L’approfondita discussione che ha portato a definire le linee del logo olimpico di “Torino 2006” ha incluso alcune riflessioni importanti su Torino e le Alpi.
Innanzi tutto le Alpi sono state individuate nel loro insieme geografico, storico e simbolico, e non soltanto come le montagne o le valli dei torinesi, o come lo specifico “terreno di gioco” delle prossime olimpiadi. Nel logo non si riconoscono le torri del Sestriere o le montagne della Valle di Susa, ma un’allegorica mole-montagna che non pone limiti all’immaginazione.
Inoltre è stata accolta la definizione di Alpi come “montagne trasparenti”, frontiera aperta verso la Francia e il resto dell’Europa. In questo modo Torino non si inchina più al vecchio stereotipo della città subalpina protetta (e rinchiusa) dalle sue montagne, ma si candida al ruolo di città europea proprio in virtù della grande “finestra” alpina.
La terza scelta ha riguardato il colore: dal grigio della città industriale al bianco-azzurro della montagna innevata, che è un bel salto di prospettiva rispetto alla Torino novecentesca, nota nel mondo per le sue fabbriche e non certo per le sue montagne.
Fin qui il dibattito teorico. Ma se non si vuole nascondere la realtà dietro una pur raffinata operazione di marketing, si deve provare a rispondere ad almeno tre domande imbarazzanti.
– Perché Torino, metropoli alpina per eccellenza in virtù della sua collocazione geografica e della sua storia, centro nevralgico del Regno alpino di Savoia, culla dello sci e dell’alpinismo, ora sede olimpica dei Giochi invernali, non è ancora (o non è più) percepita come una città delle Alpi?
– Perché l’unica metropoli che si affaccia su circa un terzo di arco alpino, dalle Alpi Marittime al Monte Rosa, ed è posta sull’asse di due arterie transalpine cruciali come il Fréjus e il Monte Bianco, non è diventata un polo di riferimento culturale e politico per le Alpi “cintura d’Europa”?
– Perché, a parte poche situazioni privilegiate, città e montagna non sono riuscite a superare il vecchio braccio di forza tra centro e periferia, elaborando nuovi modelli di sviluppo e occasioni di dialogo e collaborazione?
Si può provare a introdurre una riflessione.
Qualche tempo prima di lasciarci, Primo Levi scriveva a Mario Rigoni Stern:
“Se vivessi con te sull’altipiano non avrei problemi, mi metterei gli sci da fondo e via. Ma qui è diverso; malgrado la crisi, ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un’ora di lotta e di pazienza”.
Colpisce che proprio quell’automobile che avrebbe dovuto avvicinare la montagna alla città sia diventata motivo di ostacolo, prima ancora psicologico che fisico, tra Torino e le Alpi onnipresenti al fondo di ogni viale e di ogni prospettiva. Nel Novecento l’automobile, potenziale mezzo di comunicazione e di scambio, ha isolato i torinesi in una dimensione sempre più urbana, li ha assimilati alla cultura industriale, li ha allontanati da quella consuetudine alpina che era scolpita nel codice genetico delle famiglie borghesi, nell’eredità della Resistenza, nella cultura cattolica risalente a Pier Giorgio Frassati e anche in numerosi gruppi di formazione operaia e proletaria.
E quando la città si è avvicinata alla montagna, lo ha fatto occupando con le fabbriche le basse valli o esportando se stessa in quota, come è accaduto, per esempio, nei centri di sport invernali dell’alta Valle di Susa. La montagna è diventata un prolungamento della città, e questo – anziché avvicinare le due culture – ha scavato un fossato ancora più profondo.
Cittadini e montanari, pur legati da fili sempre più stretti (si pensi all’acqua che disseta le città), non avvertono di far parte di un universo integrato. Spesso i montanari vivono la città come “un mondo a parte”, un luogo indifferente e ostile, e i cittadini riducono la montagna all’immagine stereotipata di un bianco “domaine skiable”, o un giardino verde per l’estate, o un grande parco di divertimenti per il tempo libero.
Sono visioni parziali e perdenti, perché non c’è futuro per la montagna senza scambi e innovazione, come non c’è futuro per la città senza il polmone delle Alpi e i ritmi naturali della montagna. L’isolamento non è più sostenibile. Dunque c’è bisogno urgente di collegare, unire, mettere in contatto tutti coloro che, in città e in montagna, lavorano per le Alpi. C’è soprattutto un gran bisogno di coordinamento, per evitare che i numerosi sforzi e le frastagliate iniziative di università, associazioni, amministrazioni, musei, case editrici, riviste e organi di stampa disperdano il patrimonio alpino e l’immagine simbolica che ne deriva.
Paradossalmente, dopo oltre un anno di lavoro d’equipe sul tema “Torino, Città delle Alpi”, e dopo due importanti convegni che hanno permesso di scambiare le idee e radiografare la realtà, siamo giunti alla conclusione che Torino sia già, oggi, un luogo assolutamente privilegiato per quanto riguarda il rapporto tra città e montagna. Probabilmente il luogo in Europa, dove circola più abbondanza di progetti (non per niente a Torino nascono tre riviste di montagna e hanno sede le più importanti case editrici) e maturano le migliori competenze, non solo in campo accademico. Eppure Torino non può ancora, o non può più, considerarsi una città delle Alpi, tanto meno una capitale alpina pronta a gestire con sguardo lungimirante l’avvenimento olimpico.
Esiste un evidente scollamento tra la naturale propensione geografica di Torino, città subalpina per eccellenza, e la sua rappresentazione. La scelta industriale e la monocultura dell’automobile l’hanno portata a svilupparsi, e soprattutto a immaginarsi, come una città separata dal suo territorio, paradossalmente cablata e isolata al tempo stesso, come un corpo dotato di un cervello ipertrofico e braccia troppo piccole per abbracciare ciò che sta accanto, a cominciare dalle vallate che confluiscono sulla metropoli.
Stereotipi duri a morire continuano a dipingere le Alpi come un rifugio del passato, retaggio dell’economia arcaica e romantica. L’immaginario cittadino oscilla tra questa falsificazione e l’opposta visione, altrettanto fuorviante, di una protesi urbana ad elevata tecnologia. Con questi presupposti la relazione città-montagna non può essere che un legame nostalgico o un rapporto di dipendenza. Ma se si corregge la visione e si prova a identificare la catena alpina con la spina dorsale europea, laboratorio per nuovi modelli di sviluppo e per un’innovativa alleanza tra l’uomo e il suo ambiente, luogo del progresso e non museo della tradizione, allora il rapporto con le Alpi diventa la naturale apertura verso l’esterno. Dialogare con le Alpi equivale a dialogare con l’Europa e assumere un ruolo guida nelle politiche internazionali.
Ciò che è emerso con maggiore chiarezza dai gruppi di lavoro è il fatto che il rapporto tra città e montagna non si risolve con scelte a senso unico: per esempio con un modello turistico che, superdotando di infrastrutture le alte valli, tende a scavalcare la montagna intermedia. Così si creano le basi per uno sviluppo distorto, che vede la città protendersi alle alte quote ignorando la realtà delle basse e medie valli, cioè il cuore della montagna.
Riprendendo la metafora del corpo, è come se testa e piedi corressero da soli. E se questo è vero, allora è difficile pensare che la montagna, drammaticamente lacerata e divisa, da un lato ricoperta di seconde case e dall’altro segnata da borgate ormai fatiscenti e costrette all’abbandono, possa salvarsi senza la città. Evidentemente bisogna lavorare assieme.
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