Atti del convegno, Brentonico 2 luglio 1988
Il mio intervento si riferisce ai nuovi sport e nuove mode, oppure, per rifarsi al discorso del prof. Bonapace, a questo cosidetto “turismo verde”, cioè turismo alternativo che si va affiancando concretamente – in questo caso io non sono pessimista come chi mi ha preceduto – a quella che è la fruizione tradizionale della montagna da parte dei cittadini.
Per quanto riguarda la provocazione di stamattina, che raccolgo volentieri e che riguardava appunto questa collocazione consumistica e sempre più esteriorizzante del nuovo sport della montagna – di cui poi vi farò una breve descrizione, perché è bene capire di cosa stiamo parlando per non fare “di tutte le erbe un fascio” – è certamente evidente che i nuovi sport della montagna hanno come prima caratterizzazione un elemento di esteriorità. Se – come è stato detto stamattina – la prima scoperta della montagna non contemplava, o quasi, l’elemento estetico, sembrerebbe che oggi sia rimasto solo questo, in quanto, se voi sfogliate una qualunque rivista, o vedete un programma televisivo e cinematografico, salta subito all’occhio come, innanzitutto, ci sia stata una rivoluzione dei costumi di chi va in montagna in vari modi: dallo sci di pista, quindi alla massa, a tutte le discipline cosiddette ecologiche. La cosa che salta più all’occhio sono i colori, questi colori sgargianti che hanno sostituito completamente quel colore un po’ mimetico e dimesso che caratterizzava l’alpinista fino a dieci anni fa.
Prima di cominciare questo panorama, vorrei pregarvi di non fermarvi all’elemento estetico. Ancora una volta contestiamo la predominanza dell’elemento estetico o dell’immagine che talvolta filtra la realtà, però, a volte, rischiamo di fermarci noi stessi a questo elemento, senza cercare quelle che sono le motivazioni che spingono i giovani ad andare in montagna.
Vorrei fare una precisazione iniziale: da una montagna elitaria si è passati in breve tempo a montagna di massa. Potete immaginare quale mole di problemi e novità abbia portato: da una chiusura quasi parrocchiale degli alpinisti, a volte addirittura una presenza di cultura da caserma si è passati ad un’esplosione di molte discipline, favorita dal mercato, dall’industria e, di qui, si sono evoluti anche il gusto, i colori, i materiali e così via. Questo per dire che il cambiamento è stato molto più brusco di quello che potrebbe sembrare ad un esame superficiale e anche per dire che, a mio parere, non si può generalizzare, idealizzando il vecchio approccio alla montagna e contrapponendolo al nuovo approccio superficiale, basato principalmente sull’immagine. Per me non è così! Il nuovo approccio è certamente violento e differente. C’è una diversificazione enorme di approcci, nel senso che abbiamo ancora il vecchio approccio e poi tutta la gamma dei nuovi approcci, estremamente diversificati tra loro, che riproducono l’approccio alla realtà dei giovani cittadini a tutte le altre manifestazioni.
Non è dunque facile raggiungere delle conclusioni riguardanti l’aspetto dei fruitori della montagna del domani ma si possono individuare degli elementi particolarmente positivi “scavando” dietro la facciata.
Se l’alpinismo dei pionieri si impose addirittura come la prima forma illuministica delle Alpi, non si può dire che il turismo alpino dell’ultimo dopoguerra abbia tenuto in particolare considerazioni le sue antiche tradizioni.
Anche quella significativa forma di integrazione culturale sviluppatasi nel secolo scorso tra alpinisti cittadini e guide valligiane ha perso rapidamente il proprio spessore a causa di traumatiche trasformazioni.
In sostanza si è importato sulle Alpi il modello di sviluppo consumistico delle pianure, adattandolo alle esigenze del territorio. Di tutte le formule turistiche sperimentate, quella che di gran lunga ha regalato i maggiori benefici alle popolazioni valligiane è stata l’industria dello sci di pista, apparato del tutto comparabile ai modelli imprenditoriali urbani.
In questo contesto, attività turistiche come l’alpinismo, lo sci alpinismo e l’escursionismo – che sono le attività – si sono spesso trovate al posto del fanalino di coda, tenacemente praticate dagli appassionati, ma debolmente incentivate dalle amministrazioni montane. Se limitiamo l’analisi al territorio italiano, si può dire che i primi a scoprirne l’importanza e a profetizzarne la fortuna sono stati gli amministratori dell’area dolomitica, sulla spinta di qualche cittadino lungimirante come Piero Rossi. Risale alla fine degli anni sessanta l’ideazione dell’ Alta Via delle Dolomiti n. 1″, un lungo itinerario escursionistico, completamente attrezzato e segnalato che collega Braies a Belluno, quindi a cavallo tra Alto Adige e Bellunese. Questa formula si è rapidamente imposta come offerta insostituibile nel “pacchetto turistico” estivo di Trentino, e Alto Adige, smorzando tra l’altro quel dualismo che ancora oggi vede l’alpinista rude e solitario contrapposto al visitatore impreparato e dipendente dai mezzi meccanici.
Sulla scia delle alte vie delle Dolomiti alcune province e molti comuni montani si sono attrezzati per soddisfare l’escursionista anche se, sicuramente, Trentino e Alto Adige mantengono il record delle presenze, perché beneficiano della lunga tradizione tedesca in questo senso. Chi ha cercato il colpo con il turismo alternativo, tentando addirittura la rivalorizzazione di valli depresse come quelle del Cuneese, è stato il Comitato promotore per la “ Grande Traversata delle Alpi Occidentali” che si snoda dalle montagne della Liguria a quelle della Val d’Ossola.
A dieci anni dall’ideazione della GTA (Grande Traversata delle Alpi Occidentali), si può dire che l’esperimento ha dato i suoi risultati positivi: nel 1987 si sono registrati 40.000 pernottamenti nei posti tappa e – ribadisco – questi posti tappa sono stati espressamente scelti dal comitato organizzatore in quelle località che non beneficiano di un turismo ricco e, soprattutto, si è innescata una sensibilità del tutto nuova negli amministratori di queste vallate. Oggi già si parla di”Sentiero Italia”, un eccezionale collegamento escursionistico tra il Nord e il Sud della penisola, che ne percorrerebbe la spina dorsale montuosa.
Come mai, c’è da chiedersi, il turismo alpino e appenninico va riscoprendo le proprie origini? Credo che due risposte si intreccino tra loro. Innanzitutto il turismo consumistico come è stato ben evidenziato mostra i suoi limiti, nel senso che le montagne sono sfruttate oltre misura e si stenta a individuare proposte nuove per attirare i cittadini. Inoltre quei modelli urbani che conquistarono le genti di montagna, alla ricerca di un comprensibile benessere, stanno facendo acqua in pianura e subito a ruota si avviano a fallire anche sulle cime. Penso che la natura ha regalato ricchezza e la stessa natura rigetta lo sviluppo dissennato. Due, credo, saranno le sfide turistiche per gli anni Novanta: quella della fantasia – a cui già faceva riferimento Bonapace e vorrei specificare: non la fantasia idealista dei sessantottini, che ha fatto il suo tempo, ma una fantasia per così dire “concretizzata”, nel senso che il turismo è anche fantasia, è anche invenzione di formule nuove che, appunto, armonizzino le esigenze che ho sottolineato – e quelle dell’ambiente.
Ancora una volta sono la sensibilità e le esigenze delle popolazioni di pianura ad avviare il mutamento delle vallate.
Innanzitutto giocano le motivazioni ecologiche: sempre meno cittadini sono disposti a rivivere in montagna le alienazioni, i rumori, gli inquinamenti da cui fuggono appena possono. Credo che questa sia una sensazione tangibile: chi di voi scia, credo la maggioranza, avrà fatto numerose code agli impianti di risalita: si sente e si respira questa nausea di atti ripetitivi che, bene o male, riproducono ciò da cui si è fuggiti il giorno prima o la settimana prima.
Se dieci anni fa questo atteggiamento era ancora privilegio di poche avanguardie, di cui soltanto qualche amministratore illuminato notò la presenza, oggi il bisogno di attività a stretto contatto con la natura è diventato necessità da un lato, moda e business dall’altro. Ne fanno fede, ad esempio, gli innumerevoli periodici in carta patinata che vendono natura, avventura e viaggi in terre cosiddette “inesplorate”; che poi non si sa bene cosa siano; e gli sports nuovi che in ogni stagione si affacciano alla ribalta, affiancandosi alle attività più tradizionali. Tra queste ultime, l’escursionismo, come si è visto, è forse la possibilità più concreta: non presenta particolari limiti di preparazione, né tantomeno di costo o di età; una vacanza aperta al singolo come alle famiglie, con una gamma quasi inesauribile di prospettive, per tutti i sentieri delle Alpi (ci vorrebbero venti o trenta vite a disposizione), per non parlare di “trekking” europei che sono molto moda ma che, a mio parere, sono semplicemente una proiezione di quello che si può vivere tranquillamente anche sulle nostre montagne.
Subito accanto, tra le discipline storiche, il vecchio alpinismo ha gemmato un figlio un po’d degenere: l’arrampicata sportiva. Sia l’alpinismo che l’arrampicata sono in incremento, ma quest’ultima si è imposta agli onori della cronaca grazie a una rapidissima espansione tra i giovani e i giovanissimi.
L’arrampicata non è una disciplina montana in senso stretto ma può offrire interessanti sviluppi a quei Comuni che, favoriti dal terreno, ne sappiano approfittare. I due esempi tradizionali sono Bardonecchia e Arco di Trento, che hanno entrambi beneficiato di migliaia di presenze e di inaspettata popolarità facendosi padrini delle prime gare di arrampicata in Italia. Bardonecchia è in qualche modo passata alla storia per aver ospitato le prime competizioni dell’Occidente e ormai il suo nome, come quello di Arco, è indissolubilmente legato alle esibizioni in scarpette e “pantacollants”. Sarebbe interessante avere un amministratore di Arco che ci racconti quali benefici concreti e, credo non indifferenti, sono scaturiti da queste gare che si svolgono ormai da due anni nel suo comune; di li è infatti nato tutto un insieme di attrezzature ricettive come ad esempio il campeggio ecc.
L’arrampicata sportiva (20-30.000 praticanti in Italia), contrariamente alle apparenze, è una disciplina sicura, socializzante, facilmente praticabile fin dalla scuola dell’obbligo. E’ il cosiddetto “free climbing”, che di “free” ha ben poco ma che è ben inquadrato in una severa autoregolamentazione. Il vecchio mondo della montagna si è così aperto a una serie di sollecitazioni nuove, rivolte specialmente ai giovani.
L’arrampicata sportiva ha fatto da ponte tra il tradizionale alpinismo di esplorazione e di conquista e le nuove attività puramente ludiche che si possono praticare in quota.
Mi riferisco per esempio alla “mountain bike”.
E’ una bicicletta speciale che consente di percorrere sentieri e di valicare senza sforzo (perché ha un cambio molto favorevole): tutte le nostre vallate alpine sono state punteggiate di “mountain bike” nella passata stagione estiva, registrando un piccolo boom dagli sviluppi imprevedibili. E, accanto al cavallo d’acciaio anche il cavallo in carne ed ossa sta popolando i sentieri e le strade di montagna, in un crescendo di interesse per il “trekking equestre” che va dalla formula familiare della Cooperativa “Lu Viol” in Val Varaita alle più elitarie traversate in sella, di valle in valle.
Gli ideatori di “Lu Viol” (che vuole dire sentiero) hanno applicato un’idea molto semplice: i docili cavalli “Merens” dei Pirenei portano il bagaglio, mentre il turista può tranquillamente camminare e godersi il panorama del Monviso; ebbene, la formula ha avuto talmente successo che alcuni gruppi di americani hanno attraversato l’Atlantico per raggiungere i sentieri della Val Varaita, e questa singolare esperienza si ripete da molti anni.
Accanto a queste due discipline se ne potrebbero aggiungere altre che ben conoscete o, almeno una la conoscete senz’altro: la canoa o il kayak. Non è una disciplina prettamente montana, nel senso che si può fare canoa dovunque c’è un corso d’acqua, però i fiumi di montagna sono i più interessanti perché “incontaminati”, perché rappresentano una natura più significativa. Di nuovo la canoa ha avuto un discreto boom e sicuramente è uno sport alla portata di molti, anche nel prezzo.
Lo sport invece più fantasioso è il parapendio; anche questo ha avuto un discreto boom ma in Francia, non in Italia dove è ancora praticato da poche centinaia di persone. E’ praticamente un mezzo per scendere da qualunque vetta, basta una rincorsa, il paracadute si gonfia e si decolla; è uno sport ecologico purissimo, nel senso che non ha bisogno di nient’altro, ma è uno sport che richiede notevole attenzione.
Per finire veniamo all’inverno: lo sci di pista ha perso il suo monopolio tra le vacanze sulla neve. Innanzitutto è affiancato da quell’attività numericamente rilevante che è lo sci da fondo, sci di pista anch’esso per i più, ma sci completamente sganciato dai mezzi meccanicic, il che non è un fatto da poco. Direi che il fondo è ormai considerato una alternativa di pari dignità allo sci di discesa. Ma anche quest’ultimo sta oggi recuperando una visione assai più dinamica dei propri limiti e delle proprie possibilità. Si vanno diversificando i materiali e le tecniche, ma si vanno evolvendo soprattutto i gusti, superando le sterili categorie di una volta. Su questo binario le guide alpine si vanno aprendo verso lo sci escursionismo e lo sci alpinismo, i maestri di sci si vanno professionalizzando sul terreno non battuto, le scuole di sci alpinismo del CAI stentano da anni a soddisfare le richieste nelle grandi città. Non si può parlare di vero e proprio boom, ma di alternativa.
L’obiezione ricorrente verso questo turismo di ispirazione ecologica è di tipo economico: è vero sono a migliaia i frequentatori delle Alpi e degli Appennini con lo zaino in spalla, ma quale reale beneficio portano alle finanze locali?
L’obiezione a mio parere è datata perché non tiene conto dell’evoluzione dei costumi e perché basa i suoi fondamenti su un turismo ricco ma in via di estinzione.
Troppo spesso si punta a realizzare il massimo dei profitti con il minimo investimento creativo, puntando sulle seconde case e sugli alberghi faraonici, ma quella “torta” che fino a ieri ha dato grandi soddisfazioni rischia di diventare sempre più secca, sempre più inappetibile.
Da un lato la frequentazione della montagna è in aumento, mentre dall’altro gli abitanti delle montagne fuggono dalle loro terre, continuano a fuggire, l’emorragia non è chiusa.
Credo che solo un turismo più inserito nell’ambiente – e in questo senso penso che il rispetto nasca da una conoscenza attiva e non da una conoscenza “da salotto” – possa portare a un risultato vitale: quello di una ragionevole integrazione culturale tra realtà montanara e realtà cittadina. Non mi illudo certo che si ricreino le condizioni di un tempo, non mi illudo certamente che spariscano i caroselli dello sci, però ritengo che, anziché scambiarsi la parte peggiore di se stessi, creando solo luna-park o musei, montanari e cittadini possano riuscire a pensare a una fruizione dinamica del territorio e a garantirsi un futuro a misura d’uomo. Infatti, solo il rispetto e la fantasia possono salvaguardare le estati dei nostri figli.
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