Quaderni di Alp
“Videsott non aveva ambizioni sportive come sono intese comunemente. Negli anni aveva realizzato diverse vie nuove senza far mai alcuna relazione. Anzi egli aveva cercato di convincermi che certe esperienze in montagna sono troppo intime per dividerle con altri e specie con estranei. Così in realtà egli arrampicava per crearsi un patrimonio di esperienze soprattutto in senso di vita vissuta al limite delle proprie possibilità. Erano le sue ricchezze interiori”.
Sono parole di Domenico Rudatis, l’ideologo dell’alpinismo dolomitico del sesto grado, il teoreta dell’arrampicata sospesa tra etica ed estetica negli anni ambigui ma intensi del primo dopoguerra. Rudatis attinge dal giovane arrampicatore trentino Renzo Videsott il sostentamento tecnico per realizzare imprese come lo spigolo sud ovest della Busazza e la conferma empirica – una sorta di incarnazione – delle sue teorie visionarie sull’alpinismo:
“Durante la colazione Videsott mi disse: “Ho sognato molto chiaramente, stanotte, un grande camino, ma non ho ben capito dove si trova”. Io non ero meravigliato per niente. Sapevo che lo spigolo della Busazza era già parte dei suoi pensieri e dei suoi desideri. Era quindi come sognare un’amante… Era il suo stile personale, indipendente, caratteristico: aspettare la chiamata della montagna. Nessuna esplorazione prestabilita. Nessuna spedizione pianificata. L’unico piano d’azione era aprire la nostra anima alla gioia e al mistero della montagna”.
Videsott è fatto così: un arrampicatore geniale e istintivo. Nato a Trento nel 1904, entra giovanissimo nel gruppo dei migliori: Graffer, Prati, Miori. Accompagna fraternamente Giorgio Graffer nei primi passi sulla roccia e ne segue l’ascesa folgorante fino alla morte prematura nei cieli dell’Albania. Con Prati e Miori, oltre alla montagna, divide gli anni dell’Università a Torino, dove si laurea in Veterinaria nel 1928. Scrive Massimo Mila:
“Molti ricordano quel simpatico gruppo di “dolomitici” – Prati, Videsott, Miori, Ortelli – che sotto i portici di Piazza Carlo Felice, davanti alla Casa del Caffè, tutti i giorni dall’una alle due iniziavano i rustici alpinisti torinesi ai dolci segreti del canto corale “alla trentina”, poi la domenica andavano in Valle Stretta a cercarsi un fac-simile, riveduto e peggiorato in quanto a qualità della roccia, delle loro montagne”.
Proprio a cavallo della laurea, durante le estati sui monti di casa, Videsott mette insieme una bella lista di prime ascensioni nei gruppi del Brenta e della Civetta: parete sud ovest della Cima Margherita (1926), diretta alla parete sud del Campanile Alto (1927), spigolo nord est del Pan di Zucchero (1928), spigolo nord ovest della Torre di Babele (1929). E poi, sempre nel 1929, l’interminabile cresta nord della Punta Civetta e lo spigolo sud ovest della Busazza, il suo capolavoro.
Videsott ha appena venticinque anni quando si affaccia alla ribalta internazionale. C’è chi sostiene che lo spigolo della Busazza sia addirittura più difficile della via di Solleder e Lettenbauer sulla parete della Civetta, il leggendario sesto grado delle Dolomiti. Come dire che gli italiani hanno eguagliato i tedeschi e che il piccolo Renzo ha già toccato i vertici dell’alpinismo europeo. Lo aspettano altre sfide, gli onori accademici, le lusinghe del successo. E invece, con una decisione istintiva e misteriosa, Videsott volta le spalle all’alpinismo. Proprio quando la fama sta per cambiare la sua vita, lui preferisce rimettersi in gioco.
Segue un decennio di transizione, una specie di “terra di mezzo” poco visitata dai biografi, dieci anni nei quali Videsott matura una nuova fede e un diverso destino. Di certo punta la rotta verso Torino, dove nel 1938 consegue la libera docenza e nel 1943 diventa professore alla facoltà di Medicina Veterinaria. Nello stesso anno, e poi durante i mesi della Resistenza, inizia ad occuparsi clandestinamente della riorganizzazione del Parco nazionale del Gran Paradiso, dove lo stambecco rischia l’estinzione. Lui cacciatore convinto, “sterminatore di camosci e di selvaggina di alta montagna” come ebbe a scrivere di sé, passa dalla parte degli animali.
La conversione sarebbe scaturita dallo sguardo di un camoscio ferito dopo tre giorni di inseguimento in una valle dell’Alto Adige: negli occhi dell’animale morente Videsott avrebbe colto la violenza e la vanità del proprio gesto prevaricatore. Ancora una volta, più che il ragionamento, è l’istinto a condurlo verso la protezione dell’ambiente. Scriverà: “Così come mi ero impegnato sulle vie nuove nelle Dolomiti, mi sono impegnato a fondo poi per la specie stambecco e per l’istituzione del parco”.
In realtà, il Gran Paradiso, più che istituito va rifondato. Il parco ha superato i vent’anni di vita, ma naviga in pessime acque da che, nel 1934, la Commissione Reale è stata sostituita dalla Milizia Forestale. Le scelte miopi e accentratrici della burocrazia romana lo hanno portato sull’orlo del collasso. Scrive Videsott a guerra finita:
“Consideriamo con calma il barometro ufficiale, la cui colonnina di mercurio va dall’occhio dei militi forestali fino al tavolo degli uffici ministeriali in Roma: segna una disperante diminuzione di stambecchi, ossia proprio viceversa di quanto segnava prima lo stesso barometro nell’atmosfera creata sul parco dalla ora defenestrata Commissione Reale, la quale dal 1922 al 1934 fece aumentare il numero degli stambecchi di ben 1.495 capi… Nel 1944 gli stambecchi sono ancora 1.197 e nel 1945 la caduta è arrestata al numero quasi certamente mai riscontrato nei tempi di 419 stambecchi! Questo disastroso crollo biologico è solo un indice che addita una disastrosa devastazione in tutta la vita del parco: case, strade, fauna, flora, studi, moralità. Colpa della guerra, sarebbe comodo strillare per coloro che temono le responsabilità… In campo tecnico si sono cacciati i non tecnici, la più sporca politica e la più idiota centralizzazione in Roma: ecco tutto!”.
Quando si lascia andare a questo grido di dolore, Videsott è appena stato nominato commissario straordinario del Parco su proposta del CLN di Torino e sta lavorando di gran lena per mettere in piedi un servizio di sorveglianza nelle valli del Gran Paradiso. È iniziata la sua seconda vita “eroica”, come notano affettuosamente gli amici e in particolare Raffaello Prati:
“Divenne un fanatico, intrepido, che a Roma, negli esasperanti incontri con funzionari talora indifferenti, in altre faccende affaccendati, ignari dei problemi del Parco ai confini d’Italia, riusciva a ottenere i suoi intenti con l’appassionante buona fede e l’eloquenza dei suoi interventi. Per un quarto di secolo, ora per il Parco, ora per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, per le leggi di caccia o dell’uccellagione, vidi Videsott arrivare o partire, organizzare i suoi appuntamenti…; sempre con quella ponderosa cartella tornava da Roma a Torino con qualche cosa nelle sue reti come si esprimeva scherzando”.
Il fatto singolare, e per molti versi straordinario, è che l’Italia si è appena liberata da una lunga dittatura ed è uscita con le ossa rotte da cinque anni di guerra. La protezione della natura, come si diceva allora, è certamente in fondo alla lista dei problemi che incombono sul dopo Liberazione. Eppure Videsott e pochi altri intellettuali profetici intuiscono che la rinascita di un paese civile non può prescindere da un corretto rapporto con l’ambiente, devastato dall’incuria della politica e dalle ferite della guerra.
Il 25 giugno 1948, con l’appoggio del conte Gian Giacomo Gallarati Scotti di Milano, Videsott fonda al Castello di Sarre il Movimento italiano per la Protezione della Natura, la prima associazione protezionistica del dopoguerra e, di fatto, il primo movimento ambientalista italiano. “Il fervore dei pochi” lo definirà Franco Pedrotti. La lettera di invito ha il linguaggio e i sentimenti dei pionieri:
“L’idea di radunare alcuni fra i rari e sparsi uomini, che sono valorose e appassionate forze nel campo della protezione della natura, mi è nata dopo aver visto e constatato come all’estero, in questo campo, si sia tanto lavorato e raccolto, e come troppo poco sia stato fatto in Italia… (Ma anche) in Italia, se viene arato e seminato nell’incolto campo, si può praticamente apportare una lenta, progressiva rieducazione naturalistica. C’è di più, e va più in là dell’Italia: c’è da render cosciente, nel campo sociale, un vivificato amore alla natura quale mezzo di una lontana evoluzione spirituale ed artistica, e di un ancor più lontano affratellamento fra gruppi di popoli. Perciò anche questo può scivolare degnamente sul piano concreto, operante nel Federalismo europeo. È una visione che va al di là di ogni confine politico, tanto più va al di là delle mie forze e della mia vita”.
Nello stesso anno Videsott diventa direttore del Parco del Gran Paradiso e si trova di fronte a un compito immane: ricostituire l’organico dei guardiaparco, restaurare e costruire la rete dei sentieri e dei casotti di sorveglianza, ridefinire i confini che corrono sulle valli a mezzacosta, a beneficio delle speculazioni e del bracconaggio. È uno snervante lavoro di mediazione tra la burocrazia romana e gli interessi delle popolazioni locali, tra le ragioni della scienza e quelle della politica, tra una nuova visione dell’ambiente a beneficio di tutti e il pregiudizio di chi è abituato a pensare da padrone in casa propria:
“Già ecologo maturo quando in Italia di ecologia non parlava nessuno – ricorda Alfredo Todisco nel 1985 –, Videsott mi insegnò a guardare alla natura come a un complesso in cui tutto si tiene. Era un pensiero rivoluzionario rispetto a quello corrente, influenzato da una cultura scientifica che invece di considerare il mondo come un insieme, come un tutto, perseguiva il dominio dividendo e smembrando. Ancora oggi noi viviamo il dramma del sapere separato”.
A Videsott, personaggio dagli ideali assoluti e dalle passioni senza ombre, è stato paradossalmente affidato un ruolo di cerniera perché incarnava in sé molte figure: uomo di montagna, uomo di scienza, accademico “anti accademia”, pensatore e militante. Questo ruolo gli ha permesso di seminare un moderno concetto di ecologia (1951: “Le libertà democratiche ed economiche possono sussistere soltanto se è diffusa un’adeguata coscienza del limite delle libertà stesse”), di impostare una politica italiana dei parchi, di risollevare le sorti del Gran Paradiso e salvare lo stambecco dalla minaccia di estinzione, ma non gli è valso mai consenso e popolarità. Erano tempi prematuri per il dialogo. Il concetto del limite suonava come un grido nel deserto. Come nota ancora Todisco – la cultura italiana, “fortemente segnata dallo storicismo da una parte e dal mito dello sviluppo tecnologico e industriale dall’altra, era portata a considerare la natura come “colonia”, terra di conquista”. I Sessanta sono gli anni delle peggiori speculazioni turistiche sull’arco alpino. La civiltà contadina, in piena crisi di identità, è confusa dalle lusinghe di uno sviluppo cannibale.
Così Videsott diventa un uomo braccato. Le popolazioni locali lo individuano come un nemico dei montanari e lui risponde pane al pane, nel suo stile:
“Per salvare gli animali dallo sterminio non occorre difenderli dall’aquila, dall’avvoltoio, dalla valanga, dalla fame: basta proteggerli dall’uomo”.
L’11 dicembre 1968 i consiglieri valdostani del Parco chiedono la sua testa, accusandolo di condotta antivalligiana, di metodi antidemocratici e addirittura di incompetenza scientifica. L’anno seguente il Presidente Oberto lo convince a rassegnare le dimissioni.
Pubblicazione