Il mio amico Ezio era piccolo e guidava grandi automobili, e le guidava benissimo. Risaliva le tortuose strade delle vallate alpine senza strappi e senza affanni, come avesse avuto sempre a bordo una regina, e invece al suo fianco c’ero io o qualche altro smanioso compagno di ascensioni. Ogni fine settimana assomigliavamo a due fuggitivi, con la nostra bella palla al piede e il pigiamone a righe; salivamo sulla sua Fiat 131 e scappavamo in montagna a riprenderci la nostra libertà.
Fu così anche nel piovoso agosto del 1978, precisamente il 14 di agosto, quando risalimmo tutta la Valsesia, alle pendici del Monte Rosa, per imbarcarci sulla tremolante funivia di Punta Indren e scalare la parete nord del Lyskamm, che se non era più – a quel tempo – un esame da università dell’alpinismo, restava comunque un bel compito in classe di quarta liceo.
Oggi rabbrividisco a pensare che abbiamo passato la vigilia di ferragosto alla capanna Gnifetti, il rifugio più affollato sulle Alpi, sfidando ogni legge della fisica (un rifugio da cento posti non può contenere trecento persone) e del buon senso. Neppure il cieco ardore dei miei vent’anni avrebbe acconsentito a una scelta così dissennata, ma Ezio era un fatalista, Ezio era un temporeggiatore, e riusciva a scivolare leggero nella folla senza che il suo anticonformismo ne venisse intaccato.
Avete in mente quegli insopportabili snob che al botteghino del cinema se la danno a gambe di fronte a una fila di dieci persone e poi ammuffiscono per ore nelle camere d’aspetto dei salotti buoni? Ecco, il mio amico Ezio era il contrario.
Così posteggiammo l’auto nel parcheggio strapieno di Alagna Valsesia, ci mettemmo in coda per la funivia, poi di nuovo in coda sulla pista sporca di fango e pipì, e infine al rifugio, anzi al lager, aspettammo stoici il nostro turno per la cena liofilizzata e per un pezzo di coperta rinsecchita, in un bailamme internazionale di voci e di odori.
Fortunatamente la sveglia suonò prestissimo e la notte dei tremila metri ci accolse come una liberazione, le stelle dietro un velo di nubi e in faccia il fiato gelido del ghiacciaio. Ezio mi seguiva fedele nel buio, con la pila accesa sulla fronte e un mozzicone sempre tremolante nella mano sinistra, che facesse sereno, vento o tempesta.
“Maledetto vizio!” pensavo. “Fiato e tempo sprecato!”, ma non osavo dirglielo un po’ per rispetto un po’ perché era inutile: le sigarette e i caffè facevano parte di lui.
Certo, la nostra cordata era singolare. Io studente ribelle e sognatore, uno che sulla roccia credeva di fare la sua rivoluzione, lui uomo posato e sposato, già padre di tre bambine, sulla breccia ormai da tanti anni. Aveva passato i trentacinque, ma in montagna sapeva essere entusiasta e irragionevole come un ragazzo. Tutti e due coltivavamo il libero alpinismo e il libero pensiero, ed eravamo attratti dalla gratuita nobiltà – molto piemontese – che sta dietro le cose non urlate ma fatte come Dio comanda. Insomma ci assomigliavamo, pur praticando forme diverse di devozione montanara; e stavamo bene insieme nonostante la differenza di età.
Oltretutto eravamo complementari, il che non guasta in una buona relazione. Per esempio io ero veloce ed Ezio era lento, non solo per via delle sigarette. A me piaceva tornare per pranzo, o almeno per cena, mentre lui non guardava mai l’orologio e camminava sereno nel giorno come nella notte, con un’aria compiaciuta da filosofo in libera uscita. Confessava con un certo orgoglio la sua appartenenza al “club della pila” e non gli importava un bel niente di rientrare nei tempi canonici, come si addice agli alpinisti ortodossi o competitivi. Da giovane era stato portiere di notte in un albergo.
Se andavamo via insieme e tiravo un po’ la corda, cosa che succedeva quasi sempre, la moglie Anna Maria si stupiva di vederci ricomparire prima di sera. “Siete già qui!”, diceva con ironia per non farci capire che era contenta. E allora mi fermavo a cena nella loro bella casa di Zuccaro, sulle verdi colline del lago d’Orta, e si tirava tardi tra un bicchiere di gattinara e i racconti di passate avventure, con il profumo ritrovato dei fiori e la sensazione, nettissima, di aver fatto il nostro dovere. Una scalata senza rischi era come un lavoro finito bene.
Fu così anche quel giorno, sul Lyskamm, dove lo convinsi a cambiare itinerario e, per uno di quei prodigi che scaturivano dall’ottimismo di Ezio, salimmo una cresta solitaria nel pieno di agosto, cullandoci per ore al rumore del vento e dei nostri passi leggeri sulla neve. Raggiungemmo la cima prima di mezzogiorno, ci stringemmo la mano e lui disse: “Ci fosse un caffè sarebbe perfetto”.
Da Ezio ho imparato cos’è la fede. Non quell’atteggiamento esibito e forzato di certi preti, che fa a pugni con il mistero dell’infinito ed è un affronto alla fragilità dell’uomo, ma un sentimento più intimo e profondo, un bisogno autenticamente umano che ha piuttosto a che fare con la misericordia.
Era un sabato di luglio e mi dibattevo da settimane con un esame di Legge, facoltà scelta per sbaglio, ingoiando codici e codicilli senza vita.
Prima di pranzo Ezio mi telefonò e buttò lì: “Domani potremmo andare al Becco della Tribolazione, cosa ne dici?”.
Nome azzeccato, pensai. Almeno quella è una tribolazione di gneiss.
“Ma Ezio, piove a dirotto da questa mattina, e le previsioni promettono un miglioramento solo per la serata!.”
“Ottimo, no?.”
“No Ezio, perché la serata è quella di domani.”
“Non ci pensare, le previsioni le fanno a Roma, vedrai che qui viene bello prima. Ti passo a prendere alle cinque.”
Piovve tutta la notte e alle cinque il cielo era bigio come il giorno dei Morti. Attraversammo il Canavese con la musica intermittente del tergicristallo e lo sciacquio delle gomme sull’asfalto, altro sottofondo triste, finché imboccammo una Valle dell’Orco (l’orco degli annegati…) così carica di umidità che si sudava anche a star fermi, in macchina, tra i vapori.
“Qui fa sempre così,” disse Ezio “la pianura è troppo vicina. Oropa Ivrea e Pont sun gli urinari del Piemont (Oropa, Ivrea e Pont sono i pisciatoi del Piemonte)”.
Lui parlava quasi sempre in piemontese e io gli rispondevo in italiano. Comunicavamo così, giocando ai due stranieri.
Intanto l’auto saliva piano in un universo ovattato, superando rigagnoli, cascate, torrenti incattiviti. Verso i millecinquecento metri entrammo in una nebbia fittissima e riaccendemmo i fari, come di notte.
Giunti alla diga del Teleccio, dove il parcheggio era vuoto come a Natale, Ezio proclamò soddisfatto: “La nebbia è un buon segno. Vedrai che sopra il lago c’è il sole”.
Sopra il lago c’era altra nebbia, tanta nebbia, un mare di nebbia, e feci fatica a non perdere il sentiero tra gli ontani, nonostante i sassi marcati con la vernice rossa. Poi, alla prima radura, intravidi una luce che poteva essere un miraggio, o una fregatura. Accentuai il passo distaccando Ezio come al solito, e in pochi minuti sbucai nel cielo più terso che un uomo possa sognare, un cielo risciacquato dai temporali e restituito a noi due alpinisti di belle speranze.
Ezio mi raggiunse e disse tranquillo: “Bella giornata. Oggi si scala in camicia”.
“In camicia!” gridai, e l’avrei abbracciato, e perfino baciato, se il nostro tacito patto di understatement me l’avesse permesso.
Ci arrampicammo come due camosci felici sulle rocce dell’Eden. Il maglione restò nello zaino fin sulla cima vertiginosa del Becco della Tribolazione, dove ci sdraiammo al sole a distendere i muscoli, mangiare un boccone e goderci il panorama. I gracchi beccavano le nostre briciole di pane e volteggiavano senza peso nell’aria limpida, proprio in fronte al Gran Paradiso.
“Ci fosse un caffè sarebbe perfetto” disse Ezio anche quella volta, e non ci fu bisogno di altre parole.
Credo sia stata la nostra scalata più bella, e forse anche una delle ultime, perché negli anni successivi mi sono dedicato alle ascensioni difficili, dove lui non poteva seguirmi, e poi ho smesso a lungo di arrampicare, così che sono stato io a non poter più seguire lui.
Ci si incontrava in città, a cena da qualche amico, per una proiezione di diapositive o la presentazione di un libro, ma in montagna siamo rimasti separati per un tempo interminabile, qualcosa come quindici anni. Ognuno è andato avanti per la sua strada: io mi sono sposato, ho messo al mondo due figli e mi sono inventato una rivista per vivere, Ezio si è prepensionato dalla banca dove lavorava e si è caricato di un sacco di responsabilità. È stato eletto presidente della sezione di Torino del Club Alpino e ha iniziato a destreggiarsi tra oneri e onori, soprattutto oneri, con pazienza e spirito di servizio.
“Ormai sei uno che conta!” lo stuzzicavano gli amici.
“Sono uno che fa la raccolta di grane” rispondeva lui.
Così fino al 1992, l’anno del nostro riavvicinamento.
A luglio, con reciproco imbarazzo, siamo partiti insieme per le Dolomiti, diretti alla grande Civetta. In bilico sulla cresta del rapace di pietra con le ali spiegate, ho scoperto con commozione che il mio amico Ezio non solo fumava come una volta, ma camminava, mi capiva e mi sorrideva esattamente come allora, e portava gli stessi zaini pesanti. Anche da presidente e da uomo maturo continuava a servire la propria coscienza senza una traccia di omologazione, lanciandosi in crociate belle e impossibili. Che sollievo!, era rimasto un giusto, il tempo non lo aveva guastato.
Sono stati giorni memorabili. Il sole ci ha accompagnati sotto la “parete delle pareti”, simbolo di eroismo del Ventennio, e poi sui viàz della Valle di Zoldo, le cenge sospese degli antichi cacciatori. Infine abbiamo costeggiato i contrafforti turriti del Pelmo e siamo passati sotto una roccia crollata chissà quando, che porta incise le orme del dinosauro. Le Dolomiti erano una spiaggia un bel po’ di anni fa, e i rettili preistorici hanno lasciato le loro tracce nella sabbia.
“Arrampicavano proprio bene” ha scherzato Ezio, perduto dietro ai rebus del tempo.
Alle otto, al rifugio Venezia, ci siamo finalmente seduti davanti a un minestrone bollente. Era l’ultima sera del nostro giro: ancora un colle e poi a casa.
“Al telefono, Ezio, è urgente!”
È tornato senza sorriso:
“Devo partire: mia madre sta morendo”.
Allora siamo scappati via con le pile frontali, mentre il buio inghiottiva la vallata e il temporale, ancora lontano dietro la Civetta, brontolava sempre più minaccioso; ma noi ci tranquillizzavamo – non ci si perde su un sentiero largo come un viale –, e intanto camminavamo veloci, quasi correvamo sull’altopiano senza più luce.
Ai piedi del Pelmetto ci ha raggiunto la tempesta. Un fronte impazzito di vento e di pioggia, poi grandine, poi ancora pioggia ci ha investito da ovest e ci ha fatto vacillare, mentre i tuoni disumani rimbombavano sulla parete dei dinosauri e i fulmini illuminavano a giorno la montagna e ne incendiavano i pinnacoli. Il sentiero si è presto trasformato in torrente e noi fuggitivi abbiamo cominciato a scivolare su un velo di sapone, vagando ubriachi di paura nel labirinto di calcare. Ma fermarsi significava bivaccare, e bivaccare forse voleva dire congelare con gli abiti fradici addosso, così siamo andati avanti chiamandoci per nome, incitandoci l’un l’altro, e finalmente verso mezzanotte siamo approdati nelle braccia sicure della foresta.
L’indomani Ezio ha fatto in tempo a stringere sua madre e io non ho più dimenticato quella notte, così carica di amicizia e di mistero.
L’ultima estate Ezio ha detto: “Ad agosto devo battere la Valsesia per compilare una guida escursionistica. Speriamo che non faccia troppo brutto”.
Era un compito difficile e oscuro, un lavoro che lo stuzzicava e gli si addiceva. Certo non pensava alla Punta Gnifetti, la nobile vetta di Margherita di Savoia, o al Colle del Lys, dove il povero barone Beck Peccoz morì di crepacuore per la sua regina, ma pensava alla vera Valsesia, quella che nessun libro è riuscito a raccontare e si nasconde in valloni scomodi e dimenticati, dietro muri di vegetazione e cortine di nebbie, con tante cime senza fama e senza storia. Ezio le conosceva bene e non le snobbava, perché per lui la natura aveva ovunque la stessa dignità.
Così si è messo al lavoro. Ha salito qualche cima in solitudine e qualcun’altra in compagnia, ha stilato un accurato catalogo degli itinerari migliori, ha fatto centinaia di fotografie e il 10 settembre 1995, domenica, è partito da solo per l’ultima ricognizione alla Cima Sajonchè, in Val Sermenza. Al parcheggio di San Giuseppe ha lasciato l’auto con un bigliettino sul cruscotto: “Sajonchè dall’Alpe Grega superiore”, e poi la firma, in bella calligrafia.
Da quel momento è scomparso con il suo zaino blu. Non morto, scivolato, precipitato, fulminato o fuggito, come può succedere in montagna e altrove, ma letteralmente volatilizzato: non si è più trovata traccia di lui.
Lo abbiamo cercato in centinaia per una settimana di precoce autunno, con cascate d’acqua nei boschi e nelle scarpe, elicotteri e cani, messaggi radio, grida, illusioni, sorrisi e lacrime. Abbiamo setacciato i sentieri abbandonati dai pastori e le piste delle volpi, ci siamo infilati negli anfratti della roccia, abbiamo scalato la vegetazione e i ghiaioni, fin sulla cresta di quel monte dal nome insensato. Niente, soltanto angoscia e nebbia.
Allora i sommozzatori si sono immersi nel torrente e nelle gole, gli uomini del Soccorso Alpino si sono alzati in volo sulle cime con la telecamera cerca-persone e altri uomini si sono calati nei canali scoscesi. Ancora nebbia. E angoscia.
Infine sono stati chiamati gli indovini e i sensitivi, extrema ratio, avamposto della speranza, a giurare che Ezio era lì presso l’Alpe Grega, dunque vicino ai suoi salvatori, ma Ezio non si è fatto vedere. Non sono mai piaciuti i maghi, al mio piccolo amico dai capelli neri.
È ricomparso dopo molti mesi sul versante opposto della montagna, mostrando il portafoglio e poche altre tracce di sé, ormai senza significato. Il suo spirito era volato da tempo in un luogo più consono a lui: un posto dove non scende mai la nebbia, se piove c’è anche il sole e l’angoscia è un lontano ricordo, come quelle ombre dell’adolescenza che la vita adulta si porta via.