Dodici anni fa, quando ragionavo sulla “nuova vita delle Alpi”, mi pareva chiaro il punto di partenza: la civiltà tradizionale alpina era finita per sempre. Se si aveva il coraggio di partire da quel presupposto, tutt’altro che scontato dopo decenni di letture acritiche e agiografiche, restavano sostanzialmente tre possibilità per le Alpi: o tornavano a vivere in forme nuove ancora in gran parte da inventare (è il tema di questo libro), oppure erano destinate a diventare il museo di se stesse o la periferia della città.
Le ultime due strade erano state rovinosamente percorse negli ultimi decenni del Novecento, al punto che i montanari – per soddisfare la nostalgia dei cittadini (o di se stessi?) – sembravano disposti a recitare la parte del “buon selvaggio” al tempo di internet, oppure, sul versante opposto, si erano adeguati a fare i camerieri del modello consumistico in improbabili suburbi d’alta quota, subendo la crisi di un sistema che nemmeno gli apparteneva, e ciononostante avevano creduto infallibile.
La terza via era assai meno evidente delle altre due, e tutta da sperimentare, anche se mi sembrava chiaro che la Convenzione delle Alpi avesse indicato il cammino, ponendosi come una (profetica) carta di principi sovrastatali e sovralocali cui gli stati e le comunità alpine avrebbero potuto ispirarsi, adattandoli alle singole situazioni. Era la via dello sviluppo sostenibile, un concetto così frusto e dialetticamente abusato da apparire quasi superato, eppure fondamentale se si provava a guardare alle Alpi – almeno a quelle – come a un luogo da difendere e salvaguardare. In forme vive, non museali.
Oggi, dopo un decennio che ha marcato ancora di più il dislivello culturale e amministrativo tra le Alpi tedesche e le altre Alpi, se mi si chiedesse che cosa sia cambiato sull’arco alpino italiano risponderei così: sul piano dell’immagine è cambiato pochissimo, tanto che giornali, web e televisioni continuano a inseguire il solito vecchio schema bipartito: le nostalgiche Alpi della tradizione e le “moderne” Alpi del divertimento (consumo) urbano; sul piano delle politiche è cambiato altrettanto poco, perché se si escludono le regioni a statuto speciale non si nota alcun interessamento nuovo dei governi regionali italiani per i destini delle loro montagne, tuttora considerate arretrate e perdenti, almeno dal punto di vista elettorale; sul piano delle avanguardie è cambiato qualcosa, e lo dimostrano gli incoraggianti casi descritti nelle pagine che seguono (inversioni demografiche, buone pratiche sul territorio, eccetera) e l’ampio dibattito sviluppatosi intorno alle Alpi come laboratorio d’Europa, cui partecipano forse solo gli addetti ai lavori, per ora, ma con elevata competenza e progettualità; sul piano progettuale, appunto, è cambiato abbastanza: oggi abbiamo finalmente gli strumenti teorici per costruire un futuro alternativo per le terre alte. Basterebbe volerlo.
Ma mentre sulle Alpi si procedeva tutto sommato a rilento, e troppo spesso controcorrente, il mondo intorno vacillava, si piegava, precipitava. Ogni ragionamento ormai va rovesciato se guardiamo al rapporto città-montagna con gli occhiali della crisi. Lì il futuro è già un altro.
Al tempo di Nuto Revelli e de “Il mondo dei vinti” sembrava impossibile arrestare l’emorragia dei montanari verso le fabbriche della pianura. Quando il mercato dello sci portava la città a mille e duemila metri, aprendo agenzie immobiliari e pizzerie ovunque, pareva che avremmo avuto neve ed energia per sempre, e gratis. Dieci anni fa, quando pubblicavo “La nuova vita delle Alpi”, la città (il modello consumistico urbano) poteva ancora apparire invincibile ai più. Oggi anche i più inguaribili sostenitori dello sviluppo a senso unico sono costretti ad ammettere che qualcosa è andato storto, che forse al fondo esistono dei limiti, che quando una famiglia ha due automobili in garage è difficile pensare di fargliene comprare una terza, specie se gli stipendi e il potere d’acquisto sono dimezzati. Al tempo della crisi, che non è un fatto contingente ma un problema strutturale, duraturo, risulta evidente anche ai più convinti liberisti che forse non è più così opportuno che – per incentivare la concorrenza, salvare le lobbies e sollevare il prodotto interno lordo – i Tir percorrano migliaia di chilometri per trasportare merci esotiche, o che l’agricoltura intensiva globale distrugga ogni speranza e ogni peculiarità dei territori – per esempio le Alpi – capaci di fare e vendere prodotti di alta qualità. Dopo le delusioni della crisi economica e le illusioni di una rapida ripresa, sembrerebbe anche ai ciechi che un modello equilibrato di filiere territoriali di produzione e consumo, a minor costo e impatto ambientale, potrebbe portare dei vantaggi e assicurare un realistico futuro. Non si tratta di ritornare al vecchio modello autarchico alpino, che probabilmente non è mai stato tale, ma di progettare una metropoli che sappia incorporare anche la montagna, esportando in pianura i principi virtuosi delle abilità alpine (non solo le risorse delle montagne) e non esportando nelle valli le degenerazioni fallimentari della civiltà urbana.
Se la fabbrica di pianura o bassa valle non assicura più lavoro e futuro ai giovani, allora la montagna può tornare a essere un’alternativa. Con fantasia e pazienza, e senza rimpianto.