Pubblicazione

L’illusione della vetta e le ragioni romantiche dell’alpinismo

Relazione al convegno “Idee di montagna”, Belluno, 18 ottobre 1997

Cesare Pavese non amava la montagna, ma dedicò a Piero Calamandrei “La luna e i falò” usando una metafora alpinistica: «Da simili vette non si può che discendere». Lo stesso Pavese, nei “Dialoghi con Leucò”, aveva scritto: «Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio».
Non ho mai trovato parole che esprimano più compiutamente il mito dei luoghi alti, che in due secoli di storia ha trasformato le terre più aride e inospitali del nostro continente nel santuario di una nuova religione laica. Da crocevia degli inferi a trampolino per il cielo, da ricettacolo di mostri a promessa di bellezza, dal luogo delle paure al luogo dei sogni.
L’esplorazione scientifica e filosofica delle Alpi è nata nel Settecento, e si è sviluppata nell’ambito della cultura protestante. È stata preceduta da una lunga discussione teologica sulla possibile riabilitazione della montagna, poiché Lutero l’aveva bollata come un prodotto del disordine e del peccato. Poi i primi geologi in viaggio per le valli alpine, che nei loro resoconti non lasciano ancora trapelare la minima simpatia per le pareti e i ghiacciai, cominciarono a dubitare che le Alpi fossero il lascito apocalittico del diluvio universale, e intuirono altre spiegazioni. Fu lo spirito illuminista a scacciare gli antichi tabù e a spingere cartografi, fisici, geologi e botanici nelle valli e sui colli, ma questo non mutò ancora la percezione dell’alta montagna come luogo della distruzione e del caos, popolato da gente primitiva e incivile. Insomma era necessaria una trasformazione completa dell’idea di montagna, che secondo Franco Brevini si manifestò in queste forme:
– Dal sentimento classico dell’arcadia, dove l’aratro era considerato l’unico vero redentore della natura, il viaggiatore settecentesco passa a una progressiva valorizzazione della natura incontaminata, su cui non è ancora calata la mano civilizzatrice dell’uomo. In termini moderni, nasce il sentimento della wilderness.
– A iniziare dall’Inghilterra, che è stato il primo paese industrializzato, i cittadini colti cominciano a stigmatizzare i limiti dell’urbanizzazione. Le città rumorose e inquinate sono viste come la nuova Babilonia, mentre i rozzi abitanti dei luoghi naturali (le Alpi, per esempio) diventano i simboli dell’innocenza e delle virtù perdute. Questo tema è caro a Jean-Jacques Rousseau, che nel 1761 dà alle stampe “Julie ou la nouvelle HéloÏse”.
– La percezione estetica evolve dall’idea del pittoresco all’idea del sublime. Dalla bellezza classica regolata dall’ordine e dall’armonia, si sfocia in una nuova idea di bellezza non più intrinseca nell’oggetto, ma affidata agli occhi dell’osservatore. Così anche il disordine acquista dignità, e anche l’orrido diventa “bello”.
Il nuovo senso della soggettività trasforma l’approccio al paesaggio e alla natura. Il viaggio diventa un’esperienza libera, individuale, motivata dalla ricerca di sensazioni originali. E così le montagnes maudites, le cime maledette che rappresentano le ultime isole inesplorate nel cuore del continente più civilizzato della Terra, acquistano il fascino delle terre ignote e diventano un riferimento per l’avventura romantica.
L’alpinismo nasce ufficialmente nel 1786, quando il naturalista ginevrino Horace Bénédict de Saussure promette una ricompensa per l’ascensione del Monte Bianco e il medico Paccard, in compagnia del cercatore di cristalli Balmat, raggiunge la vetta dal versante di Chamonix. L’anno seguente lo stesso Saussure sale in cima per eseguire le sue misurazioni barometriche. Fino all’alba del nuovo secolo l’alpinismo può essere letto come un fragile connubio tra scienza e avventura, ma le spinte soggettive del nuovo sport, che proprio per le sue radici spirituali non sarà mai uno sport come gli altri, presto prevalgono sull’alibi scientifico e ne rivelano lo sfondo romantico.
Nell’anno della scalata del Cervino, il critico d’arte John Ruskin scrive: «Come un eterno lamento, fino alla fine dei tempi si udrà nel vento delle Alpi la disputa del Signore! Gli abissi dei ghiacci eterni, il ruggito irresistibile dei cavalloni sconvolti, le cadute mortali delle sterili rovine, la loro decrepitezza spietata saranno l’immagine delle anime di coloro che hanno scelto le tenebre, e che supplicheranno le montagne di cadere su di loro e le altezze di coprirli; e sempre, fino alla fine dei tempi, le acque limpide delle inesauribili sorgenti, e la distesa dei gigli di campo nel loro bianco ornamento, e la perennità dei picchi che fiammeggiano nel cielo spalancato, saranno l’esempio, e la benedizione, di coloro che hanno scelto la luce».
Ruskin non è un alpinista, anzi è un oppositore dell’alpinismo, ma definendo i monti come le «cattedrali della Terra» individua la dualità simbolica dell’ascensione: il basso e l’alto, l’ombra e la luce, la lotta e la ricompensa. Ogni conquista è la sublimazione di un sogno, e non c’è mai pace sulla vetta perché ogni traguardo è sempre inadeguato, deludente, illusorio. Solo nella sfida c’è vero conforto, come scriverà Giusto Gervasutti nel nostro secolo: «Nella lotta noi ci ritroviamo con la genuina e cristallina trasparenza del nostro essere: nella lotta abbiamo modo di scoprire qualche nostro intimo celato aspetto, qualche cosa che mai ci eravamo sognati potesse albergare nel nostro petto… È la passione ardente per gli orizzonti senza fine, per i ghiacciai immensi, stretti tra le possenti braccia di montagne misteriose e maliarde». E sempre Gervasutti, in cima alle Grandes Jorasses dopo la sua impresa più sofferta e più bella, confessa sconsolato: «Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci arrestiamo su una larga terrazza di roccia una ventina di metri sotto la calotta ghiacciata della sommità. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La mèta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai».
Nessun luogo è mai riuscito a trasmettere meglio delle montagne l’idea della contrapposizione tra l’orizzontale e il verticale, il caldo e il freddo, il domestico e il selvatico, l’idillio e la tempesta, la contemplazione e l’azione. Scrive Rousseau: «Pareva che anche la natura si compiacesse di contraddire se stessa; da tanto era diversa nello stesso luogo, sotto i vari aspetti! A levante i fiori della primavera, a mezzogiorno i frutti dell’autunno, a settentrione i ghiacci dell’inverno: riuniva tutte le stagioni nello stesso momento».
Tutti i grandi adoratori dell’Alpe sono stati cullati e straziati da questo doppio inconciliabile, ben consci che durante la lotta sui monti avrebbero sognato una radura tranquilla dove distendersi a riposare, ma che una volta raggiunto quel rifugio la montagna li avrebbe ammaliati un’altra volta, come una dea possessiva e irresistibile, in una spirale senza fine di sublime dannazione. Un perenne tornare per ripartire.
Dietro l’esperienza alpinistica spesso c’è la nostalgia di un’armonia perduta, l’ansia di un tenero ricongiungimento: «I nostri polsi battono all’unisono col grande polso della Vita che respira attorno a noi» scrive William Douglas Freshfield, un pioniere dell’alpinismo ottocentesco. «Smarriamo noi stessi e diventiamo parte del grande ordine… L’uomo è come fuso nella natura, le città sono diventate macchioline, le province sembrano campi, l’occhio spazia sopra un regno».
L’alpinista professa la religione naturale della montagna in opposizione al mondo sempre più inestetico e sempre più pagano della pianura, umiliato dall’ozio e dai vizi: «Diedi ancora uno sguardo all’infinita natura purissima e ridiscesi anch’io nell’infinita e pietosa miseria umana» racconta Ugo De Amicis, il figlio di Edmondo, dopo una magica notte al cospetto del Cervino.
Ogni alpinista custodisce un suo pezzo di Paradiso e lo vorrebbe soltanto per sé.
Così è cresciuta la mitologia delle vette, e questo atteggiamento sacrale ha attraversato senza gravi cedimenti due lunghi secoli di alpinismo, stemperato dall’ironia anglosassone, drammatizzato dall’idealismo tedesco, appesantito dai miti eroici della Prima guerra mondiale e del Ventennio, ma sempre riconoscibile nelle sue radici. Ogni qual volta un artificio tecnico o sportivo ha messo in discussione il rapporto naturale (che è innanzitutto un rapporto etico) tra l’uomo e la montagna, gli alpinisti hanno gridato allo scandalo e alla profanazione. È successo nel 1882 quando le guide Maquignaz “addomesticarono” il Dente del Gigante con corde e fittoni, è successo nel 1911 quando Preuss e Piaz si accapigliarono sulla liceità del chiodo di assicurazione, è successo negli anni Sessanta quando la moda delle “direttissime” rischiò di ridicolizzare l’alpinismo classico e Reinhold Messner evocò l’«assassinio dell’impossibile».
Questo non significa che gli alpinisti siano sempre stati rispettosi del loro «terreno di gioco» (per usare un’espressione di Leslie Stephen), e le recenti autodenunce di Mountain wilderness hanno mostrato anche molti abusi e molta insensibilità nei confronti dell’ambiente, ma significa che gli alpinisti hanno sempre difeso lo spirito originario del loro essere, cioè la sfida romantica tra l’uomo e la natura selvaggia. Lo hanno fatto anche contro ogni evidenza, come quando eserciti di uomini accecati dal nazionalismo andarono alla conquista dei primi ottomila, o quando si riempirono di chiodi a pressione le pareti delle Dolomiti inseguendo l’illusione della “goccia d’acqua”; eppure sempre, sopra ogni altra motivazione, è prevalso il bisogno antico di confrontarsi con l’ignoto.
Il gioco sta cambiando proprio in questa fine secolo. Negli anni Ottanta la logica e i progressi dello sport hanno minato in poche stagioni l’edificio che aveva resistito per duecento anni, e oggi la maggioranza degli alpinisti sembra orientata verso un’arrampicata protetta, omologata, garantita, dove la sicurezza e il divertimento prevalgano sull’incognita e sull’avventura. Nell’eterna opposizione tra ideali romantici e ragioni ludiche, per la prima volta sembra imporsi un “pensiero debole” (secondo la definizione di Vattimo) che accantona la visione sacrale della montagna a favore di una visione laica, disincantata, secolarizzata, dove l’alpinismo conserva solo la sua componente sportiva: gioia del movimento in un ambiente straordinario. Per questo si diffondono gli spit, i chiodi a espansione che permettono di salire e di scendere ovunque.
In una simile visione non più supportata da una ricerca spirituale, i rischi della montagna appaiono come un anacronismo, un patetico relitto del passato. Allora si cerca di programmare ogni cosa, affidandosi alle previsioni del tempo, all’elicottero, al telefono cellulare, e quando la morte arriva nonostante tutto, perché la montagna è un ambiente per sua natura pericoloso, la si esorcizza con il silenzio o con le demonizzazioni estive dei giornali: «Montagna crudele, montagna assassina». Che poi non è altro che la vecchia retorica applicata al nuovo alpinismo.