Il testimone
“Un eroe esiste soltanto in un tempo di eroi”. Ho ripensato ad Hawthorne leggendo Cassarà, non si può non pensare ad Hawthorne. È vero; un eroe può cambiare faccia, nascondendosi nelle pieghe della nostra società disincantata e secolarizzata, riproducendosi malgrado le catene degli sponsor, sopravvivendo alle convenzioni della pubblicità, ma con Messner si è chiusa un’epoca, una storia è finita per sempre. Cassarà è stato il testimone degli ultimi intensi bagliori di un alpinismo fatto a mano, dove i protagonisti erano individui ben caratterizzati, spesso isolati, quasi sempre originali, testardi sognatori in lotta con se stessi, con le montagne, con il mondo intero. Le leggi del mercato e della comunicazione non riconoscevano i loro sforzi insensati sulle montagne, ma il cittadino (il lettore) si esaltava leggendo di imprese impossibili, identificandosi nell’eroe ai margini della società borghese, vivendo il proprio sogno proibito. Tra Bonatti e Messner si sono consumate le ultime “battaglie” (il linguaggio militare era voluto), le ultime polemiche, gli ultimi gesti estremi degni di essere raccontati al grande pubblico, cosi come London narrava di disperati cercatori d’oro, come Buzzati scriveva di guerre navali sul Mediterraneo, come Varale esaltava il leggendario Comici sugli strapiombi di dolomia.
Eppure proprio Cassarà, come Varale, è stato il più convinto assertore dell’alpinismo “ridotto allo stato laicale”. Dopo una breve, inevitabile infatuazione romantica, si è via via convinto che solo lo sport poteva salvare questa attività splendente e tenebrosa, generosa e individualista, schietta e contraddittoria. Dalle pagine di Tuttosport ha cercato infaticabilmente di persuaderci che alla retorica tragica e ipocrita della competizione alpinistica andava sostituito un agonismo sano, gioioso, sicuro, fatto di regole e di correttezza. Ci ha creduto al punto di giocare tutte le proprie forze e la propria reputazione nell’organizzazione delle prime gare europee di arrampicata sportiva (Bardonecchia 1985), che oltre a segnare la storia dell’arrampicata stessa hanno decretato simbolicamente la fine della sua militanza giornalistica sotto le pareti.
Le cronache di Cassarà sono sanguigne e prorompenti, segnate dalle iperboli e dalla passione, talvolta delicate e profondamente umane, quasi mai neutrali. Il suo giornalismo – come i suoi personaggi – è figlio di un’epoca dove non sembra esserci spazio per azioni mediocri, per tiepidi sentimenti, per facili rinunce. Poi, intorno ai primi anni settanta, anche il mondo dell’alpinismo si trova a fare i conti con i dubbi e le revisioni interiori, ci si volta a contare i morti, si medita su un futuro incerto. E il cronista si sforza di cogliere i cambiamenti senza nascondere il proprio impaccio di fronte a pensieri e situazioni di sempre più difficile interpretazione. La storia si aggroviglia, i personaggi si complicano, gli ideali color grigioverde si fanno pastello, poi scuri, prima di esplodere in un’orgia di tinte sfolgoranti pilotate dalle ditte e dagli sponsor.
Con gli anni ottanta, il cronista deve cambiare. Non più corse sul campo attendendo in rifugio il ritorno degli scalatori, non più telefonate trafelate in redazione. C’è omologazione, ci sono i fax, per raccontare l’alpinismo si impara anche a convivere con gli uffici stampa, le campagne di immagine, gli appuntamenti promozionali. Se al giornalista è dato di registrare e divulgare la straordinaria evoluzione dell’arrampicata sportiva – che passa dal settimo all’undicesimo grado in un decennio mentre erano occorsi due secoli per superare la soglia del sesto -, gli vengono piano piano a mancare quell’autenticità e quella unicità, che facevano di ogni articolo una storia, di ogni impresa un’avventura. Tutto, i veri e falsi exploit, si confondono in un’inflazione che contagia la comunicazione, disorientando cronisti e lettori con un’abbuffata di informazioni da cui fanno fatica a emergere il fatto importante o il personaggio di rilievo.
In questo libro, una delle prime cronache di Cassarà riguarda la solitaria invernale di Bonatti sulla parete nord del Cervino, nell’inverno del 1965. Di quell’avvenimento gli appassionati ricorderanno una foto aerea, sfuocata, che ritraeva il grande Walter sulla vetta, accanto alla croce di metallo. Era un’immagine emozionante, ricca di significati, anche se la figura si distingueva appena, curva sotto l’enorme zaino da recupero, un’immagine emblematica. Oggi, probabilmente, non basterebbe salire il Cervino con una mano sola e a testa in giù per destare le stesse emozioni.
Sono meno bravi gli alpinisti? Meno bravi i fotografi, o i giornalisti? Non credo, è soltanto finita un’epoca.
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