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Le cime. Pietra e neve


Gran Paradiso, 4061 metri

La cima principale del gruppo, che porta anche il nome più impegnativo, è piuttosto accessibile da Pont Valsavarenche e piuttosto scomoda dagli altri versanti: da Cogne, attraverso il nodo glaciale della Tribolazione, e dalla Valle dell’Orco, lungo l’interminabile vallone di Noaschetta. La prima salita è stata realizzata appunto sul lato valdostano di Pont, il 4 settembre 1860, dagli inglesi John Jeremy Cowell e W. Dundas con le guide di Chamonix Michel Payot e Jean Tairraz, lungo l’attuale via normale del ghiacciaio e della schiena d’asino. In assenza di ramponi, i pionieri dovettero tagliare oltre mille gradini nel ghiaccio vivo; la salita durò nove ore. Il 4 luglio 1954, in occasione dell’Anno Mariano, fu trasportata sulla cima del Gran Paradiso la statua della Madonna. Il modello della vergine bianca in atto di preghiera si ispira alla Madonna di Lourdes.
Dopo la prima ascensione inglese, per lungo tempo la montagna è stata visitata da pochi alpinisti e trascurata dai valligiani. Di questo si rammaricava il prete-alpinista valdostano Joseph-Marie Henry, desideroso di far conoscere al mondo intero «quali emozioni profonde, soavi e grandiose doni l’alta montagna» e quanto sia facile la salita al Gran Paradiso. A scopo promozionale l’abbé Henry decise di provare a portare un asino sulla vetta, affermando che «se gli asini vanno sul Gran Paradiso, a maggior ragione le persone…». Fu così che il 3 luglio 1931 l’asino Cagliostro salì la via normale munito di cinque “chiodi per ferro”, specie di ramponi applicati agli zoccoli dell’animale, e guidato con due corde di canapa dall’abbé stesso e dall’amico Dayné. L’animale raggiunse senza fatica la crepaccia terminale, la superò e si fermò sulla cresta sotto la cima: «Dopo qualche minuto – scrive l’abbé – alzando la testa Cagliostro guardò, da sopra la cresta, lo spaventoso abisso che si apre sul versante di Cogne. Poi pieno di gioia e di legittimo orgoglio, lanciò un formidabile jodel che fece tremare dalle fondamenta i massi sconnessi e ammonticchiati della cima». L’asino alpinista rientrò a valle con qualche scivolone e fu un gran lancio per la montagna, che oggi è uno dei quattromila più frequentati delle Alpi, ed è anche un’apprezzata meta sci alpinistica primaverile. Da aprile a settembre bisogna prenotare con molto anticipo per assicurarsi una cuccetta e un pasto caldo al rifugio Vittorio Emanuele II o al rifugio Federico Chabod, i due punti di appoggio valdostani per l’escursione al Gran Paradiso, che comunque richiede corda, piccozza, ramponi e conoscenze alpinistiche.

Grivola, 3969 metri

Per Piero Giacosa la Grivola è la montagna dalle tre facce. «Vista da nord – scrive– merita il nome di Belle face. La faccia della Grivola che dà su Valsavarenche si chiama Bocconere, dal nome di una forra scura, ma il tratto orientale dove l’alternarsi delle fasce bianche e nere è più deciso è designato anche con il nome Rayes Noires. Il picco vero della Grivola è indicato sulle carte sotto il nome di Picco di Nomenon, il che è giustificato dal fatto che la parete nord (la faccia più bella) chiude il vallone di Nomenon».
Insomma non c’è mai stata sintonia sul nome. Secondo qualcuno Grivola deriverebbe dal patois griva, tordo, un nome di ancor più difficile interpretazione, oppure da grivoler, chiazzare, in virtù della roccia macchiettata e striata. Data la confusione, è lecito optare per l’ipotesi dell’abbé Henry: la grivoline è una bella ragazza. Così “l’ardua Grivola bella” del Carducci sarebbe la nostra Jungfrau, anche se purtroppo, a causa del riscaldamento globale e della fusione dei ghiacciai, le resta poco della regale giovinezza e la bellezza è sempre più destinata a oscillare con le stagioni: gelida in inverno, stupenda e bianca in primavera, spoglia e triste tra l’estate e l’autunno, nell’attesa che la neve corregga le imperfezioni.
Il versante più accessibile è quello sud orientale, dove la roccia è pessima. Fedele A. Dayné, intraprendente guardiacaccia di Valsavarenche, guidò i britannici Ormsby e Bruce in vetta il 23 agosto 1859. Solo Dayné raggiunse la punta massima, issandovi una bandiera; gli altri membri della spedizione si fermarono poco sotto. Incredibilmente la prima ascensione venne attribuita a Mr. Wethered, in quanto “alpinista”, anche se Wethered salì solo nel 1876, ben diciassette anni dopo Dayné, con le guide Proment e Blanc. Passarono decenni prima che al valligiano venisse riconosciuto il sacrosanto primato.

Courmaon, 3162 metri

Non è una delle cime più importanti del parco, ma sicuramente è una delle più belle. Salendo la Valle dell’Orco, non si può restare indifferenti al fendente di gneiss che punta il fondovalle come la prua di un veliero. Non c’è linea più elegante del vascello che taglia il cielo del Colle Sià, a perpendicolo sopra il lago e la conca di Ceresole Reale. Se fosse stato sul Monte Bianco sarebbe già stato corteggiato e scalato negli anni Trenta del Novecento, ma nel defilato Canavese i tempi dell’alpinismo erano in ritardo.
Giusto Gervasutti salì a metà giugno del 1942 con Ettore Giraudo. I larici del bosco avevano messo il verde tenero della bella stagione, i rododendri arrossavano la pietraia e più in alto si spalancava l’anfiteatro del Ciarforon e della Becca di Monciar, tremilacinquecento metri di bianco. Gervasutti e Giraudo salirono leggeri sulla mulattiera di caccia. In alto a sinistra lo spigolo giallo del Courmaon si accendeva. Gervasutti guardò su: ci sarà una via su quel fiammifero? La via c’è sempre, pensò il friulano, bisogna soltanto leggere la montagna. Infatti la luce disegnò dei diedri fessurati sul triangolo isoscele e a destra del bordo intravidero la strada per la cima. Era la via giusta.
Dopo la prima ascensione del grande alpinista, le pareti e gli spigoli del Courmaon sono stati esplorati da altri scalatori piemontesi e ancora oggi ci sale qualcuno, anche qualche giovane, ma per lanciarsi nell’avventura bisogna amare ogni ambiente dell’alta montagna, non solo la parte più vertiginosa, perché prima delle rocce la marcia è lunga, faticosa e bellissima.

Becco Meridionale della Tribolazione, 3360 metri

Certo il Vallone di Piantonetto, selvaggio solco laterale della Valle dell’Orco sbarrato in quota dalla ciclopica diga del Teleccio, offrì ben poche consolazioni a chi cercava di strapparci un campo di patate e qualche cereale. Eppure fu a lungo conteso tra i montanari e il parco nazionale, rappresentando una ferita aperta nei confini e un corridoio letale per gli animali vittime del bracconaggio. Oggi è tutelato come il resto dell’area protetta.
La testata di Piantonetto è dominata a destra dal Becco di Valsoera e a sinistra dai Becchi della Tribolazione, tre prue di gneiss appese al cielo. La guglia più bella è il Becco Meridionale, che a vederlo dal rifugio Pontese prende le forme di un triangolo magnetico. Al centro l’architetto ha disegnato uno sperone più scuro, quasi rosso, dove nel 1951 Arnaldo Garzini e Pietro Malvassora aprirono una via verticale su roccia solidissima: quarto grado, un must. A sinistra della Malvassora c’è un muro apparentemente in scalabile, solcato da fessure californiane che non potevano passare inosservate agli arrampicatori dai capelli lunghi: ed ecco che nel 1968 il ribelle Gian Carlo Grassi e Alberto Re salirono lo scudo colorato, dimostrando che i tempi erano cambiati. Il grande alpinista biellese Guido Machetto aveva già scalato con i chiodi e le scalette lo scudo strapiombante a destra della Malvassora.
Nel 1952 due improvvidi scalatori affrontarono lo spigolo della Punta Pergameni, una delle guglie che segnano la cresta della Tribolazione. Il più giovane cadde, batté il capo e restò a terra. Il compagno riuscì a correre a valle, ma non trovò i soccorritori. Scese la notte e la mattina all’alba partirono le guardie del Gran Paradiso, che chiamavano gli stambecchi per nome ma non s’intendevano di corde e arrampicate. Furono coraggiose e fortunate: raggiunsero il giovane e lo calarono fino al sentiero e alla salvezza.

Ciarforon, 3642 metri

Il Ciarforon è unico nel gruppo del Gran Paradiso, ma lo si potrebbe definire tale su tutto l’arco alpino. Immaginate una mammella di roccia non particolarmente attraente e niente affatto slanciata, su cui venga colato un velo di zucchero bianchissimo, trasformandola in una meringa di glassa. Così si presentava il Ciarforon fino a pochi anni fa, soprattutto a chi arrivava con l’auto a Pont Valsavarenche, in cima alla valle: era inevitabile che, prima ancora di perdersi sugli scivoli gelati del Gran Paradiso, sua maestà il quattromila, l’occhio notasse quella forma così singolare, quasi irresistibile allo sguardo, che ricordava più una montagna andina che un monte di queste parti.
Sulla bianca parete nord correva una delle vie di ghiaccio più classiche e apprezzate del massiccio; proprio a due terzi della parete stava appeso un grande seracco, come un tocco di glassa sfuggito alla forza di gravità, e chi scalava il candido muro si doveva guardare da quella presenza inquietante finché non lo eguagliava in altezza, quando il seracco incombente tornava a essere un meraviglioso dolce di zucchero.
Oggi il seracco non c’è più, spazzato via dal riscaldamento climatico, ma quel che è peggio sta sparendo anche la parete, che non è più uno scivolo di ghiaccio ma piuttosto un versante di ghiaia rappresa dal gelo, quando gela, o un dirupo tempestato dalle frane. Il Ciarforon torna raramente a essere la meraviglia che era, di solito alla fine della primavera.

Punta Pousset, 3046 metri

Poiché il Cervino è la montagna simbolo, forma alpina per eccellenza, spesso facciamo a gara nel cercarne di uguali, o almeno simili. Per esempio il Cimon de la Pala è il Cervino delle Dolomiti, il K2 è il Cervino dell’Himalaya, eccetera. Il gioco è sinceramente un po’ conformista e monotono, ma trova la sua ragion d’essere nell’esaltare l’estetica di una cima. Così non si può negare che la Grivola, seconda vetta del Gran Paradiso, nutra delle somiglianze con la Gran Becca della Valtournenche, ma è forse più originale confrontarsi con un piccolo Cervino, la Punta Pousset, che domina Cogne con slancio autorevole. Il Pousset non è né troppo alto né troppo difficile, ma sé è vero che il senso delle cose sta nell’“anima”, si può dire che l’aguzza sentinella di Cogne abbia tutti gli attributi per essere amata, corteggiata e salita, e anche senza troppo sforzo, su un percorso poco più che escursionistico. Il Pousset è attraente dal basso e il panorama è splendido dalla cima.

Herbetet, 3778

È una cima importante, una delle più prestigiose del massiccio, ma si perde un po’ nella lunghissima cresta che lo collega al Piccolo e al Gran Paradiso, passando per molte vette minori. Un po’ anonimo e sfasciato a nord, dove sale la via normale, l’Herbetet gode di notevole personalità sul versante sud, dove presenta una cresta a gendarmi molto quotata tra le scalate classiche, con passaggi impegnativi, solido gneiss e passaggi e scorci che ricordano il granito del Monte Bianco. Il versante nord-ovest precipita a picco per quasi cinquecento metri sul ghiacciaio del Grande Neyron, il versante sud ovest scende sul ghiacciaio di Montandayné. Più in basso, ma sul lato della Valnontey, si trova un magnifico alpeggio che porta il suo nome ed ospita i casolari dell’Herbetet. Era uno dei posti favoriti da Renzo Videsott.

Gran San Pietro, 3692 metri

Con la Torre di Sant’Andrea e la Torre di Sant’Orso, la Torre del Gran San Pietro fa parte del fantastico gruppo degli Apostoli, un appartato e severo microcosmo glaciale, con torri rocciose, sospeso tra la Valnontey, la Valeille e la testata di Piantonetto sul lato piemontese. La cima non è distinguibile dall’abitato di Cogne e dalla bassa Valnontey, perché nascosta dalle ripide balze del Money, però è ben visibile durante la salita ai casolari dell’Herbetet, da dove si può ammirarla in tutta la sua bellezza. A sud, verso il lago del Teleccio, la Torre presenta un’imponente parete di gneiss, a tratti strapiombante, sulla quale si sono misurati i migliori arrampicatori degli ultimi tre o quattro decenni. A nord, invece, ha sembianze più eleganti e classiche, addolcite dalla neve e dal ghiaccio (in ritiro).

Roccia Viva, 3650 metri

Il nome è bellissimo e la montagna anche, una delle più attraenti del massiccio. Anche se non si avvicina ai quattromila metri d’altezza, ha le caratteristiche delle cime alte e importanti. La Roccia Viva domina la testata della Valnontey, laterale di Cogne, con un elegante scivolo di ghiaccio caratterizzato da un bel seracco, che si è molto ridotto negli ultimi tempi. In passato esisteva un piccolo lago sulla cima, che come tutti gli elementi legati all’evoluzione del ghiaccio è stato sconvolto dal riscaldamento climatico. Resta il fatto che per avvicinarsi alla Roccia Viva e alle cime vicine, per esempio la Becca di Gay, bisogna affrontare ancora oggi un avvicinamento quasi himalayano, che le rende selvagge e isolate. Niente a che vedere con l’alpinismo facilitato dai trenini, stile svizzero, o dalle funivie stile Monte Bianco. Qui l’avventura è assicurata, in sintonia con lo spirito del parco nazionale.

Torre di Lavina, 3308 metri

Nel Gran Paradiso c’è una valle speciale: la Val Soana; in Val Soana c’è un posto più speciale: il Vallone di Forzo. Immaginate di entrare in un corridoio di prati e foreste tra la muraglia granitica dell’Anciesieu, che non sfigurerebbe nel Parco di Yosemite, e l’altra sponda che si arrampica dai mille ai tremila metri. Questo è Forzo, che dopo la stretta si apre ai pascoli del Colle di Bardoney, la porta per la Valle di Cogne, e all’elegante sagoma della Torre di Lavina.
Forzo è il luogo delle acque cristalline: ne scendono un po’ dappertutto, sotto forma di torrenti e cascate. Ma anche dalla parte di Cogne ne è passata di acqua limpida sotto i ponti, da quando l’indomito parroco Balthazar Chamonin esortava i compaesani a esplorare le montagne di casa e, da alpinista praticante, sosteneva che “chi va a Cogne va in montagna”. Ne è passata da quel 1856 in cui gli abati Chamonin e Chanoux salirono la Torre di Lavina, un castello di gneiss un po’ tozzo sul versante valdostano, una vela di pietra sul lato di Forzo.