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Le parole dell’alpinismo

Il 24 aprile 1336 Francesco Petrarca decide di salire il Mont Ventoux che domina la Provenza. La sua “Lettera del Ventoso” può essere considerata il primo racconto di ascensione, anche se il poeta non ha alcuna velleità alpinistica e il Ventoux è già stato probabilmente salito anni prima dal filosofo Giovanni Buridano. Quello di Petrarca è un viaggio interiore, che interpreta la montagna come luogo di meditazione e non come terreno di affermazione. Non a caso, in vetta, il poeta si sofferma sulle parole di Agostino: «“E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi corsi dei fiumi e l’immensità dell’oceano e le rivoluzioni degli astri, ma trascurano sé stessi”. Stupii, lo confesso; e richiusi il libro irato con me stesso per l’ammirazione che tuttora dimostravo per le cose terrene».

Per Petrarca la montagna non è nulla in quanto tale, se non una porta socchiusa sul sublime, ed è anche meno per i teologi di scuola protestante che nei secoli successivi vi collocano addirittura il lascito del diluvio universale. Scrive Gilbert Burnet tra il 1685 e il 1686: «(queste montagne) non possono essere il prodotto originario dell’Autore della Natura, non sono altro che rovine del primo mondo… A che cosa servono in fondo le montagne? Se si potessero sopprimere, che cosa mai perderebbe la natura se non un peso che grava inutilmente sulla Terra?» (Burnet’s travels, Londra 1738).

Tutto cambia nel Settecento, quando lo spirito illuminista supera i vecchi tabù delle cime e spinge cartografi, fisici, geologi e botanici sui ghiacciai e sui colli. È la prima scoperta. Ma perché le Alpi diventino qualcosa di più di un oscuro oggetto di studio da “maneggiare” con cautela serve un salto quasi acrobatico. Ci vogliono gli occhi inquieti dei viaggiatori e degli scrittori romantici, attraverso i quali la percezione estetica evolve dal “pittoresco” al “sublime”; dalla bellezza classica regolata dall’ordine e dall’armonia, si passa a una nuova forma di attrazione, non più intrinseca nell’oggetto ma affidata agli occhi dell’osservatore. Così anche il disordine acquista dignità e l’orrido diventa “bello”. La nuova soggettività trasforma l’approccio al paesaggio, alla natura e al viaggio. Gli inutili monti dei montanari acquisiscono il fascino delle terre ignote. Nascono l’alpinismo e il récit d’ascension, il “racconto di scalata”, un genere che per lungo tempo troverà ispirazione e stigma nella descrizione idealizzata delle cime, di solito contrapposte all’impurità della pianura:

«Diedi ancora uno sguardo all’infinita natura purissima e ridiscesi anch’io nell’infinita e pietosa miseria umana» scrive Ugo De Amicis, figlio di Edmondo e discepolo di Guido Rey, dopo una notte in alta montagna. «Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel recinto sociale… Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte, alle stelle e agli elementi» annota Giusto Gervasutti prima di lanciarsi in un’avventura invernale sul Cervino.

Lo stile del racconto alpinistico, quasi sempre di taglio autobiografico, segue un modello; una specie di regola. Ogni conquista è la sublimazione di un sogno e non c’è pace sulla vetta perché il traguardo è sempre provvisorio: quando la raggiungo mi tocca cercarne subito un’altra. L’alpinista romantico trova conforto innanzitutto nella sfida, come confessa lo stesso Gervasutti dopo la scalata della parete est delle Grandes Jorasses: «Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà».

La fedeltà al modulo romantico si spiega con la natura stessa della scalata. Non c’è niente di necessario nella pratica dell’alpinismo, tutto è gratuito, inutile, “insensato”, come titola il notevole libro di Lionel Terray Les conquerants de l’inutile, “I conquistatori dell’inutile”. Ma c’è di più. In alpinismo il racconto è quasi una conseguenza necessaria della scalata, la sola possibilità di dare spessore al gesto, all’azione e al rischio. Il racconto è l’unica cosa che resta, di un passaggio in parete e del superamento di una cresta. La scrittura appare come lo sforzo ininterrotto di liberare la scalata dalla forza di gravità, eliminare la fatica di salire e la paura di cadere, dare un senso a ciò che non ne ha. Penna e piccozza non sono un binomio retorico, ma le due facce della stessa medaglia, i due termini con cui le montagne prendono spessore e memoria nello sguardo, nell’esperienza e nella rielaborazione intellettuale dello scalatore.

Naturalmente al sentimento si affianca l’azione, che fa del racconto di ascensione una sottospecie di quello di avventura, anche se più che al grande pubblico è piuttosto rivolto agli altri alpinisti, i “compagni di cordata”, con ampio uso di termini iniziatici. L’obiettivo primario non è il raggiungimento di un particolare respiro letterario, bensì la comprensione e il coinvolgimento degli altri alpinisti. E, non di rado, l’autocelebrazione. La letteratura di genere segue l’evoluzione dei tempi, con l’inserimento quasi obbligatorio di annotazione scientifiche nei primi decenni della storia, note che scemano dopo la scalata del Cervino del 1865 lasciando il posto a un variare più libero del dettaglio atletico e tecnico. Nella fase pionieristica più “matura” emergono con forza le qualità narrative degli alpinisti britannici, in particolare Edward Whymper e Albert Frederick Mummery, che ignorando i barometri e gli alibi scientifici, ben attenti ai personaggi e ai fatti, ci consegnano due autobiografie alpinistiche memorabili.

Almeno fino all’alba del Novecento trova ampio spazio la relazione tra gli alpinisti di città (gli autori dei libri) e le guide valligiane; in seguito, alpinisti e guide si emancipano e i ruoli si confondono. I montanari comunque scrivono pochissimo, salvo rare eccezioni: Tita Piaz nelle Dolomiti, Christian Klucker in Engadina, Mattias Zurbriggen ai piedi del Monte Rosa. Sono tutte guide di valle e le loro autobiografie risultano interessanti perché trattano anche le faccende di paese, ma nelle descrizioni delle scalate non si discostano particolarmente dalle altre autobiografie. Con la Grande Guerra, al timbro romantico dei primi tempi – mai del tutto accantonato – si sovrappone il marchio del bellicismo e del fascismo, che genera uno stile dai toni sempre più ridondanti e retorici, piegando la narrazione. È come se gli alpinisti del Ventennio – i Comici, per citare un emblema – si sentano costretti a nascondere i dubbi e le emozioni dietro la maschera eroica dell’uomo verticale. La letteratura alpinistica sfiora il fondo dell’originalità con le spedizioni nazionali himalayane nel secondo dopoguerra, quando lo spirito sciovinista soffoca la qualità letteraria. Ma anche in questo caso c’è almeno un’eccezione – il libro sull’Annapurna di Maurice Herzog – che nonostante le ombre che accompagnano la spedizione francese al primo ottomila, resta un racconto vivissimo e riuscito. La Francia non ha troppo subito il conformismo coatto dei regimi, e proprio in Francia emergono negli anni Sessanta i migliori scrittori di alpinismo: il citato Terray, Gaston Rébuffat e poi René Desmaison. In lingua tedesca si distinguono Hermann Buhl e Kurt Diemberger, legati anche dal destino.

Tutto cambia ancora negli anni Settanta, quando i giovani si ribellano all’eroismo dei padri e, invocando una montagna più umana, cominciamo a raccontare le proprie debolezze. Fino a Walter Bonatti erano quasi tutti eroi perché il pubblico li voleva così, dopo Bonatti ridiventano uomini (e donne: poche), spesso a disagio nel mondo delle città e della società. Sull’onda del Sessantotto e in concomitanza con i Nuovi Mattini, nascono alpinisti e libri innovatori sul piano dello stile e dei contenuti, sicuramente più sinceri di quelli che li hanno preceduti. Per citare solo qualche nome, Reinhold Messner, Alessandro Gogna e Andrea Gobetti in Italia, Reinhard Karl in Germania, Peter Boardman, Joe Tasker e Joe Simpson in Gran Bretagna.

Ed eccoci al passaggio finale, che potrebbe rivelarsi conclusivo oppure aprire nuove vie. L’avvento dell’arrampicata e dell’alpinismo sportivi portano a un ridimensionamento della scrittura. Come ogni sportivo che si rispetti, l’atleta delle falesie o delle montagne di fine Novecento non sente più un gran bisogno di raccontarsi, se non usando con estrema asciuttezza i canali di internet, più che sufficienti a divulgare pillole di esperienza incrociate con dettagli tecnici. Il tutto in tempo reale, o quasi. Dopo i primi vent’anni del nuovo secolo siamo ancora fermi lì, ci mancano le sceneggiature e le storie. La lunga relazione romantica tra l’alpinismo e il suo racconto si è incrinata con la dimensione democratica e ambigua del digitale, che rende tutto visibile e realistico, ma anche più conformista e banale. Quella dissimulazione che reggeva l’avventura e la sua narrazione, pervadendo di mistero la scalata, è scomparsa come la nebbia del mattino. I prossimi scrittori di alpinismo sono in cerca di nuovi significati.

Consigli di lettura

P. Boardman, La montagna di luce, Dall’Oglio, Milano 1981.
W. Bonatti, Le mie montagne, Zanichelli, Bologna 1961.
H. Buhl, È buio sul ghiacciaio, SEI, Torino 1962.
E. Camanni, La letteratura dell’alpinismo, Zanichelli, Bologna 1985.
E. Comici, Alpinismo eroico (1942), a cura di E. Marco, Vivalda, Torino 1995.
U. De Amicis, Piccoli uomini grandi montagne, Treves, Milano 1924.
R. Desmaison, La montagna a mani nude, Dall’Oglio, Milano 1972.
K. Diemberger, Tra zero e ottomila, Zanichelli, Bologna 1970.
G. Gervasutti, Scalate sulle Alpi, Il Verdone, Torino 1945.
A. Gobetti, Una frontiera da immaginare, Dall’Oglio, Milano 1976.
A. Gogna, Un alpinismo di ricerca, Dall’Oglio, Milano 1975.
M. Herzog, Uomini sull’Annapurna, Garzanti, Milano 1952.
R. Karl, Montagna vissuta. Tempo per respirare, Dall’Oglio, Milano 1982.
C. Maestri, Arrampicare è il mio mestiere, Garzanti, Milano 1961.
R. Messner, Settimo grado, De Agostini, Novara 1982.
A. F. Mummery, Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso (1895), Viglongo, Torino 1965.
F. Petrarca, La lettera del Ventoso (a cura di M. Formica e M. Jakob), Tararà, Verbania 1996.
T. Piaz, A tu per tu con le crode (1948), Melograno, Milano 1986.
G. Rébuffat, La montagna è il mio mondo, a cura di F. Rébuffat, Vivalda, Torino, 1996.
G. Rey, Il Monte Cervino, Hoepli, Milano 1904.
J. Simpson, La morte sospesa, Vivalda, Torino 1992.
L. Terray, I conquistatori dell’inutile, Dall’Oglio, Milano 1977.
E. Whymper, Scalate nelle Alpi. Conquista del Cervino (1880), Viglongo, Torino 1965.