Catalogo della mostra, Museo Nazionale della Montagna, Torino 15 febbraio – 5 giugno 2005
A cercare un collegamento tra le illustrazioni raccolte in questo quaderno c’è da farsi venire il mal di testa. Si passa senza apparente continuità dalle belle donne agli svaghi reali, dagli animali alpini ai viaggi avventurosi, dagli idilli alpestri alle montagne vertiginose, dalla rappresentazione pittorica alla cronaca. E soprattutto si scivola con troppa disinvoltura dalla montagna “buona”, ben predisposta e ben ricambiata, all’alpe “omicida” in forma di valanghe, frane, drammi bellici, catastrofi alpinistiche. Sembra che i disegnatori si divertano a stuzzicare il pubblico con messaggi contraddittori, prima spingendolo verso il mondo delle cime con i più potenti mezzi di attrazione in possesso del giornalismo – la bellezza, il mistero, la ricchezza – per poi ricacciarlo in basso attraverso la vertigine del vuoto, la paura della caduta, l’inorridita reazione al sangue e alla morte delle montagne “assassine”. Eppure se non si ragiona troppo, se si giudicano più gli effetti che i contenuti, i disegni sembrano assomigliarsi tutti, e non solo per lo stile e la tecnica adottata dai vari autori delle copertine illustrate. Visti dall’alto del nostro disincanto tecnologico e della nostra bulimia da immagine ci appaiono figli di uno stesso pensiero, o almeno di un modo di vedere e rappresentare il mondo che nasce da una cultura comune, omogenea, niente affatto contraddittoria. Infatti i disegni e le illustrazioni sono tutti figli della cultura novecentesca e si dipanano in un arco di tempo che va esattamente dall’alba del secolo fino al secondo dopoguerra, quando l’avvento della fotografia su scala di consumo, e soprattutto la comparsa della televisione, rendono improvvisamente vecchie e patetiche le mirabolanti copertine disegnate a mano. E così ci si dimentica che, proprio in quanto artigianali, le vecchie copertine delle riviste illustrate erano la più fedele testimonianza del modo non solo di vedere, ma anche di interpretare gli ambienti e gli avvenimenti secondo la morale e il gusto dell’epoca, meccanismi ingenui, certamente, ma efficaci e trasparenti nel restituire la rappresentazione del mondo.
Quando la montagna arriva in copertina siamo più o meno negli anni in cui Edmondo De Amicis, scrittore acclamato e anziano, trepido padre dell’alpinista Ugo, declama al pranzo del XXXIV Congresso degli alpinisti italiani:
«A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita (poiché vivere, nell’alto significato della parola, è salire); auguro quanta felicità è possibile in un mondo dove è legge la lotta; e tutti i conforti che possono dare ai dolori inevitabili l’ardor del lavoro, il sentimento della forza, l’ammirazione della natura, e una profonda, invitta fede nella potenza infinita del bene, destinato all’ultima vittoria nel mondo» (Nel regno del Cervino. Gli scritti del Giomein, Torino, 1998).
Sono gli ingredienti essenziali della religione della montagna, sintesi tra i valori di ardimento dell’Italia risorgimentale, laica e liberale, e lo sguardo filantropico del socialismo umanitario di inizio Novecento. Tra le righe del messaggio inviato alla «gioventù e alla fanciullezza», si possono individuare i temi archetipici dell’etica delle cime: innanzi tutto il vangelo di Guido Rey – «Credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede» –, che attraverserà tutto il secolo stampigliato sulle tessere dei soci del Club alpino; poi il principio virile e virtuoso della salita, che distingue i casti cimenti delle vette dalle lascive mollezze del piano e delle peccaminose spiagge marine; infine, accompagnata dalla compassione per le pene dell’esistenza umana, la fede nel bene superiore (un bene etico segnato da un attributo fisico: più alto, più vicino all’assoluto). In tal modo l’alpinismo, attività atletica fondata su sane pratiche e buone tecniche, si candida come il veicolo simbolico di un riscatto morale.
Ebbene, quasi niente di tutto questo traspare nelle copertine delle riviste illustrate, perché all’inizio del Novecento si è già creato quello scollamento (che si rivelerà irricucibile con l’andar degli anni) tra la cultura specialistica della montagna, che è la cultura degli alpinisti, e la rappresentazione della montagna stessa sui grandi media, niente affatto interessati alla funzione educatrice dell’alpe (per i giornali di alta diffusione la A maiuscola dell’Alpe di Guido Rey non aveva e non ha alcun senso), ma molto attratti dai caratteri spettacolari delle vette, siano essi in forma “pacifica” o in forma “violenta”, con una sempre più spiccata e perversa predilezione per la tragedia. «Belli, ricchi o meglio morti in copertina» potrebbe essere lo slogan di mezzo secolo di illustrazioni per le masse.
Con una semplificazione si potrebbe ipotizzare che se il motivo ispiratore della montagna degli amatori e degli specialisti è la radice romantica (in una perenne, mai risolta contrapposizione con la città), sui giornali e nell’immaginario collettivo prevale la montagna eroica, forzata, disincantata, altrettanto falsa di quella romantica ma per ragioni opposte.
Se infatti la falsificazione del romanticismo cara agli alpinisti deriva dal fatto che i cittadini vedono sulle montagne solo ciò che vogliono vedere (pace, vita sana e virtuosa, ambiente possibilmente incontaminato), nella visione “eroica”, che è la visione divulgata all’esterno del mondo alpinistico, dominano gli elementi esasperati dello sfarzo, del bel gesto, della velocità, del tragico destino. Si tratta evidentemente di un’altra falsificazione urbana che, come la prima, ignora chi in montagna ci vive veramente e fa fatica a passare l’inverno. In una parola ignora il montanaro.
I temi della divulgazione alpina erano già stati anticipati da Albert Smith con lo spettacolo del Monte Bianco (Londra, Egyptian Hall di Piccadilly, 1852), che raggiunse le duemila repliche, e dalla funesta eco che dopo la tragedia del Cervino (1865) diffuse in mezza Europa la paura della montagna, ma il vero banco di prova e di affermazione della montagna eroica doveva ancora venire. Fino alla primavera del 1915 le Alpi al di sopra dei duemila metri erano un mondo realmente incontaminato, attraversato dai cacciatori di camosci, dalle guide e da pochi aristocratici che annotavano sui loro taccuini: «Sulla sommità del mondo riposa meglio l’uomo che ha faticato per raggiungerlo». Poi scende l’apocalisse e dopo due anni di guerra niente è più come prima.
Osserva lo storico Diego Leoni: «Il soldato-alpino arrivò dove l’alpinista non era mai arrivato, usando chiodi, scale, scavando nella roccia e lì stanziandosi per mesi e anni: non solitario conquistatore, ma membro di una “tribù” che vantava diecine di migliaia di appartenenti…
La montagna cambiò volto: venne attraversata da sentieri, mulattiere, gallerie, strade (2500 chilometri di carreggiabili e camionabili sul fronte italiano; 400 solo su quello trentino), percorsa da teleferiche, occupata da baracche e fortificazioni. Opere e mezzi che imposero una diversa organizzazione spazio-temporale del territorio alpino, prefigurando, e preparandone, la conquista da parte del moderno turismo di massa» (La montagna violata, in “Materiali di lavoro”, 3, 1990).
La Grande Guerra scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura. Nel bene e nel male, più nel male che nel bene, la guerra porta il popolo sulle montagne e gli fa scoprire un mondo ignoto, una frontiera collettiva inesplorata nel cuore dell’Europa contadina e industriale. I valori di eroismo e virilità collegati al sacrificio degli alpini e ai simboli retorici del fiasco di vino e del vecchio scarpone sono destinati a guadagnarsi un ruolo forte e duraturo nel Novecento, offuscando le reminiscenze romantiche dell’alpinismo delle origini. È il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dai regimi, riprenderanno la strada della montagna in tempo di pace con i treni della neve, i campeggi giovanili, le associazioni escursionistiche popolari.
La guerra consacra lo stereotipo della montagna tragica e austera, su cui il fascismo farà presa per cantare le gesta eroiche degli alpinisti campioni della patria. Uno stereotipo durissimo a morire. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato così tanto tempo a sbiadire e a perdere consenso, anche se si tratta di una memoria di violenza e di morte, anche se è il ricordo di un inutile sacrificio e di una feroce carneficina che lasciò sulla terra una generazione di ragazzi innocenti. Armando Biancardi ha scritto: «Si avvertono, tra alpinismo e guerra, analogie che sorprendono. La morte vicinissima, lo spirito di corpo (la cosiddetta solidarietà alpina, così viva tra le penne nere), lo stesso abito da alpinista: non è un po’ come una divisa? Il mangiare e il bere, i cori, le notti sotto le stelle: non sono per alpinisti e militari dello stesso stile? Lotta, martirio, eroismo: chi ha trovato come proprio ideale quello di scalare le difficili montagne, sa come tutto ciò stia nell’essenza dell’azione alpinistica» (Un surrogato della guerra, in “Rivista del CAI”, 1975).
Su questi ingredienti, per i circa cinquant’anni illustrati sulle copertine, i registi, gli scrittori e i giornalisti hanno costruito la rappresentazione della montagna. Fino all’estate del 1954, quando gli italiani scalano il K2, De Gaspari immortala il successo di Compagnoni e Lacedelli sulla Domenica del Corriere e Paolo Monelli commenta su “La Stampa” di Torino:
«Per quel tricolore legato al manico di una piccozza piantata sulla più alta vetta del mondo che fosse tuttora inviolata, oggi noi italiani andiamo per via come ci fossimo messi un fiore all’occhiello, con passo più alacre, con cuore più lieve. Ancora non conosciamo il nome di chi primo abbia posto il piede sulla cima, e questo non importa, perché una cima non è conquistata da un singolo individuo, ma da un’intiera cordata, una squadra di uomini che, legandosi l’uno all’altro, si consacrano solidali nello stesso rischio, per la stessa vittoria o la stessa morte. Misureremo più tardi in tutto il suo impegno questo tenace sforzo di nervi e di volontà, quando ne conosceremo i particolari dalla viva voce dei ritornati. Oggi basta la notizia pura e semplice dell’impresa a rallegrare noialtri cittadini qualunque, senza ambizioni e abilità e competenze speciali, che amiamo la patria di un amore patetico e disinteressato». Il fascismo e le due guerre sono ormai lontani, eppure la rappresentazione della montagna è rimasta fedele alla vecchia retorica eroica. Ci vorranno il Sessantotto e la televisione per spazzarla dalle riviste.
Eppure in questa raccolta non ci sono solo alpini macchiati di sangue, tragedie dell’alpe, eroi figli della montagna violenta; nei disegni in prima pagina, accanto alle rappresentazioni di morte, appaiono anche espressioni di vita. Sulle copertine della prima metà del Novecento incontriamo donne discinte con gli sci ai piedi, gonne al vento sulla neve, giovani gagliardi, manifestazioni di ebbrezza, esibizioni di gioia. E allora? Il nesso tra spettacolo drammatico e spettacolo ludico, entrambi estranei alla tradizione romantica delle cime, passa attraverso il nuovo “eroismo” della cultura turistica novecentesca che, scardinando decenni di Alpi castigate e poetiche, di ritmi lenti e silenziosi, di atteggiamenti introversi e iniziatici, irrompe con l’esuberante, violenta trasgressione dell’erotismo, del gesto sportivo, della vertigine alpinistica, della velocità sulla neve.
A guerra (la Grande Guerra) ormai finita e apparentemente rimossa, la “modernizzazione” della montagna non si manifesta più con le tecnologie belliche e le macabre rappresentazioni del sangue e del sacrificio, ma con modelli speculari e contrari come l’esibizione ludica del corpo, l’ebbrezza modernista dei muscoli e degli attrezzi, le sfide delle imprese impossibili, l’esportazione in quota del lusso, della moda e dell’ostentazione borghese. Con questi ingredienti il turismo “riconquista” le cime in tempo di pace e, mantenendo alta la curiosità del grande pubblico, conserva un posto alla montagna “eroica” in copertina. Finché – appunto – non arrivano il Sessantotto e la televisione a cancellarla definitivamente.
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