere fino agli anni Sessanta e Settanta, l’epoca di Bonatti, Bonington e Desmaison. Per l’esattezza, ci si sarebbe potuti spingere fino a Reinhold Messner, il ragazzo ancora imberbe che nei dintorni del Sessantotto stupì il mondo con le sue stupefacenti imprese sulle Alpi. Dopo Messner, anzi con Messner, il gioco è completamente cambiato, e con esso la fotografia che del gioco è stata sempre la più fedele testimone. Il mercato, la moda, l’industria., la società del consumo, che avevano sempre guardato alla montagna con sufficienza e un pizzico di compatimento, hanno aperto le braccia all’alpinismo, facendone uno strumento di immagine e di commercio. Per la prima volta nella storia, i fotografi si sono trovati a prestare le loro prestazioni – retribuite anche profumatamente –a un committente esterno al cenacolo specialistico, adattando lo stile e i soggetti delle immagini alle più ampie esigenze del mercato. Questa rivoluzione ha trasformato radicalmente i risultati del loro lavoro, sempre più perfetti nella tecnica e sempre più asettici nell’anima, e ne ha rovesciato le motivazioni. Eppure, dietro le lucide patinate e i tagli spettacolari, sopravvive l’opera misconosciuta degli alpinisti dilettanti, che propongono tenacemente le modeste (ma autentiche) diapositive delle loro ascensioni.
Sopravvive il rapporto confidenziale tra uomo e obiettivo, a memoria di una intramontabile passione. In questo ambito andrebbe cercato il legame con le fotografie del passato, anche se ciò che ieri era – a suo modo – avanguardia, oggi è diventato –suo malgrado – un sentimento molto vicino alla nostalgia.