Quando ho saputo del lavoro di Massimo Beltrame, ho pensato: finalmente! Era tempo che qualcuno si dedicasse seriamente a organizzare il racconto delle scalate tra i ghiacci del Monte Rosa, mettendo insieme una delle storie alpinistiche più lunghe, importanti e seducenti dell’arco alpino. Poi mi è venuto in mente un altro avverbio: perché. Perché non l’aveva ancora fatto nessuno? Perché conosciamo la storia del Monte Bianco, dell’Eiger, del Pizzo Badile e delle Tre Cime di Lavaredo, ma del Rosa sappiamo solo qualche pezzo, brandelli di memoria, parole sussurrate, miti da leggere o sfatare, in una parola “misteri”? Credo che i motivi siano tanti, a cominciare dalle prime esplorazioni settecentesche che sul Bianco ebbero subito la risonanza di uno spot mentre sul Rosa restarono una cosa di valle, o di famiglia, come se i sette ragazzi di Gressoney l’avessero fatto solo per se stessi e la comunità walser. E forse fu davvero così.
A insistere nel confronto con il Monte Bianco – sarà la posizione, sarà la geologia – sembra che il granito catturi l’immagine della scalata per rifletterla all’esterno e invece la roccia del Rosa la tenga in sé, incorporandola con le emozioni e i sentimenti. Là c’è una storia pubblica e qui una storia privata, là un alpinismo spettacolare e qui una scalata fatta a mano. Vale per gli alpinisti famosi che sul Monte Rosa passano in punta di piedi, senza fare rumore, e vale soprattutto per gli alpinisti del Rosa, guide e dilettanti, che a quei ghiacci e a quelle pareti dedicano un’intera vita di amori e sudori non ricompensati dalla fama, ma da un ritorno d’affetto.
Per questo motivo, credo, la storia alpinistica del massiccio non era ancora stata scritta, per la paura inconscia della profanazione, e per questo era rimasta fino a oggi storia orale e fiabesca, come le leggende che si raccontavano nelle stalle aspettando il buio o nelle bettole dopo i primi bicchieri. Adesso che è storia scritta, o meglio trascritta, l’avvincente lettura ci consente di correre per due secoli e mezzo di avventure, anche se sul Rosa non si corre quasi mai, si fatica, perché lui è altissimo e lontanissimo da qualunque valle lo si prenda. Sarà sempre una montagna d’altri tempi, un monte che sfugge alle mode e alle modernità, un posto in cui il passo misurato e il piede ben messo valgono ben più del bicipite tirato a lucido. Leggerete di vie facili ed estreme, ma non fermatevi ai gradi: sul Rosa si scalano dei sogni resistenti alle classificazioni.
Pubblicazione