Un giorno hanno chiesto a Reinhold Messner se si considerasse prima di tutto un alpinista, un esploratore, un intellettuale, uno scrittore o un politico. Lui, spiazzando tutti come al solito, rispose “un contadino”. Mettendo al primo posto l’orgogliosa appartenenza alla matrice contadina, Messner – uomo di mondo e uomo di frontiera – sottolineò quella relazione con la terra e con gli animali che è scolpita nel codice genetico del montanaro, il sapere materiale tramandato oltre ogni memoria d’uomo, la fedeltà simbolica agli attrezzi da lavoro, il rapporto di pelle – quasi di carne – con gli animali della stalla, la cultura stanziale e profondamente radicata dell’agricoltore di montagna. La risposta di Messner significava che l’uomo di montagna è legato alla terra e al paesaggio della terra e che, anche se costretto a emigrare lontano, anche se la transumanza lo ha portato in altre valli e in altri paesi, il contadino alpino non è mai un vagabondo o un viaggiatore, ma resta il custode dei terreni e dei pascoli che ha ricevuto in eredità. Eppure questa sensibilità ancestrale che lega buona parte degli abitanti delle Alpi è insidiata dai nuovi stili di vita e mostra segni di crisi ormai congeniti. I due terzi delle aziende agricole operanti nel territorio alpino sono gestiti come attività non più principale (a tempo pieno), ma accessoria. Una percentuale elevata di aziende intese come attività primaria si trova ormai solo in Francia e in Svizzera, e in quest’ultimo caso uno dei motivi è da ricercare sicuramente nei lauti contributi pubblici che consentono agli agricoltori di non ricorrere ad altre fonti di reddito, restando sul territorio.
Una recente indagine svolta dal Dipartimento di Scienze Zootecniche dell’Università di Torino sugli alpeggi delle Alpi piemontesi ha messo in luce una riduzione del cinquanta per cento degli alpeggi attivi negli ultimi vent’anni del Novecento, a fronte di un significativo aumento degli ovicaprini e di un meno marcato aumento dei bovini. Questa apparente contraddizione indica che l’abbandono dei pascoli di media e alta montagna viene spesso compensato con un allevamento intensivo in alcune aree particolarmente agevoli, perché appoggiate da strade, vicine ai centri abitati o beneficiarie di aiuti.
Questa tendenza va naturalmente a discapito della qualità dei prodotti caseari e soprattutto della loro diversificazione sul territorio, ma va anche a incidere profondamente sulla qualità dell’ambiente e del paesaggio culturale delle Alpi.
Questo è il primo impoverimento dell’agricoltura alpina, la perdita di identità, che non va solo pensata in senso tecnico (il Fontal dei supermercati tende a uccidere la vera Fontina), ma anche e soprattutto in senso culturale. Se i terreni coltivati scompaiono viene a mancare anche quel paesaggio, quella tipicità territoriale, quel significato antropologico che per quasi mille anni ha fatto sentire i montanari come parte di un mondo specifico, e verso la fine del Settecento ha attratto i viaggiatori romantici, che avevano un bel dire sulla natura incontaminata e sulla wilderness, ma in realtà erano e sono ancora affascinati da un territorio che è perfetta, indistricabile fusione di paesaggio naturale e paesaggio umano.
Possono sembrare distanti la percezione del montanaro e quella del cittadino, ma in fondo si sorreggono a vicenda. I valligiani (intesi come gente che sceglie di vivere in montagna) hanno bisogno di un paesaggio lavorato (anche in modo moderno e innovativo), per riconoscersi in un ambiente frutto del loro lavoro, obiettivo irraggiungibile se la montagna diventa periferia e surrogato della città. I cittadini, specularmente, cercano una montagna che non sia mera protesi urbana, ma offra invece requisiti di qualità paesaggistica, culturale e produttiva in quantità superiore alla città. Agricoltura e turismo si sostengono vicendevolmente, sono l’una nelle mani dell’altro e viceversa.
Il riscatto dell’agricoltura di montagna è ipotizzabile solo nei termini di un’elevata riconoscibilità del prodotto e di una collocazione diretta sul mercato locale attraverso un circuito virtuoso con il mercato turistico: agriturismi, coltivazioni biologiche, marchi tipici, prodotti estremamente differenziati e assolutamente caratterizzati in base alla zona addirittura all’azienda di provenienza. Non c’è alternativa. La montagna è costretta a seguire questa direzione.
D’altra parte esistono già alcuni successi che testimoniano la bontà della scelta. In Valle d’Aosta, per esempio, fino agli anni Ottanta del Novecento il vino era di cattiva qualità o importato. Tutto si poteva dire della Vallée, tranne che fosse la regione del buon vino. E invece, attraverso il recupero dei vecchi vitigni, il ripristino dei terreni coltivabili, l’importazione di nuovi vitigni da altre regioni, una lavorazione enotecnica di alta qualità, e soprattutto con oculate operazioni di promozione e riqualificazione del prodotto, oggi – da Donnas a La Salle – la valle offre una vasta gamma di vini rossi e bianchi in grado di accontentare ogni palato.
Nei ristoranti valdostani si consuma quasi solo vino locale e il turista può avvicinarsi al Monte Bianco percorrendo la Route des Vins e scegliendo tra decine di etichette.
Ma è ipotizzabile e auspicabile un sistema di contributi diretti verso l’agricoltura di montagna con il solo scopo della manutenzione del territorio e della cura del paesaggio?
Perché no! Se la qualità del paesaggio è presupposto indipensabile per la sopravvivenza della montagna, sarebbe più che lecito sovvenzionarne i “giardinieri”, cioè gli agricoltori, cioè coloro che concorrono a mantenere “sano” il territorio alpino a benificio (culturale ed economico) di chi ci abita e di coloro che vi salgono per soggiorno. In una società e in un’economia sempre più orientate verso la produzione di beni immateriali, dovrebbe essere naturale attribuire un valore al paesaggio, anche se la cultura corrente è ancora ben lontana da questa prospettiva.
E non vanno sottostimate le ricadute sociali di un simile investimento, perché il primo problema della montagna (sia ricca che povera) è l’emorragia di identità delle popolazioni, la perdita di modelli aggreganti, lo smarrimento dei cicli di vita e di lavoro che non portavano i giovani a invidiare la città, ma offrivano un senso e uno scopo a ogni generazione alpina. Se a livello politico allargato, quindi anche centrale (soprattutto regionale), si cominciasse a riconoscere un valore, una posizione, un ruolo a chi si occupa del territorio alpino, allora gli attuali emarginati potrebbero diventare personaggi d’avanguardia, innovatori, insostituibili sostenitori di ciò che ci manca e ci mancherà sempre più: la qualità della vita.
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