Si direbbe che la specie umana sia l’unica che non sappia adattarsi alle modificazioni ambientali. Non più. Mentre le altre specie animali e vegetali salgono di quota, modificano le abitudini, adattano i cicli biologici e approfittano delle nuove opportunità archiviando quelle vecchie, di fronte al cambiamento climatico l’uomo occidentale persiste implacabilmente e masochisticamente sulla vecchia strada, incapace di immaginarne una nuova. Secondo la logica imperante dello sviluppo è addirittura tabù ipotizzare delle vie alternative. Chi ne parla è spesso considerato un sovversivo. Siamo saliti su un treno progettato per correre in un’unica direzione e destinato a fermarsi solo dopo lo schianto, che è l’esatto contrario di quanto facevano i montanari di una volta, grandi maestri del risparmio, del rattoppo e dell’attesa.
Lo sci per esempio, un’industria piuttosto giovane e piuttosto arrembante, che da poco più di mezzo secolo costruisce e vende divertimento outdoor e da qualche tempo produce anche la materia prima, la neve, un po’ come se gli impianti balneari fabbricassero l’acqua del mare. Ormai lo sci di massa è una pratica artificiale a tutti gli effetti, anche se la promozione turistica insiste ad ambientarla tra candide vette e immacolati versanti. Lo sci è un’industria che deve funzionare ovunque e in qualunque condizione climatica, a Dubai come sulle Alpi, anche su nastri posticci che sembrano strisce di carta igienica. Si chiama neve programmata ed è l’unico adattamento individuato dagli imprenditori del settore per rispondere al riscaldamento climatico: la fake snow, com’è stata definita da Daniele De Luca sulla rivista online “Estreme conseguenze”. La conseguenza, appunto, è che sciare ci costa sempre di più e che i poveri pagano la neve finta dei ricchi.
Altre strade sarebbero percorribili senza compromettere un mercato che indubbiamente dà lavoro a molte persone e ha plasmato irreparabilmente intere valli, o fette di valle, orientandole al turismo di massa e chiudendosi di fatto le vie di fuga. Nessuno si sogna che posti come Sestriere, Pila o Marilleva si trasformino da stazioni sciistiche in qualcos’altro, perché non hanno più scelta, ma tutti dovremmo reclamare che si cambi rotta altrove, e molto in fretta.
Innanzitutto che non si parli più di nuovi impianti di risalita, come prescrive da quasi trent’anni la lungimirante Convenzione delle Alpi. Che si dia retta alle previsioni della comunità scientifica internazionale rinunciando alla pratica dello sci sotto i 1800-2000 metri, dismettendo gli impianti a quota inferiore e ripristinando l’ambiente che c’era prima. Che si cominci a godere della neve quando c’è e di altri piaceri quando non c’è, preparandosi all’evento. Che si rivalutino le forme di sci storiche e strutturalmente ecologiche, che non hanno bisogno degli impianti di risalita e della neve artificiale; che si aprano finalmente gli occhi sulle pratiche alternative di grande potenzialità come lo scialpinismo, sport amato e frequentato oggi più che mai, che sostiene le fabbriche di sci, non incide sull’ambiente alpino e non costa un soldo alla comunità. In definitiva, che si slittino progressivamente gli investimenti pubblici verso il turismo dolce e sostenibile, creando nuove professionalità e nuovi posti di lavoro.
Come sempre a monte di tutto s’impone una trasformazione culturale. Per troppo tempo il mercato e i media hanno divulgato un’immagine patinata e falsa della montagna invernale, come non esistesse un’altra montagna, o non fosse abbastanza degna per la gente che conta. Invece la vera protagonista di domani sarà la montagna estiva, il corridoio ecologico più vicino alle città e il più lontano dall’afa e dall’inquinamento urbano. Sarà una montagna più verde che bianca, comunque un mondo bellissimo. Dipende solo da noi.
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