Il Monviso (“Viso” per i piemontesi; quelli di Saluzzo dicono semplicemente “andare a Viso”) dimostra in modo lampante e inquietante che le montagne più belle non sono il risultato di un accumulo, ma di una sottrazione. L’inconfondibile triangolo di rocce che domina le pianure di Torino, Saluzzo e Cuneo, incendiandosi al primo sole quando gli operai entrano in fabbrica e i contadini si avviano nei campi, e appassendo di luce sul far della sera, non è il risultato di una costruzione ma di una distruzione geologica. Come qualunque altra scultura progettata dalla natura o dall’uomo, la mole geometrica del Monviso deriva da una lenta e inesorabile opera di spoliazione della materia, di cui, a opera compiuta, noi vediamo soltanto ciò che resta e non quanto c’era prima.
Per farsi un’idea di ciò che imprigionò la magica piramide che affascinò gli antichi Romani, e sicuramente anche i popoli che li precedettero, bisognerebbe essere capaci di dare un corpo e una dimensione ai milioni di tonnellate di detriti che il tempo e gli agenti atmosferici hanno gettato ai piedi del Re di pietra, formando le pietraie più grandi delle Alpi Cozie e riducendo non solo il re, ma l’intera corte del Monviso, a una sterminata distesa di rocce dalle infinite forme e tonalità. In altre parole il Monviso si alza dal cimitero delle sue stesse membra, rocce della sua roccia, carni della sua carne. La frana che nel 1989 ha portato improvvisamente a valle il ghiacciaio pensile del Coolidge, insieme a camion di terra e di detriti, non è altro che l’ultima spettacolare manifestazione del millenario (ma è un modo di dire: mille anni non sono nulla nella storia di una montagna) processo di erosione e spoliazione del corpo originario.
Eppure il disegno erosivo ha voluto che, per sottrazione, venisse fuori la cima perfetta, l’archetipo stesso della montagna. Specialmente se osservato da nord il Monviso si presenta come un triangolo isoscele dalle forme regolari e simmetriche, striato dalla neve e dal ghiaccio fino a tarda estate, con le creste est e ovest che convergono a freccia verso il vertice della piramide. E soprattutto il Monviso si presenta isolato, sovrano unico e indiscusso nell’interminabile arco di montagne che va dalle Liguri alle Graie. Nemmeno la vela bianca del Rocciamelone riesce incrinarne la supremazia, perché contornata da cime che si fanno via via più alte e uniformi. I cinquecento metri di dislivello che separano il Monviso dal vicino Visolotto, montagna esteticamente notevole e alpinisticamente più difficile, diventano una distanza incolmabile sul piano della prospettiva perché il Visolotto è allineato con la restante cresta di confine, mentre il Viso svetta da ogni parte, avvicinandosi alla soglia dei quattromila metri. E certamente, ai suoi tempi, è stato un quattromila.
Alla vocazione di montagna sacra, nelle valenze estetiche e simboliche, concorre il fatto che il Monviso sembra sollevarsi direttamente dalla pianura ed è visibile da ogni dove: dal Monregalese e dalle Alpi Liguri, dal Cuneese e dalle Marittime, dalle coste delle Langhe, ovviamente dalla piana di Saluzzo – dov’è una presenza più che familiare –, dal Pinerolese e dalle sue montagne, da Torino e dalla collina, dal Canavese e dalla Serra di Ivrea, l’ultimo balcone proiettato a sud verso il triangolo ipnotico.
Inoltre dal Monviso nascono le acque del Po, il grande fiume che irriga le pianure e disseta le città, attribuendo al monte doti e miti di fertilità. Basta richiamare alla mente la classica fotografia dal ponte di Casalgrasso: il Po che scende placido in mezzo alle campagne e sullo sfondo, perfettamente inquadrata tra fiume alberi e cielo, l’affettuosa presenza del Viso. Non è la classica montagna matrigna e crudele che sbarra l’orizzonte, rovesciando a valle ghiacci e devastazione. È piuttosto la montagna madre che protegge e dà la vita.
Due valli si infilano a sud e a nord del Monviso. Sono una l’opposto dell’altra. Lunga e dolce la Val Varaita, priva di strette profonde, esentata dagli sbalzi improvvisi, un unico verde solco punteggiato di villaggi e allietato, in alto sopra Casteldelfino, dalla profumata distesa dell’Alevé, il più gran bosco di pini cembri delle Alpi occidentali. Breve e arcigna la Valle Po, stretta e scarsamente abitata, una successione di tornanti senza respiro che da Paesana salgono ai duemila metri del Pian del Re, tra forre di gneiss e cascate, ripidi pascoli e alpeggi tenacemente aggrappati alle rocce. Ma per contrappeso del destino, dopo una fugace apparizione da Venasca e dintorni, la Val Varaita nasconde il Monviso e le cime più alte, mentre la Valle Po le mostra in tutta la loro verticalità e bellezza, dai versanti est e nord, con la processione di pareti (dorate dal sole del mattino) che si allarga dal Viso Mozzo al Monviso al Visolotto, e poi ancora, per chilometri, attraverso la cresta di Punta Gastaldi, Punta Roma, Punta Udine, Punta Venezia, fino al Colle delle Traversette (il più antico traforo alpino) e al Monte Granero, sullo spartiacque con la Val Pellice. In alta Valle Po esistono anche due balconi nascosti da cui è possibile guardare senza essere visti: a sinistra il balcone di Oncino, da dove partivano gli antichi salitori del Monviso, a destra il balcone di Ostana, il più bel panorama della montagna.
Il Colle dell’Agnello, recentemente salito agli onori della cronaca grazie ad alcuni passaggi del Giro d’Italia, mette in comunicazione la Val Varaita con il Queyras, in terra francese. Il paesaggio cambia di nuovo: più aperto e modellato, boschi alternati a pascoli e terre coltivate, un saggio uso del territorio, morbido turismo per ridare vita senza uccidere la montagna, rocce chiare e cieli intensi che anticipano i colori della Provenza. Il Monviso è più una promessa che una presenza: campeggia sulle carte e sui depliant, ma per vederlo davvero bisogna salire ad Abries e Ristolas, e infilarsi fiduciosi lungo il solco del Guil. Solo in alto nella valle, sulla via del rifugio Ballif, il Viso si mostra con una delle prospettive più emozionanti: le placconate compatte della parete ovest rigate dalle frane e dalle valanghe; sulla destra il poderoso Dado di Vallanta. Si consiglia la visita nel pomeriggio, pazientando fino all’ultimo sole.
Un tempo le valli intorno al Monviso appartenevano alla Repubblica degli Escartons. Stesse leggi, stessi interessi, stessa autonomia, stesse speranze, una lunga età dell’oro della civiltà alpina bruscamente interrotta nel 1713 dal Trattato di Utrecht e dalla centralizzazione del potere delle nazioni. Da “centro” di vita e di economia, il Monviso diventa improvvisamente la “periferia” di Stati indifferenti e ostili. Il Viso amico e protettore, cuore di comunità unite da una solidarietà indifferente alle barriere naturali, diventa artificiosa linea di confine dei grandi poteri che si appropriano da una parte e dall’altra delle creste (oggi il confine passa a ovest sulla cresta della Losetta, ma l’esito è lo stesso) di “tutte le acque che scorrono a valle”. Il centralismo burocratico degli Stati nazionali inibisce il futuro delle Alpi libere, come ha osservato oltre trent’anni fa il geografo Giuseppe Dematteis sulle pagine della Rivista della montagna (luglio 1972):
“La decadenza delle Alpi comincia nell’età moderna con la formazione di unità politiche esterne sempre più forti, che eliminano gradualmente le autonomie locali, si appropriano delle risorse e in parte le distruggono, trasformando le Alpi in teatro di operazioni belliche, riducendo prospere città come Briançon a fortezze o a centri amministrativi dipendenti da un potere politico la cui sede si allontana sempre più, per fissarsi poi a Parigi, a Vienna, a Roma, a Berlino. L’area alpina viene così spartita, secondo confini artificiosi detti poi “naturali”, che, per seguire gli spartiacque (a scopo militare) sovente tagliano in due le antiche regioni storico-culturali… Le comunità alpine vengono chiuse nel quadro “naturale” dei bacini vallivi. Nel corso di tre secoli le popolazioni si riducono così a un’economia di sussistenza, che con le sue restrizioni impedisce ogni possibilità di sviluppo, cristallizzando l’organizzazione economico-sociale e la stessa cultura alpina nei generi di vita agricolo-pastorali che oggi troppi scambiano per sopravvivenze preistoriche, mentre in realtà sono il risultato dell’involuzione e della degradazione di una civiltà un tempo fiorente”.
È questa la lontana causa del degrado novecentesco delle valli del Monviso, simbolicamente rappresentato dall’emigrazione e dallo spopolamento:
“Nelle Valli Maira, Varaita, Po – scrive Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti – le situazioni e i problemi si ripetono con una monotonia drammatica. Le comunità che si sfrangiano, le scuole che chiudono, la posta che si ferma al capoluogo, l’isolamento che cresce giorno dopo giorno. Nelle nostre valli non sono in funzione le “camere a gas”, così l’immagine del genocidio appare forse eccessiva alla folla dei “benpensanti”, dei turisti distratti, dei gerarchi dispensatori di elemosine, dei colonialisti. Ma i fatti parlano, e dicono che non c’è più spazio per gli ignoranti, per i mediocri, per le furbizie elettoralistiche. È l’ultima volta che il problema della montagna si ripresenta come scelta di civiltà”.
Parole amare degli anni Sessanta e Settanta, quando sembrava che la città, insieme ai montanari calamitati dalle grandi fabbriche, si sarebbe mangiata tutta la montagna di Cuneo e di Saluzzo, lasciandole soltanto qualche scheletro di speculazione turistica fallita e l’infinita nostalgia negli occhi dei vecchi rimasti a presidiare il deserto. Oggi la situazione è cambiata: le valli non si sono né arricchite né ripopolate, ma è la città stessa – con la crisi delle fabbriche – a ridare ruolo e speranza alla montagna. È la fine, drastica e inesorabile, del pensiero unico urbano a ridare dignità e futuro anche a quel Monviso che per cento anni ha accompagnato gli operai in fabbrica al turno dell’alba e li ha riaccompagnati a casa quando il sole cominciava a scendere verso le misteriose terre di Francia.
Pubblicazione