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Per un nuovo regionalismo alpino. Crisi del «neo vernacolare» e necessità di contemporaneità


C’era una volta lo chalet, l’unica architettura possibile nella testa di chi sognava la casa in montagna. Lo chalet dei sogni era una costruzione assente nella realtà, ma esisteva nell’immaginario dei cittadini. Un po’ baita d’alta montagna per chi non era mai entrato in una casa d’alpeggio, un po’ rascard per chi pensava che si abitassero i fienili, un po’ rifugio per chi ci era stato a mangiare la polenta. La dimora per antonomasia era la casa svizzera, la bomboniera di legno che discende direttamente dal mito di Heidi: pareti di larice, imposte intarsiate, file di gerani ai davanzali e corna di cervo e camoscio ovunque, in memoria di cacce leggendarie. Naturalmente anche la casa svizzera non esiste, perché ce ne sono di mille tipi, ma lo stereotipo è sempre l’ultima cosa a morire e nelle cartoline elvetiche non mancano mai un Cervino, una mucca, la cioccolata e la rustica casa di legno di conifera con il fumo che esce dal camino.
Però anche gli stereotipi invecchiano e anche l’immarcescibile mito dello chalet, probabilmente, non incarna più la percezione contemporanea delle Alpi. Se, come riassume lo storico Jon Mathieu, «in una prima fase della storia culturale europea le montagne, e le Alpi in particolare, erano considerate qualcosa di spaventoso…, e in una seconda fase divennero luogo di attrazione, sublime e romantico», sicuramente la casa di Heidi appartiene a questa seconda rappresentazione, che è durata almeno due secoli e si è dimostrata una delle fantasie urbane più resistenti ai mutamenti. Ma oggi siamo arenati in una terza fase in cui «c’è piuttosto una moltitudine di visioni differenti e alla chiarezza è subentrata la confusione» (Mathieu, 2005).
Nell’epoca del postromanticismo alpino si rivelano inaspettatamente fragili e perdenti le due direttrici che hanno orientato l’immaginario del secondo dopoguerra: da un lato la nostalgia del passato contadino, icona di un mondo cristallizzato, dall’altro l’urbanizzazione acritica e diffusa, come se importare la città in quota potesse assicurare un futuro riparatore alle terre alte. Il passatismo malinconico e il futurismo incosciente sembrano due visioni opposte e contraddittorie, ma sono state per lungo tempo le due facce della stessa medaglia, deformazioni di un progetto di pianura che, sostenuto quasi ovunque dalle amministrazioni locali e dall’industria turistica, ha “modernizzato” la montagna continuando a rimpiangerne le antiche virtù.
Ora che la rappresentazione è finita, o almeno mostra vistose crepe, anche i cittadini più sprovveduti si accorgono che le «baite» per le vacanze erano finte e i condomini restano veri, fin troppo uguali a quelli di città. Chi cerca di liberarsi della seconda casa fa i conti con un deprezzamento che non dipende solo dall’invecchiamento dell’immobile, ma anche dal cambio di visione. Spesso le seconde case hanno segnato così brutalmente il paesaggio che l’“arcadia” dei nonni è diventata la “prigione” dei nipoti, in suburbi d’alta quota più a misura d’automobile che di villeggiante. Questo punto di vista incombe sulle Alpi occidentali più ricche e “dotate”, dalle stazioni sciistiche dell’alta Valle di Susa ai comprensori valdostani ai piedi del Monte Bianco e del Cervino, dove la speculazione turistica ha completamente rivoltato ambienti, equilibri e culture. La percezione della città si estende a località come Madesimo, Aprica e Foppolo nelle Alpi centrali e a numerose stazioni trentine, da Marilleva alla Valle di Fassa, fino alle valli sudtirolesi che gravitano sul circuito del Sellaronda, tutti luoghi in cui gli impianti e le infrastrutture per lo sci hanno costruito una nuova montagna finalizzandola al turismo di massa. Ma il fenomeno della seconda casa segna una netta distinzione tra le Alpi di tradizione “latina” e quelle di cultura “germanica”, perché in Sudtirolo, in Austria e nella Svizzera di lingua tedesca si è fortemente limitata la diffusione dei “letti freddi” con effetti non solo sul piano urbanistico e paesaggistico, ma soprattutto su quello culturale.
Qui sta un primo, nettissimo punto di demarcazione nella fruizione cittadina delle Alpi, e, di conseguenza, nella loro percezione. Dove predomina la seconda casa si è affermato un diffuso senso di “proprietà” della montagna che tende a farne sostanzialmente un “terreno di gioco”, per usare la fortunata definizione ottocentesca di Leslie Stephen, luogo di passaggio e di consumo, con la complicità ben retribuita degli abitanti trasformati in operatori, costruttori, organizzatori, gestori, ristoratori, accompagnatori e, non di rado, attori di una messa in scena a scopo turistico, come già profetizzava Alphonse Daudet nel Tartarino sulle Alpi. Nei crocevia delle seconde case è venuta a sovrapporsi una doppia cultura, esogena ed endogena, che sembra ormai prigioniera di se stessa, incapace di immaginare un altro paesaggio e un’altra destinazione sociale perché la finzione è diventata realtà, e viceversa, anche se nessuno crede più alla favola che comprandosi un lotto di terra si diventi montanari.
Dove invece predominano gli alberghi, le pensioni, i B&B e le camere in affitto capita che i turisti e i villeggianti, insomma gli sguardi esterni alla montagna, frequentino e percepiscano paesaggi attrezzati e urbanizzati, forse anche simili alle loro provenienze, ma di proprietà e derivazioni diverse, sconosciute, “altre”. Comunque si è ospiti, e questo stato di confortevole soggezione rende necessario, talvolta creativo, lo scambio tra abitanti e forestieri. Chi viene da fuori deve scambiare un pezzo di sé con le comunità ospitanti, che può essere una semplice transazione in denaro nel caso delle grandi catene alberghiere ma diventa esperienza significativa se si “entra” nelle case dei residenti, o meglio nelle aziende agrituristiche, percependo il soffio di altre vite, altri ritmi, differenti paesaggi esteriori e interiori. Certo non si diventa valligiani nel corso di una vacanza, ma almeno si percepisce la loro esistenza, e anche la fragilità nascosta dai rodati meccanismi dell’orologeria turistica.
Un terzo paesaggio percepito riguarda i “nuovi montanari” e le pratiche di reinsediamento che punteggiano numerose valli delle Alpi senza identificarsi in un modello univoco. Superata la fase di “fuga dalla città” motivata da ragioni ideologiche, tipica degli anni Settanta del Novecento, ridimensionato il boom dei nuovi mestieri a uso turistico e sportivo (maestri di sci, lavoratori agli impianti, nei grandi alberghi, ecc.), oggi i “montanari per scelta” sono i valligiani che dopo una parentesi urbana decidono di tornare a vivere in alto, o più frequentemente i cittadini che lasciano la città per cercare una diversa qualità di vita. Numeri ancora esigui dal punto di vista del ripopolamento, ma determinanti nel rinnovare gli stili sociali e culturali. Sotto un certo aspetto i nuovi montanari sono più conservatori dei vecchi, perché difendono caparbiamente il paesaggio preesistente, auspicano processi d’innovazione leggera e rifiutano tenacemente le imposizioni alteranti di matrice industriale, il deterioramento dell’ambiente naturale e la colonizzazione della cultura locale. Hanno scelto la vita montana perché conoscono i punti deboli di quella urbana, dunque si battono per mantenere le differenze e orientare un cambiamento responsabile. Non sono diverse le case dei nuovi montanari, semmai è diverso il loro modo di abitarle. Raramente, almeno sulle Alpi italiane, il fenomeno del reinsediamento ha prodotto nuovi modelli urbanistici e architettonici, ma spesso ha trasformato gli stili di vita e di relazione radicati nei vecchi modelli, sollecitando scambi più aperti e servizi collettivi più efficienti, e favorendo esperimenti sociali e culturali di varia natura.
È singolare che sul versante meridionale delle Alpi il crescente “desiderio di montagna” e i rinnovati, in parte inediti scambi con la visione urbana, non generino originali stili progettuali, come avviene per esempio nei Grigioni o in Vorarlberg, o semplicemente nel Sud Tirolo. Talvolta, addirittura, l’opzione culturale della montagna corrisponde alla difesa dei vecchi stili, come se il vivere “all’antica”, nel segno del risparmio atavico, certificasse l’autenticità di una scelta scomoda e controcorrente. Modernità e nostalgia s’intrecciano in un insieme difficilmente scomponibile, forse perché, a tutt’oggi, la modernizzazione delle Alpi viene ancora percepita come speculazione, colonizzazione e degrado, e non come un progetto territoriale capace di tutelare il paesaggio storico e la biodiversità naturale favorendo al contempo gli insediamenti, le socialità, gli scambi e le opportunità creative. Il potenziale processo di “ritorno alla montagna” è un fenomeno fortemente individuale, al più famigliare, che manca di un sostegno politico e di una visione organica. Non si è ancora affermata una nuova rappresentazione delle Alpi e nel migliore dei casi si cerca di aggiornare quella antica.
L’opposizione tra il consumo a fini speculativi, che ha raggiunto l’apice negli anni Settanta del Novecento, e il successivo risveglio ecologista che, nel 1991, su sollecitazione della Commissione Internazionale per la difesa delle Alpi (Cipra), ha portato alla Convenzione ratificata dai paesi alpini, si è successivamente cristallizzata in due visioni statiche. Dal punta di vista dei cittadini, le terre alte continuano a essere un “terreno di gioco” da godere senza ritegno o un parco naturale da proteggere a tutti i costi dalle intromissioni umane. Alpi postribolo o Alpi santuario, senza vie di mezzo. Generalmente gli stessi montanari di lingua italiana partecipano acriticamente al destino alpino, avallando le vecchie logiche speculative e osservando con infinito scetticismo le rare novità progettuali. La dualità è esasperata dall’insanabile conflitto tra montagna e città, il tabù che tenacemente persiste ai mutamenti della storia, alimentato da disinformazione, diffidenze e pregiudizi. All’eterno «lamento della montagna», per usare una definizione del sociologo Aldo Bonomi, si contrappone il disinteresse della città, che continua a intendere le Alpi come un mondo alieno.
Abbiamo avuto una conferma di questo paradosso geografico nell’autunno del 2017, quando l’estate si è prolungata oltre i limiti del calendario e la siccità ha prosciugato i corsi d’acqua. Era il riscaldamento climatico, che da conflitto ideologico diventava pane quotidiano. Mentre camminavamo sulla terra riarsa combattendo l’aria africana, mentre spaventosi incendi devastavano le valli del Piemonte, le pagine de “La Stampa” promettevano una grande stagione sciistica sulle piste della Via Lattea. Torino era ricoperta dal fumo delle sue montagne, i torinesi respiravano la cenere dei loro boschi e il mercato progettava l’inverno dei cannoni da neve, in una raggelante discrasia.
Lo stallo del pensiero è evidente, confermato da quasi due decenni di dibattiti senza proposte veramente condivise. Il grande assente è quell’altro sguardo, o terza via, che liberandosi dai lacci del passato e dalla sudditanza culturale verso la città, riesca a ripensare le Alpi come un luogo degno di essere difeso e vissuto anche nel terzo millennio, e di conseguenza sappia reinventarne le forme accantonando i principi della civiltà e delle identità storiche, ormai tramontate, guardando a una montagna contemporanea inserita nella metropoli globale, un pezzo di mondo che ha urgente bisogno di essere riconcepito, riamato e riabitato in forme diverse dalla pianura, senza soggezione. Questo sguardo dovrebbe convergere su nuove forme architettoniche emancipate dal rustico e dall’urbano, che costituirebbero il vero segnale di rinascita culturale.
Un nuovo paesaggio è possibile. Lo insegnano le regioni alpine in cui il turismo ha saputo inserirsi nel tessuto agricolo e sociale senza stravolgerlo, dove la cultura della montagna è storicamente radicata nel vasto sentire della nazione, dove il progetto politico non distingue pregiudizialmente tra terre alte e basse, e non si guarda alle Alpi come a un mondo passato, segregato e perdente. Perché il futuro è ovunque, tranne che nel pensiero museificato.