Per gli antichi il Monviso era l’immagine più vicina alla montagna sacra, dea di acqua e fertilità. A sentimento alterno, il monte del Po fu motivo di vertigine e sorgente di ammirazione. «Nella parte occidentale dell’Italia – scrive Francesco Petrarca – dalla catena dell’Appennino si leva il Monviso, un monte altissimo, isolato, che, innalzandosi con la sua vetta oltre le nuvole, si slancia nell’aria limpida. È una montagna famosa di per sé, famosissima per le sorgenti del Po che, sgorgato dal suo fianco con un rigagnolo, procede verso oriente, e subito gonfiatosi dopo un breve percorso per uno straordinario apporto di acqua, è definito da Virgilio non solo uno dei fiumi più grandi, ma il re dei fiumi».
Alla celebre definizione Vesulus pinifer, montagna visibile ammantata di pini, coniata da Virgilio nel decimo libro dell’Eneide, seguono le citazioni di alcuni autori latini. Anche Dante dedica un cenno al Monviso nell’Inferno della Commedia: «Come quel fiume ch’ha proprio cammino prima da monte Veso inver levante dalla sinistra costa d’Appennino». La fama del Monviso varca le frontiere nazionali, tanto che il poeta Geoffrey Chaucer lo cita due volte nei “Racconti di Canterbury”. Chaucer scrive in inglese antico: «…of Saluces the contree, And of Mount Vesulus in specale, where as the Poo out of a welle smalle Taketh his first spryngynge and his sours», che significa: «…della regione di Saluzzo, e in particolare del Monte Viso, dove il Po trae il primo balzo da una piccola sorgente». Leonardo da Vinci è il primo a introdurre il nome attuale della montagna: «un miglio a pie’ di Monviso…»
Oggi come ieri il Monviso è un blocco gigantesco, il sasso più grande delle Alpi Cozie, il più visibile, il più desiderato, il più descritto, il più indescrivibile. La gente della pianura crede di avere sulla testa il triangolo eterno, la montagna di Cartesio, ignorando che invece è il frutto del disordine creativo e della fugacità delle forme. L’illusione geometrica è solo un lampo prospettico, una fugace fotografia del lungo percorso geologico che, milioni di anni fa, ha innalzato il massiccio di pietre verdi e contemporaneamente ha iniziato il processo distruttivo, lasciandolo isolato come una piramide. Il Monviso dimostra che le montagne più belle non sono il risultato di un accumulo ma di una sottrazione. Come qualunque altra scultura progettata dalla natura o dall’uomo, la geometria del monte deriva dall’opera di spoliazione della materia, di cui noi vediamo ciò che resta e non quanto c’era prima. Possiamo immaginarlo guardando i ghiaioni disseminati intorno.
Tuttavia il Monviso è speciale per tre motivi: la forma, l’isolamento e la visibilità. I tre fattori presi singolarmente non ne farebbero una montagna eccezionale, ma insieme sono unici. Nessun’altra montagna delle Alpi può vantare un profilo così definito a fil di cielo (anche se la forma geometrica si perde osservandolo da sud, o da ovest) abbinato a un isolamento così imperioso (le altre cime gli rendono almeno cinquecento metri) e una visibilità così ampia. Dalle alture di Mondovì alla Serra di Ivrea il Monviso è una presenza inconfondibile, ma si vede anche dalla punta del Cervino, dai colli delle Langhe e dalle guglie del Duomo di Milano. Quasi dappertutto, solitario nel suo cielo.
Se una sera d’inverno, a Torino, si guarda a sud ovest dal ponte monumentale, in testa al Po svetta il triangolo traslucido nella luce del tramonto. Per i torinesi non è neanche più un monte, piuttosto un simbolo, un logo di appartenenza, come quello della Paramount che qualcuno vorrebbe copiato proprio dal Monviso anche se non ci sono prove. Per i piemontesi il Monviso non è una montagna ma La montagna, presenza familiare per chi esce all’alba a coltivare la terra e per chi rincasa dalla fabbrica dopo il turno di notte, e persino per chi gli sfugge ogni giorno chiudendosi in un ufficio. I piemontesi non lo notano quasi più, ma se “il Viso” sparisse gli mancherebbe un occhio.
Quintino Sella lo sapeva quando decise di salire in cima per imporre la bandiera italiana. Era l’agosto del 1863. Faceva un caldo del diavolo. Con il conte Paolo Ballada di Saint Robert, suo fratello Giacinto e il barone Giovanni Barracco, Sella partì per la Val Varaita, raggiunse Casteldelfino, assoldò le guide del posto, riempì gli zaini di provviste e strumenti scientifici e si spinse oltre i boschi e i sentieri di Vallanta per alzare finalmente la testa di fronte allo strapotere inglese sulle Alpi. L’ascensione siglò idealmente, ma anche materialmente, e tardivamente, la nascita del Club Alpino Italiano in risposta all’Alpine Club di Londra. Fu una scalata politica, anche se Sella parlò di rocce:
«Il Monviso si compone di scisti ora serpentinosi, ora cloritici, ora talcosi, i quali passano tal fiata alla quarzite ed alla lavagna… Questi scisti hanno ad un grado altissimo la proprietà di sfaldarsi grossamente… Quindi è che nell’ingolfarsi tra queste orride gole spesso è poco sicuro il piede, che posa sopra rottami, che facilmente vi sfuggono sotto, e sovente non è ben salda la mano che si aggrappa a pareti, cui basta un lieve sforzo per staccarle dalla montagna. Non è quindi malagevole a capire come il Monviso sia per tanti secoli stato dichiarato inaccessibile anche dai più arditi montanari, che ne vivono a’ piedi…»
In realtà i valligiani avrebbero potuto salirlo molti anni prima, se avessero avuto un motivo. Ma non c’era ragione di correre dei rischi, e mancava un premio sufficiente, finché gli stranieri precedettero gli indigeni e la guida di Chamonix Michel Croz diede lezione ai montanari del luogo. Fu come se un marinaio venisse a esplorare il mare di casa, ma neanche quello bastò. Solo la politica internazionale riuscì a smuovere i piemontesi, nel momento in cui il Regno d’Italia ebbe tracciato le sue frontiere. Per Sella e i fondatori del Regno il Monviso divenne una questione di orgoglio di stato. Sebbene appartenesse territorialmente al Piemonte e all’Italia, la montagna si trovava molto vicino alla linea di confine e spartiacque tra due nazioni: di qua il Regno d’Italia, di là il Regno di Francia, in mezzo il regno perduto. Infatti il Monviso non era più da tempo il cuore delle Repubblica degli Escartons, che per secoli aveva accomunato usi, lingue, costumi e speranze delle regioni ai suoi piedi, dalla Castellata della Val Varaita alle valli del Briançonnais, dall’alta Val Chisone alla Valle di Susa. Il Monviso aveva unito i territori che tra il Trecento e il Settecento interpretavano il triangolo di pietra come fulcro e cerniera, abitandogli attorno. Adesso che non era più un centro, il re di pietra era diventato l’emblema di una simbolica riscossa post risorgimentale che, sostituendo la piccozza al moschetto, tentava di riappropriarsi della frontiera alpina.
La severa e bella parete nord è ancora un successo straniero, poi si cambia di secolo e il Monviso torna a essere la montagna dei piemontesi. Torna e chiamarsi “Viso”. L’affetto, la familiarità e una certa gelosia di provincia sono le sue vocazioni naturali, perché il Viso non offre la roccia patinata del Monte Bianco o i ghiacciai da cartolina dell’Oberland Bernese, non ha raggiunto la nomea internazionale del Cervino e non si trova sulle rotte transalpine, a parte il vecchio tunnel scavato a mano sotto il Colle delle Traversette, che si potrebbe definire il primo traforo alpino. Il Monviso va conosciuto a fondo per essere amato. Il monte va scoperto, desiderato e anche un po’ detestato, come certe donne che non si svelano facilmente e serbano una bellezza privata, nascosta. Ci vuole un’educazione sentimentale per innamorarsi del Monviso e delle sue pietre esagerate e immense.
Dopo i pionieri dell’alpinismo ottocentesco, generazioni di piemontesi sono state rapite dal fascino del monte di casa propria, fino a perdere il gusto per il viaggio “esotico”. Hanno preferito camminare nelle loro valli e sui domestici sentieri, riscoprendo senza stancarsi i familiari dettagli sotto nuove luci, come se l’infinita nostalgia del mondo vi fosse completamente racchiusa e non servisse rincorrere altri profili, altre mete, altre sfide. Il bello era in quel Viso a un passo da casa, bastava saperlo vedere. Gli amatori spiano il Monviso e lui li scruta, li perquisisce, anche quando salgono in processione ai laghi Fiorenza e Chiaretto, sulla mulattiera piallata dagli scarponi tra il Pian del Re e il rifugio Quintino Sella, aggirando le acque che specchiano il Viso e lo svelano. Trasfigurandolo. Per i più ambiziosi «andare a Viso» vuol dire tentare la cima della montagna, che è un rito della tradizione, quasi una cerimonia. Di solito si prova a salire a settembre, quando l’estate ha ripulito le rocce e la via normale, da sud, è un cammino aspro, roccioso e faticoso, ma alla portata di molti. Un’ascensione sentimentale per chi è nato da quelle parti. I cuneesi e i saluzzesi portano figli e figlie a Viso almeno una volta nella vita, come un’iniziazione.
Negli ultimi duemila anni il Monviso non è geologicamente cambiato più di tanto, anche se ha perso il ghiacciaio pensile della parete nord, ha quasi perso i nevai perenni ed è stato salito da decine di migliaia di alpinisti. Invece è molto cambiata l’immagine del monte e si è gradualmente rovesciato il senso. La montagna sacra cara ai latini e ai poeti di ogni tempo è diventata la cresta di frontiera da conquistare ed esibire come un trofeo di stato, poi il terreno di caccia dell’alpinismo esplorativo, poi il marchio per sostenere lo sviluppo turistico delle valli, poi il logo di qualche acqua minerale, poi la palestra per crescere i ragazzi della pianura, infine il totem padano per il rito leghista dell’ampolla, come se il grande fiume dividesse l’Italia in due parti invece di dissetarla. La sacralità e l’internazionalità del monte si sono chinate verso valori più prosaici e provinciali, subendo un processo di riduzione simbolica che non rende merito alla storia e alla bellezza del Monviso. Verrà il tempo del riscatto. Forse è già cominciato. Sì.
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