Il rapporto tra scuola e territorio alpino, dunque tra educazione e montagna, può essere letto almeno in due sensi.
La visione classica, territoriale, si preoccupa di identificare le scuole (o la carenza di scuole) presenti nelle vallate, dove i giovani montanari imparano molte materie comuni ai coetanei di pianura, e alcuni saperi più specifici della cultura e dell’ambiente alpino, fondati sulla memoria e sulla tradizione. Evidentemente ai tempi di internet diventa sempre più necessario padroneggiare le due culture, locale e globale, come ha scritto il compianto geografo Eugenio Turri:
“Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia”.
Ecco un punto fondamentale: una cultura sola non basta più.
Ma esiste anche un’altra visione, speculare e “inversa” alla precedente, che prende in considerazione il valore educativo e pedagico della montagna in sé, o almeno i paradigmi condivisi di tale “insegnamento” nel tempo recente. Spesso si tratta di valori paradossalmente più diffusi in pianura che in montagna, perché – come spesso accade – la distanza aiuta a distinguere meglio i caratteri e le virtù, talvolta idealizzandoli. In altre parole, specie nei decenni passati, era più facile per i “precettori” di panura e di città individuare le qualità e le funzioni educative della montagna (dove il concetto di limite – solitamente – si identificava con il valore stesso) che per i montanari “educarsi” alle proprie virtù. Non che i montanari ne ignorassero l’esistenza, questo no, ma per loro erano, e probabilmente sono tuttora (almeno là dove sopravvivono alla monocultura della società consumistica), delle eredità “naturali”, “ereditarie”, date quasi per scontate.
La testimonianza più illuminante sull’educazione alpina impartita in seno alla colta borghesia piemontese del Novecento, misurata e austera ai limiti dell’inafferrabilità, si trova nelle prime pagine del Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Attraverso la “medicina” della montagna, il padre di famiglia impartisce ai figli lezioni di vita:
“Non era consentito, nelle gite in montagna, né cognac né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva (il padre, ndr), “roba da negri”; e non era consentito fermarsi negli châlet, essendo una negritura. Una negritura era anche ripararsi la testa dal sole con un fazzoletto o con un cappelluccio di paglia, o difendersi dalla pioggia con cappucci impermeabili, o annodarsi al collo sciarpette: protezioni care a mia madre, che lei cercava, al mattino quando si partiva in gita, di insinuare nel sacco da montagna, per noi e per sé; e che mio padre, al trovarsele tra le mani, buttava via incollerito.
Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia “i negri” che andavan su leggeri in scarpette da tennis, o sedevano a mangiar la panna ai tavolini degli châlet. Mia madre, il far gite in montagna lo chiamava “il divertimento che dà il diavolo ai suoi figli””.
Altra testimonianza famosa e geograficamente conforme è quella di Massimo Mila nel “Capitolo primo e ultimo di un’autobiografia alpina”. Per il piccolo Mila si tratta di un’iniziazione materna:
“La persona che mi avviò alla montagna fu quella che più tardi avrebbe dato qualunque cosa per allontanarmene, cioè mia madre. Era giovane e robusta, nel 1920, quando una mattina sì e una no, durante la villeggiatura alpina a Coazze, mi tirava giù dal letto di buon’ora e dopo avermi somministrato il caffè-latte con l’uovo sbattuto mi guidava in lunghe galoppate mattutine su per i bricchi della Val Sangone… Mia mamma mi avviava alla montagna convinta del suo valore terapeutico per un adolescente magrolino e troppo studioso qual ero, ma nello stesso tempo me la somministrava con prudenziale gradualità: io ero ’l cit, il bambino, e non dovevo mica pretendere degli scarponi forieri di imprudenze…”.
Naturalmente la piccola Ginzburg evitò per sempre la montagna, mentre il piccolo Mila se ne innamorò e divenne alpinista.
Speculare negli esiti, ma simile nei contenuti, l’educazione alpina dei giovani rampolli di certa borghesia subalpina era fondata su alcuni valori irrinunciabili, nati e cresciuti in contrapposizione alla retorica fascista, ben sintetizzati da queste parole di Vittorio Foa:
“Esiste un’altra retorica, forse più sottile: una sorta di retorica dell’antiretorica, per cui la montagna diventa elemento distintivo di gente che si considera diversa dagli altri perché non cerca né la mondanità né l’esibizione, né la valorizzazione del sublime o della forza… Se ripenso alla villeggiatura della media borghesia torinese – professionisti, ingegneri, avvocati, professori d’università, insegnanti –, con un certo grado di cultura e di solidarietà fra loro, e di ricerca di gusto comune, tutto questo mi sembra presente”. La loro montagna era incompatibile con il fascismo soprattutto per una ragione di stile: perché era fondata su un rapporto non aggressivo con la natura.
Ora, c’è da chiedersi, se la gente di città – dopo un lungo processo di elaborazione passato per l’antifascismo e la Resistenza, momento in cui le montagne si identificarono con la libertà, e purtroppo annacquatosi al tempo del turismo di massa – attribuì tali valori alle Alpi, eleggendole a luogo di educazione per eccellenza, perché le Alpi non dovrebbero essere scuola anche per i propri figli? Oppure, parafrasando, perché le scuole delle Alpi non dovrebbero essere centri educativi di primo piano, anche rispetto alle ben più dotate (economicamente) scuole di città?
La risposta di oggi è molto semplice, purtroppo. Perché scarseggiando i montanari (specie giovani e giovanissimi) in montagna mancano i servizi, scuole comprese, e la politica del mondo globalizzato e globalizzatore insiste nell’orientare i flussi delle merci e delle persone verso i grandi centri urbani, indebolendo progressivamente le periferie. Anche le scuole di montagna (come le poste, i presidi medici, eccetera) ne fanno le spese, con una sempre più debole salita dei docenti verso le terre alte e, al contrario, un’emorragia di scolari e studenti verso le scuole di bassa valle o di pianura.
Certamente non è sempre stato così. Al contrario. Come suggerisce l’antropologo Pier Paolo Viazzo, bisogna fugare i pregiudizi storici circa l’“acculturamento” delle città in opposizione alla miseria (anche culturale) della montagna. Il pregiudizio riguarda la presunta, rigida separazione tra cultura montanara e cittadina, la divaricazione forzata tra alto e basso, la contrapposizione ideologica tra arcaicità e modernità. Nel nobile e affannoso intento di preservare l’agiografia alpestre da ogni contaminazione urbana, molti etnografi del Novecento si sono dimenticati di raccontare i continui rapporti tra il monte e il piano, le feconde emigrazioni dei valligiani verso le botteghe e i mestieri di pianura, le ricadute artistiche e culturali sulla montagna, e viceversa.
Per fortuna, nell’ultimo ventennio del Novecento alcuni antropologi hanno denunciato l’inganno e Viazzo, in particolare, ha dimostrato che “il fiorire di artisti e architetti in un piccolo villaggio d’alta montagna come Alagna e in tante altre valli alpine – dal Ticino alla Mesolcina, dal Vorarlberg al Cadore – smentisce nel migliore dei modi l’idea che le montagne “scoraggiassero il germogliare del genio”… Particolarmente degno di nota è il fatto che in tutto l’arco alpino fossero numerose le valli i cui abitanti emigravano stagionalmente per esercitare la professione di maestro di scuola e insegnare a leggere e a scrivere alle masse analfabete delle pianure”.
La crisi attuale delle scuole di montagna non è dunque un problema geografico, ma una questione culturale. Nella cultura italiana in generale, e in quella scolastica in particolare, manca quasi completamente l’idea che l’Italia è un paese fatto soprattutto di montagne. Ci consideriamo ancora un popolo di santi e navigatori, anche se non è vero. Per qualche oscura ragione la montagna continua a essere abbinata al mondo del passato, al territorio della nostalgia, anche se la città è salita in montagna in moltissime vallate, con gli effetti più o meno devastanti che abbiamo sotto gli occhi. La “cultura alpina” probabilmente non eiste più, ma c’è sicuramente una cultura del territorio che viene recepita ancora come sottomessa e perdente rispetto a quella della città. Allora sembra di sentir parlare di un “mondo perduto” come nelle riserve indiane, e non di una possibilità di elaborazione intellettuale, economica e sociale alternativa a quella consumistica delle pianure.
La montagna può ancora diventare “maestra di vita” se riesce a veicolare valori oggi impopolari come la sobrietà, la lentezza, la “naturalità”, la liberazione dall’automobile, eccetera. Sono convinto che tali prospettive abbiano un grande futuro, proprio per le nuove generazioni, ma è molto difficile trovare il modo di proporle ai giovani senza passare per conservatori e retrogadi. Probabilmente è soprattutto un problema di linguaggio: se, accantonando ogni approccio moralistico, si riuscisse a girarle in positivo (non vettori di povertà, ma di ricchezza) il gioco sarebbe fatto. Eppure è ancora un tentativo molto arduo, perché i ragazzi sono bombardati quotidianamente da valori (o disvalori) contrari, anche se – mi pare – la scuola fa molti sforzi per passare messaggi positivi. Ci vuole del tempo, bisogna insistere e avere fiducia nella capacità visionaria di chi non è ancora inserito nei processi produttivi e che spesso – per la verità – sembra più conformista delle generazioni che lo hanno preceduto.
Certo è difficile proporre la crisi delle Alpi a chi non ne ha vissuto, almeno di striscio, la passata ricchezza culturale. È un po’ come spiegare che una volta si viveva di polenta a chi oggi ha fin troppo da mangiare. Però si può prendere spunto dalla crisi dell’attuale modello di sviluppo, che i ragazzi hanno tutti i giorni sotto gli occhi. Si può insegnare loro che il nostro pianeta dispone di risorse limitate, che gli errori di oggi possono compromettere per sempre la vita di domani, che il “tutto e subito” arricchisce forse la mia generazione ma impoverisce tutte quelle che verranno dopo. Le Alpi sono un laboratorio esemplare del “limite”, con fenomeni simbolici come lo scioglimento dei ghiacciai, l’impossibilità di un’agricoltura intensiva, le contraddizioni del turismo di massa che cannibalizza la risorsa stessa da cui trae sostentamento: la qualità ambientale.
Sulle Alpi è tutto più chiaro: anche gli errori.
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