Atti del convegno internazionale, Università di Trento-Provincia Autonoma di Trento,Trento 2 ottobre 2004
Buongiorno a tutti. Visto che ho una formazione storica, proverò a raccontarvi velocemente come si è evoluta l’immagine della montagna, e di conseguenza la comunicazione della montagna, nel tempo. Per arrivare all’oggi un po’ preparati e non fare soltanto dei ragionamenti astratti che spesso conducono in vicoli ciechi.
La prima volta che l’alta montagna esce dal cenacolo degli alpinisti lo fa in un modo spettacolare. Il 15 marzo 1852 all’Egyptian Hall di Piccadilly va in scena il Monte Bianco per merito o per demerito, secondo l’inappellabile condanna di John Ruskin, di un certo Albert Smith, una specie di signor Rossi britannico che si è fatto un nome firmando articoli, commedie, romanzi e pantomime. Ha avuto la fortuna di scalare il Monte Bianco con le guide di Chamonix e si è scoperto geniale venditore di se stesso. Di ritorno dalla ascensione Smith allestisce un diorama destinato a raggiungere le 2000 repliche, a fargli guadagnare più di 30.000 sterline e a portare nelle sale inglesi le orride meraviglie dell’alta montagna, gli esotici splendori dei ghiacciai e delle cime, gli esclusivi brividi delle Alpi. In 2000 appuntamenti gremiti di folle curiose ed entusiaste Smith conquista la piccola e media borghesia vittoriana che non può permettersi di seguirlo se non in poltrona perché teme i rischi e detesta le novità ma che, proprio per questo, è avida di conoscenze e di emozioni in conto terzi. La stessa eco, ma in negativo, giunge dal Cervino 13 anni dopo, a metà luglio del 1865. Non per la sensazionale vittoria di Edward Whymper sul più nobile scoglio d’Europa, ma per la tragica caduta che coinvolge 3 alpinisti inglesi e la guida Croz durante la discesa. Non ci vuole molto perché le meravigliose sensazioni destate dalle immacolate nevi di Smith si trasformino in sentimenti di orrore e condanna verso l’insensata pratica dell’alpinismo. “Il reverendo Hudson aveva duramente scalato un nuovo Pisgah. Si stendeva davanti a lui un paese di bellezza. Egli contemplava questa Canaan di terra come l’immagine bella ma imperfetta di una regione celeste. Non sapendo che la sua opera in questo deserto era compiuta, che il suo pellegrinaggio terreno volgeva rapidamente al termine iniziò la discesa. Un attimo trascorse e vennero gli angeli che lo portarono in quella Canaan della sua speranza, il paradiso di Dio”. In un balletto di moralismo e ipocrisia Whymper viene accusato perfino di aver tagliato la corda per salvarsi la vita. Lo processano come un malfattore. Alla fine il disegnatore inglese ne esce riabilitato, ma non è più l’uomo di prima. E’ diventato una star dell’avventura. Ma la sua stella divide la luce della celebrità con l’ombra della morte.
Albert Smith e Edward Whymper: due inglesi di successo, due alpinisti agli antipodi. La fama di Smith è come una schiuma destinata a scomparire; quella di Whymper porta il carattere dell’archetipo immortale. Anche se l’alpinismo ha mosso appena i suoi primi passi e il turismo alpino si può dire in fasce è comunque già chiaro un fatto: non saranno l’ironia di Smith, o l’umorismo di Daudet e del suo Tartarino di Tarascona a durare nel tempo, costruendo d’immagine della montagna nella fantasia del pubblico. Dal Cervino di Whymper all’Everest di Krakauer sarà la tragedia il più grande detonatore di curiosità e emozioni per chi vive lontano dalla verticale. Campioni o morti in prima pagina. Meglio morti che campioni.
Eppure il grande incontro tra montagna e pianura deve ancora arrivare. Fino alla primavera del 1915 le Alpi sono un mondo quasi incontaminato, attraversato dai cacciatori di camosci, dalle guide e da pochi aristocratici che annotano sul loro taccuini: “Sulla sommità del mondo riposa meglio l’uomo che ha faticato per raggiungerla”.
Poi scende l’apocalisse. Dopo due anni di guerra niente è più come prima. Osserva lo storico Diego Leoni: “La guerra dolomitica fu l’estensione al massimo grado dell’alpinismo, dei processi di interazione tra l’uomo e l’ambiente e di riempimento da parte della civiltà urbana del vuoto della montagna”. Da questo punto di vista la guerra rappresentò il pieno assoluto.
Il soldato alpino arrivò dove l’alpinista non era mai arrivato, usando chiodi, scale, scavando nella roccia, distanziandosi per mesi e anni. Non solitario conquistatore ma membro di una tribù che vantava decine di migliaia di appartenenti.
La Grande Guerra scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura. Nel bene e nel male, più nel male che nel bene, la guerra porta il popolo sulle montagne e gli fa scoprire un mondo ignoto, una frontiera collettiva inesplorata nel cuore dell’Europa contadina e industriale. I valori di eroismo e virilità, collegati al sacrificio degli alpini e ai simboli retorici dei fiaschi di vino e del vecchio scarpone sono destinati a guadagnarsi un ruolo forte e duraturo nel ‘900 offuscando le reminescenze romantiche dell’alpinismo delle origini. E’ il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse che abilmente pilotate dai regimi riprenderanno la strada della montagna in tempo di pace con i treni della neve e le prime associazioni escursionistiche popolari. La guerra consacra lo stereotipo della montagna tragica e austera su cui il fascismo farà presa per cantare le gesta eroiche degli alpinisti campioni della patria. Uno stereotipo durissimo a morire. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato così tanto tempo a sbiadire e a perdere consenso, anche se si tratta di una memoria di violenza e di morte, anche se è il ricordo di un inutile sacrifico e di una feroce carneficina che lasciò sulla terra una generazione di ragazzi innocenti.
Se a questo si aggiunge la tradizione rigidamente maschile e maschilista della montagna si ha un quadro di quanto la guerra e la retorica alpina abbiano condizionato il secolo breve.
Mentre il mare suscitava onde di piacere e venti di trasgressione la montagna si caricava soltanto fardelli di fatica e di sofferenza purificatrice. Su questi ingredienti, per circa 50 anni, i registi, gli scrittori e i giornalisti hanno costruito la rappresentazione della montagna. Il romanzo di alpinismo più fortunato della storia “Premiere de cordée” racconta di una giovane guida colpita nel fisico e negli affetti – il padre è morto a causa di un fulmine – che riconquista la propria dignità attraverso un lento e doloroso processo di purificazione alpinistica. Il più riuscito lungometraggio di montagna “Cinque giorni un’estate” di Fred Zinnemann racconta un drammatico triangolo amoroso tra una bella cittadina, lo zio alpinista e l’immancabile guida alpina. Il sacrificio della guida redimerò la relazione incestuosa.
Nell’estate del 1954 gli italiani scalano il K2, la seconda vetta della terra. Paolo Monelli commenta così sulla stampa: “Per quel tricolore legato al manico di una piccozza piantata sulla più alta vetta del mondo che fosse tutt’ora inviolata oggi noi italiani andiamo per via come ci fossimo messi un fiore all’occhiello, con passo più alacre, con cuore più lieve”. Il 68, o meglio gli anni ’70, cambiano molte cose nell’alpinismo, ma chissà quanto si percepisce fuori dal ghetto? Sulle pareti di granito baciate dal sole e folgorate da lampi psichedelici gli alpinisti del nuovo mattino cercano il loro altrove, l’oriente, Shangri-La. Rifiutano gli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, il mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, gli abiti grigi della festa e provano a sostituirvi vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altipiani, giovani voci di donne, iniziazione dai nomi dolcissimi: Itaca nel sole, Luna nascente, L’alba del nirvana. Il messaggio comincia a passare quando Reinhold Messner, il migliore comunicatore della storia dell’alpinismo, confessa che in cima agli 8000 lui non fa sventolare nessuna bandiera. Solo il suo foulard strappato dal vento. Nei palasport affollati come per i concerti rock la gente comincia a cogliere che la montagna è unita al resto del mondo, che l’eroe dell’Himalaya non è un montanaro che parla un linguaggio cifrato, ma un ragazzo dai capelli lunghi e dalle tante contraddizioni, un giovane come tanti solo più testardo e ambizioso degli altri. Messner indossa volutamente giacche eleganti, parla disinvoltamente di se stesso e del suo tempo, frequenta la televisione e lo star system per essere più visibile. Non vuole restare confinato nei recinti della comunità alpinistica. Odia i confini e gli steccati. Combatte i moralismi. Cerca il contatto con chiunque abbia voglia di ascoltare le sue storie, anche a rischio di non essere capito. Uscendo dal ghetto aiuta l’alpinismo a liberarsi da molti pregiudizi.
Ma la montagna vera resta un’altra cosa: un mondo contadino che non fa notizia né spettacolo. Lo scrittore Nuto Revelli lo definisce il “mondo dei vinti” denunciando con una accurata raccolta di testimonianze sul campo il collasso antropologico di cui sono state vittime le montagne cuneesi, e non solo, negli anni del boom industriale: valli svuotate, paesi lasciati in mano agli ultimi vecchi. Il giornalista Aldo Gorfer e il fotografo Flavio Faganello, con un contributo di inchieste che non ha paragoni nella pubblicistica alpina, fanno luce sulla mutevole realtà delle valli trentine e sudtirolesi, dove forse non si vive in modo altrettanto drammatico il fenomeno dello spopolamento, ma si assiste al lento e inesorabile disgregarsi della cultura tradizionale soppiantata dai modelli urbani. Incalzata dal turismo, dallo sci e dalle seconde case la millenaria civiltà delle Alpi muore nell’indifferenza generale.
Lo sci, sport mondano ed elegante, pensiero cittadino esportato in quota, avvolge con una patina dorata sia la montagna dei montanari che quella degli alpinisti riflettendo l’immagine irreale ma economicamente concretissima di una montagna ricca, gaudente, consumista, urbanizzata, dove solitudine e fatica sono soltanto un ricordo. Lo sci buca il video e conquista i giornali, porta i cittadini sempre più in alto, anche se è la contraffazione pubblicitaria di un mondo, non la sua rappresentazione.
Per almeno 20 anni del secolo scorso, dai ‘60 agli ’80, l’immaginario collettivo identifica la montagna con il mercato della neve sognando dietro le mezze parole di Gustavo Thöni e i cappelli americani di Rolly Marchi e dei suoi campioni bambini. Poi anche quel modello sbiadisce. Gli inverni senza neve, la pesante omologazione dello sci sulle autostrade di neve programmata, l’evidente contraddizione dei santuari dello ski total – vivi d’inverno, cimiteri d’estate – spostano l’attenzione verso l’unica effettiva ricchezza della montagna: l’ambiente. Si scopre che le Alpi sono il giardino e la cintura verde dell’Europa, ma anche il corridoio dei Tir e dei più costosi transiti internazionali in termini di inquinamento e vite umane. A un tratto ci si accorge che le Alpi, queste meraviglie della natura, sono ormai imbrigliate da 12 mila chilometri di impianti a fune e attraversate da 4 mila chilometri di autostrade. Ci vivono 13 milioni di persone in precario equilibrio accanto a un esercito di oltre 100 milioni di turisti stagionali. Queste riflessioni, oltre a condizionare le scelte degli enti pubblici e delle amministrazioni locali, cominciano a fare breccia anche nelle aspettative del pubblico, nella sua idea di montagna: un territorio simbolicamente incontaminato e culturalmente autonomo, dove si possono vivere esperienze ed emozioni autentiche. Si inizia a parlare di un turismo responsabile che consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni luogo, che si arricchisce nello scambio di culture esogene ed endogene, che si salva attraverso un graduale e morbido inserimento del turista nella realtà locale rispettandone i tempi, i ritmi, gli usi, la dignità. Il contrario del turismo di massa che piallando ogni sfumatura trasforma la montagna in uno sterile surrogato della città e ne annulla ogni valore, anche economico. Questa è l’idea che sta alla base dei più evoluti modelli di sviluppo alpino, che di solito incrociano il turismo con l’agricoltura e altre attività tradizionali. Un turismo senza contenuti culturali e pregi ambientali è un turismo perdente, così come agricoltura e allevamento non sono in grado di garantire da soli la sopravvivenza delle popolazioni.
Ma è proprio in rapporto a questi modelli che verifichiamo ancora l’inadeguatezza, prima di tutto culturale, di coloro che attraverso il marketing dovrebbero vendere le Alpi ai cittadini. Più che vendere spesso svendono il territorio proponendo sempre quegli stereotipi urbani che anche sotto i più nobili cappelli della natura e della sostenibilità fanno della montagna un mondo ancillare, sottomesso, privo di futuro.
Ho selezionato una decina di immagini, che sono pubblicità, proprio per vedere questa evoluzione e per cercare di suffragare l’idea che in questo dibattito prevale ancora l’altra visione, purtroppo. Io sono perfettamente d’accordo con Giorgio Daidola. Però il dibattito procede, per fortuna. Ci sono delle isole, dei laboratori molto evoluti in questo senso. Il laboratorio meno evoluto mi sembra quello della pubbliciltà, quello del marketing. Nel senso che spesso c’é proprio una contraddizione tra quello che noi cerchiamo di comunicare a livello di studiosi, di esperti, ma anche al livello degli operatori più illuminati e aggiornati, e quello che esce sui giornali, in televisione e che quindi diventa, anzi resta, la comunicazione della montagna. Perché poi la gente non viene qui. La gente guarda il giornale, guarda la televisione ed è ovvio che si faccia questa idea.
Ho preso qualche campione: qui abbiamo una immagine classica di cosa era la montagna all’inizio del secolo. Questa è Gressoney e abbiamo tutti gli stereotipi romantici: la signorina vestita con il costume tradizionale, la stella alpina, l’albergo Belle Epoque, i ghiacciai sullo sfondo, l’aquila del Club Alpino, il camoscio, più morto che vivo, che rappresenta un pò il cacciatore che sta bene insieme all’alpinista. Poi le montagne con l’onnipresente Cervino che era il riferimento dell’epoca, più del Monte Rosa. Partiamo quindi da inizio secolo. Poi facciamo subito un salto veloce negli anni del fascismo dove ritroviamo quello stereotipo che io, nella relazione, individuavo nello stereotipo eroico. Vediamo una montagna per soli uomini.
La guida in questo caso: se gli mettiamo un cappello da alpino, è la stessa cosa. E’ cioè quel signore, maschio e virile, che conquista le cime e che, in questo caso in tempo di pace, è poi capace di portare le persone in montagna con sicurezza e con una certa austerità. Non ci si lascia mai andare in montagna, almeno fino a un certo punto. Poi vedremo. Qui siamo ancora in un momento di rigida applicazione del modello eroico nato dalla Grande Guerra.
Tutto cambia quando arriva lo sci, che in realtà non è lo sci per se stesso, ma l’industria che gli sta dietro. Non bisogna demonizzare lo sci. L’arrivo dello sci è un arrivo in sordina tra le due guerre e poi massiccio nel secondo dopoguerra. Lo sci è quel cavallo di Troia che porta in montagna la città. E’ quell’elemento più simbolico che altro che rovescia l’immagine tradizionale della montagna, che era immagine romantica ed eroica, e introduce un’immagine sostanzialmente urbana. Infatti in questo bel manifesto degli anni 50 di Cervinia, che è una delle prime grandi stazioni di ski total, abbiamo le case che sono molto urbane, abbiamo la tecnologia che avanza, abbiamo il Cervino e poi questa signora discinta che è un’altra immagine urbana. Voi non vedrete mai una signorina così nell’epoca romantica. Anzi, le vedrete sempre molto vestite. Così come nell’epoca eroica vedrete sempre maschi. Con lo sci, invece, arriva la signorina. Questo cosa vuol dire? Che arriva una visione della montagna che non è una visione alpina, ma è una visione urbana. Per cui questa immagine naturalmente non è rivolta ai montanari, ma è rivolta ai cittadini ai quali si dice sostanzialmente che in montagna troveranno la città che conoscono. In più però troveranno la neve del Cervino e tante meraviglie. Il concetto è quello, cioè la città esportata in quota. Di queste rappresentazioni ne troviamo parecchie. Io ne ho presa qualcuna che mi piace. Per esempio questa della Valle di Susa dove abbiamo un incrocio di località tutte sciistiche che è rappresentato, a parte lo sciatore che rende evidente che si parla di sci, da un incrocio stradale. E’ di nuovo una proiezione urbana che dice “tu cittadino puoi andare a sciare con la tua automobile e non avrai nessuna sorpresa. Siccome ti sai muovere bene nelle vie di Milano o di Torino o di Venezia ti saprai muovere nelle montagne della Valle di Susa dove oggi si può sciare”. Questo accadeva sempre intorno agli anni 50, che sono gli anni fondamentali in cui lo sci diventa messaggio di massa. Fa eccezione qualcosa. In questo caso abbiamo Cogne. E’ molto interessante perché Cogne è un luogo speciale, ancora oggi. E’ un posto dove si sono riuscite a fondere per un miracolo della storia e delle circostanze la tradizione locale con la cultura ambientalista tipicamente cittadina, ma illuminata, che ha creato il parco del Gran Paradiso. Non parlo di un turismo marginale. Parlo di un turismo di altissimo livello. A Cogne ci sono i migliori alberghi della Valle d’Aosta e quindi delle Alpi. A Cogne ci sono le infrastrutture migliori, ma ben inserite nell’ambiente, nel parco e ben inserite anche con la tradizione, la cultura locale. Oggi di Cogne si parla solo per il “giallo” del povero bambino. In realtà Cogne è un posto meraviglioso e lo vediamo anche da questa pubblicità dove, invece di mettere l’onnipresente sciatore o l’uomo macho che scala le montagne o altre cose standard, hanno scelto lo stambecco. Ed è una scelta coraggiosa, perché lo stambecco non era un elemento di traino così forte a quel tempo. Oggi è più forte il marchio Gran Paradiso, allora era più debole. Ma già allora avevano capito che Cogne doveva caratterizzarsi con questa immagine. E secondo me hanno fatto bene. Infatti oggi anche il ritorno economico lo conferma.
Vediamo poi altre caratterizzazioni del messaggio montagna, più generiche. “Il carciofo è salute”: vi ricordate Calindri in mezzo all’incrocio di Milano, di Roma con le macchine e lui si beveva il suo carciofo perché il carciofo gli dava la sopravvivenza eterna? Lo stesso avviene in montagna, perché la montagna è un luogo incontaminato e puro. Il messaggio quindi è “montagna – luogo di salute”. E’ abbinato però a quell’alpinista lì che non è più quel macho del fascismo. E’ ingentilito, è più carino ma è sempre l’uomo che sa il fatto suo e che quindi oltre a essere sano è anche uno che si muove bene.
Qui abbiamo un altro messaggio, che è quello dell’amaro pincopallino che ti dice “quando vuole un amaro non si ferma al primo che incontra”. Il messaggio vuol dire che la montagna è per gente che non si accontenta. Questo messaggio viene ripetuto in modi diversi anche in altre campagne, ad esempio campagne aziendali, dove la cordata alpinistica diventa la cordata di chi scala il mercato, di chi scala il fatturato. La montagna, quindi, diventa quel luogo dove chi è bravo, chi sa il fatto suo sale in altro e sale sopra gli altri, nel senso che fa le scelte vincenti.
Abbiamo poi la Treccani che dice, un pò più banalmente, “la conquista della parola” e quindi il Cervino è di nuovo simbolo di conquista. Qui la conquista è una conquista culturale, di ampio spettro. Il Cervino comunque resta simbolo di conquista.
Ben diverso è il Cervino di questa foto, di questa pubblicità. E’ la pubblicità della Renault italiana. Chi ha curato il libro “Cervin montagne de pub”, che è un libro utilissimo che raccoglie tutti gli usi del Cervino commerciale, dall’etichetta dell’acqua minerale al simbolo della cioccolata, sottolinea il nostro punto di vista. Questa pubblicità vuole dire che con quella macchina puoi andare fino in cima al Cervino, che per noi che vediamo anche le esigenze dell’ambiente inteso anche come luogo vissuto è un concetto assurdo. Perché Zermatt è stata proprio la prima stazione che storicamente ha fatto una scelta anti-automobile. Zermatt ha deciso che non volevano le automobili. Hanno fermato il traffico automobilistico qualche chilometro più in giù. Tutti quelli che vogliono andare a Zermatt ancora oggi vanno in treno. Invece questi hanno messo la Renault che non va a Zermatt, ma va più su. C’é quindi una contraddizione evidente tra una montagna immaginata dai pubblicitari e una montagna vissuta da chi la conosce, soprattutto da chi ci abita.
Qui ho preso una pubblicità della Valle d’Aosta con la scritta che recita “In Valle d’Aosta ci sono più di mille chilometri di piste da sci. Venite a vedere cosa c’é sotto”. E si vede la cascata che è un vecchio simbolo romantico. Questa è interessante. E’ ancora in giro adesso. E’ interessante il fatto che chi ha studiato il modo di vendere la Valle d’Aosta è partito dallo sci, naturalmente. Per cui non ti dice che in Valle d’Aosta ci sono il Monte Bianco, il Cervino, le cascate e popolazioni che vivono lì da migliaia di anni. Dice, invece, che ci sono le piste da sci. E sotto, le piste, quando la neve se ne va, voi trovate queste cose. Questo dimostra come ancora oggi il messaggio forte resti lo sci. Se si vuole veicolare qualcos’altro si usa sostanzialmente lo sci e sotto gli si infilano piano piano il barocco, le chiese, la cascata. La montagna vera è un qualcosa che viene fuori quando lo sci si ritira.
Abbiamo poi un’altra immagine che io chiamerei neoromanticismo. Qui la montagna serve a dire “Se vuoi lasciarti alle spalle tutte le sovrastrutture vieni sull’Appennino e avrai questa possibilità”. Qui si ignora totalmente quella che è la realtà appenninica. C’é il discorso che noi uomini moderni abbiamo ogni tanto bisogno di lasciare tutto e di evadere lasciando anche i vestiti. Il tuffarsi in questa natura, che è una natura indistinta. Quello che interessa è che con pochi chilometri si può scappare e si può trovare un ambiente totalmente diverso. Si vede spesso anche un ambiente incontaminato che oggi non è più così. Un altro stereotipo duro a morire è quello della wilderness: una bugia se riferita alle Alpi, agli Appennini e alle montagne nostre. Ha senso se viene riferito a certe terre distanti. Da noi la wilderness sono dei segmenti molto ridotti. Questo però non ha niente di negativo, anzi. Secondo me è più interessante la montagna trasformata dal lavoro dell’uomo, ma non è wilderness.
Qui abbiamo il bazar tipico dei saloni commerciali ma anche di tante località sciistiche. Il Salone della Montagna di Torino è uguale. Quest’anno lo hanno portato a Bardonecchia ed è rimasto uguale. Si vede, insomma, una specie di carosello dove la montagna non esiste. Esistono attività sfolgoranti e strepitose che poi in montagna non pratica nessuno. Sostanzialmente veicolano un messaggio di un mondo giovanile dove si può impazzire. Poi giustamente Giorgio Daidola ci dice che non si impazzisce per niente, perché non si può nemmeno andare fuori pista. E’ anche questa una mistificazione, che però è dura a morire perché lo sci viene ancora venduto così. Viene venduto come un’attività libera, spensierata, emozionale – riferendomi ai suoi linguaggi – quando lo sci di pista non è libero, le emozioni ci sono, ma sono emozioni controllate. C’é uno scollamento tra la realtà e l’immagine.
Proietto un’immagine che mi ha sempre molto colpito. Questa è la pubblicità della Regione Lombardia che viene declinata in varie salse. Il concetto è che loro in alto dicono “Mi sono comperato un lago”. Quella cosa in mezzo è una borsa della spesa. Lo slogan dice “Lombardia – per chi non ha tempo libero da perdere”. Questa per me è la pubblicità più emblematica di quanto sia assurdo tutto il ragionamento. A me colpisce un fatto e non voglio fare un discorso politico, perché vi assicuro che succede in una giunta di destra e in una giunta di sinistra. Però una regione come la Lombardia che è ricca sfondata, che ha 150 mila agenzia di marketing che si occupano del territorio, nel 2003 o forse nel 2002 riesce a partorire una cretinata del genere. A parte il discorso della montagna in vendita, già molto discutibile, ma sarebbe il meno. Quello che fa più impressione è questo concetto “Per chi non ha tempo libero da perdere”. Anche il tempo libero che per definizione è libero – una volta si diceva tempo perso – è diventato, e qui prevale veramente in modo esasperato la visione aziendale, un tempo che va in tutti i modi gestito e addirittura non va sprecato. Come se io, quando vado in vacanza, avessi le stesse esigenze che ho quando lavoro. Io la stessa schiavitù me la porto anche in vacanza, per cui mi limito il tempo libero e alla fine divento una specie di replicante. La mia impostazione di vita di tutti i giorni viene ribaltata e riprodotta nel tempo libero, nella vacanza. Allora ho bisogno di chi mi organizza tutto, di chi mi garantisce tutto, ho bisogno di chi mi porta a fare l’ascensione garantendomi che sia bello perché altrimenti io non pago. E non c’è da stupirsi che poi la gente la pensi così, perché quando gli si vende la montagna inb questo modo è difficile che il pubblico che non conosce la montagna maturi una visione diversa. Questa è l’immagine che ancora va per la maggiore.
In questo senso allora a me sembra che in qualche modo oggi ci sia uno scollamento clamoroso. Uno scollamento tra quello che è il pensiero di chi ragiona sulla montagna in vari modi e in varie situazioni – dal montanaro illuminato inteso come quello che si guarda intorno, che ascolta e che legge, al cittadino che in varie misure partecipa al dibattito sulle Alpi, fino ad arrivare alle massime espressioni di civiltà che sono la Convenzione delle Alpi e dove c’è già scritto tutto. Basterebbe applicarla. Non bisogna inventarsi granché. Naturalmente bisogna calarla nelle singole situazioni. Dico sempre che è questo lo sforzo da fare perché non sono ricette esportabili uguali dappertutto. C’è un dibattito evoluto sia in città sia, ormai, anche tra gli amministratori locali. Addirittura mi dicono quelli che frequentano Bruxelles che è l’esempio a cui si rifanno i politici dell’Europa quando si parla di territorio. Fanno riferimento alle Alpi perché lì siamo più avanti. Però noi ci troviamo ancora, per contrappasso, di fronte a un pensiero opposto da parte di chi vende la montagna a livello di offerta turistica. Secondo me era meglio la signorina in costume di Gressoney, che era falsa come questa ma almeno era un pò più raffinata come messaggio. Tu potevi anche sperare che questa signorina venisse a cena con te, oppure che questo camoscio tu lo potessi catturare in qualche modo, oppure che potessi scalare quella montagna che vedevi nella pubblicità. Qui non hai più neanche quella possibilità. Fa impressione questo scollamento totale tra il pensiero di chi ragiona sul destino delle Alpi e l’immagine che ne viene fornita ancora oggi.
Questo semplifica anche la comprensione di un fatto che scandalizza sempre noi che lavoriamo in questo campo: il fatto che i giornali scrivono tante cretinate sulla montagna, che la televisione dica tante cretinate, che ancora oggi per andare in prima pagina occora morire sulla montagna perché altrimenti non gliene frega niente a nessuno, che l’Anno internazionale della montagna sia passato totalmente inosservato sui grandi media. In realtà, secondo me, non c’è da scandalizzarsi perché è questa l’immagine che ancora hanno in testa. Questa è l’immagine è diretta a tutti. Non ce l’ha in testa quel povero diavolo che deve andare a farsi una vacanza sul lago. Ce l’hanno tutti. Ce l’ha il sindaco della mia città, Torino, dove si stanno preparando le Olimpiadi del 2006, dove non c’é stato verso di far capire né a lui né a tutti quelli che gli stanno intorno che le Olimpiadi potevano essere un’ottima occasione per stringere un legame nuovo tra Torino e le montagne. Cosa che mi sembra che a Trento si stia cercando di fare in qualche modo. A Torino la montagna è ancora esattamente quello che era negli anni 50: terra di conquista, terra di colonia. Noi cittadini andiamo là perché ci piace sciare, portiamo un pezzo di Torino e quando ce ne andiamo via ancora grazie se ci portiamo dietro le immondizie. Con le Olimpiadi quest’immagine e questo messaggio purtroppo non cambieranno.
Da un lato è una considerazione negativa, ma può anche essere considerata una visione positiva. Quando il pensiero è più avanti dell’immagine qualche speranza c’é. Grazie.
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