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Occhi da alpinista


Questo libro è speciale perché si vedono molte facce, volti di alpinisti, ma non si vede l’oggetto dei loro desideri: la montagna. Eppure – ce lo garantiscono le rispettive biografie – questi occhi di giovani, vecchi, uomini, donne, belli, brutti, introversi o guasconi hanno brillato per tutta la vita per qualcosa che la gente comune considera soltanto un pugno di sassi, e si sono consumati per una passione talmente irragionevole che nessuno è mai riuscito a spiegarla a un profano, nonostante i milioni di pagine consumate allo scopo in oltre due secoli di alpinismo.
Uno dei ritratti più ispirati è quello di Hans Kammerlander, l’ex ragazzo di Campo Tures che ha scalato le Dolomiti e mezze montagne del mondo. L’ultimo suo libro si intitola “Malato di montagna”, un titolo forte e in netta controtendenza con la tradizione romantica dell’alpinismo. Kammerlander racconta alcune sue imprese famose, tra cui la scalata delle quattro creste del Cervino in un solo giorno, e alla fine, stremato quasi quanto il lettore, confida:
«Non riesco a dimenticare il caos delle ultime ventiquattro ore. Su nessun’altra montagna ho mai sperimentato finora tanto stress, tanta rabbia e tanto malumore… Sono contento che nessuno ci abbia chiesto il solito “perché”, e ormai sono indifferente al risultato di questa impresa. Se qualcuno ci dicesse che siamo degli idioti, non saprei cosa ribattere».
Kammerlander ha gli occhi dolcissimi e un cuore buono, ma – come tutti gli alpinisti estremi – si nutre di sensazioni estreme. Frequenta quel confine oscuro tra il coraggio e la pazzia che nessun “borghese” in giacchetta e telefonino sarà mai in grado di comprendere, e tantomeno di avvicinare:
«Poi feci qualcosa che mi è difficile spiegare – scrive ancora di ritorno dal Manaslu, dopo aver visto morire due dei suoi più cari compagni -. Dato che quando mi stendevo sul fianco il piccolo apparecchio fotografico mi premeva sulle costole, lo tirai fuori, allungando il braccio davanti al viso e scattando. Oggi mi riconosco a stento in quella foto. Sull’orlo della follia, non ero più me stesso».
Il fatto è che, per un alpinista “malato” della sua passione, morire in montagna non ha senso esattamente come vivere senza montagna. La vita dei grandi alpinisti è tutta racchiusa in questo paradosso. E così il volto fascinoso di Kammerlander immortalato da Malfer tra i monti di casa è lo stesso volto “sull’orlo della follia” autoritratto dopo la tragedia del Manaslu. Non sono due esseri diversi, l’uomo razionale e l’uomo “posseduto”. Si tratta della stessa persona.
I ritratti di questo libro raffigurano dunque delle persone normali – che soffrono, sperano, si commuovono, si arrabbiano e hanno paura esattamente come tutti noi -, misteriosamente illuminate, accese, possedute, plasmate e infine trasformate da una grande passione: la montagna. Chi non è mai stato veramente innamorato non può capire certi gesti apparentemente insensati, il desiderio che ti brucia e ti consuma dentro, l’attesa che ti ruba il sonno, l’orgasmo di ogni incontro che – anziché pacificare – dischiude le porte a nuove ansie e nuove attese.
L’alpinismo, come il viaggio, è il gioco dell’avventura, ma è anche la nevrosi del partire e del ritornare. Gian Piero Motti, filosofo dell’arrampicata, ha chiamato il suo più bel viaggio in parete “Itaca nel sole”, a memoria di Ulisse e dell’utopia della scoperta. Motti sapeva che nessun luogo sa trasmettere meglio delle montagne l’idea della contrapposizione tra l’orizzontale e il verticale, il caldo e il freddo, il domestico e il selvatico, l’idillio e la tempesta, la contemplazione e l’azione. Citando Rousseau, uno dei padri del romanticismo alpino, «pareva che anche la natura si compiacesse di contraddire se stessa; da tanto era diversa nello stesso luogo, sotto i vari aspetti! A levante i fiori della primavera, a mezzogiorno i frutti dell’autunno, a settentrione i ghiacci dell’inverno: riuniva tutte le stagioni nello stesso momento».
Come tutti i veri innamorati dell’alpe “malati” di montagna, anche molti personaggi di queste pagine sono stati cullati e imprigionati dall’ineliminabile ambivalenza dell’alpinismo, ben consci che durante la lotta sui monti avrebbero sognato una radura tranquilla dove distendersi a riposare, ma che una volta raggiunto quel rifugio la montagna li avrebbe ammaliati un’altra volta, dea possessiva e irresistibile, in una spirale senza fine.
Chi saprà leggere il riflesso di tali sentimenti dietro gli occhi degli alpinisti avrà colto il segreto di questo libro. Ma ci sono anche altri motivi che spingono gli uomini a rischiare per sentirsi forti in parete. C’è l’orgoglio, c’è l’emulazione, c’è un profondo narcisismo, e c’è anche la competizione, senza la quale molte imprese non sarebbero mai state compiute. Gli alpinisti amano la gara, il cameratismo, il rito forte e ambiguo della cordata, quel gusto dell’avventura tipicamente maschile che consiste nel giocare e nel mettersi in gioco, conservando inesprimibili segreti entro i confini iniziatici del gruppo.
Quindi un altro esercizio possibile sarebbe leggere negli occhi delle alpiniste (sono poche, ma ci sono) i sentimenti al femminile verso la parete, il vuoto, la paura, la sfida, che sicuramente si discostano da quelli al maschile. In un mondo dove l’eros è sempre stato rimosso o sublimato a favore della montagna (tradizionalmente casta e pudica), virilità e femminilità restano due componenti fondamentali. Dietro la maschera dell’alpinista duro e puro, per esempio, si nasconde molto spesso un uomo fragile e sensibile, dotato di una spiccata componente femminile. Al contrario alcune alpiniste sembrano aver rinunciato alla loro femminilità per assumere gli stessi (spesso beceri) atteggiamenti virili, forse per difesa, forse per sfida, o forse per venir semplicemente accettate in un ambiente difficile, troppo a lungo condizionato dalla cultura maschilista.
Ma per fortuna ci sono anche donne che restano se stesse sull’ottavo grado o a ottomila metri, condividendo le emozioni dei compagni uomini ma elaborandole al femminile.
Il sesso conta sicuramente più dell’età, sulla carta d’identità di un alpinista. Malfer avrebbe potuto ordinare diligentemente i suoi ritratti per generazioni, abbinandoli ai vari periodi storici che hanno segnato l’evoluzione dell’alpinismo. Ma sarebbe stata un’operazione senza senso, perché se sul piano tecnico ogni generazione si distingue (e va distinta) dalle altre, sul piano umano prevalgono le similitudini. La montagna è come una febbre che ti prende da giovane e ti resta dentro per tutta la vita, anche se il mondo va cambiando tutt’intorno, anche se i muscoli un giorno dicono basta e la famiglia reclama i suoi spazi, e forse altre ragioni meno egoistiche e più nobili vengono a sovrapporsi nel corso del tempo.
Nonostante tutto alpinisti si resta, e da alpinisti, fino all’ultimo sguardo, si osservano le montagne cercando vie di salita, desiderando i colori della roccia, vagliando le condizioni del ghiaccio nell’algida luce di un’alba o nel fuoco malinconico di un tramonto. Perfino di fronte alla morte di un compagno (e sono tanti, i lutti in montagna), anche dopo una ragionevole scelta di abbandono, il cuore resta imprigionato da questa passione esclusiva, che, come un grande amore adolescenziale, reclama un posto unico e insostituibile.
Vecchi e giovani scalatori, austeri personaggi del Nocevento e leggeri ragazzi colorati del Duemila, alpinisti di montagna e arrampicatori di città: non fa gran differenza. La passione per le pareti non si misura con gli anni e, sorprendentemente, nemmeno con l’azione. Questo è il fantastico, enigmatico, umanamente folle e follemente umano pianeta della verticale, dove non ha senso ciò che si vede ma solo quello che non si vede: la fiammella che gli alpinisti si portano dentro.