A suo modo, forse suo malgrado, il Sudtirolo ha anticipato le tensioni della nuova Europa mescolando culture diverse sotto l’ombrello di un complesso e più maturo vivere comune. La ricchezza dei flussi culturali e commerciali fa della regione un crocevia obbligato di scambi e sperimentazioni. Complessità e ibridazione sono le cifre della realtà altoatesina, soprattutto nei luoghi in cui il turismo internazionale ha portato salutari sollecitazioni senza annientare la consapevolezza e l’orgoglio di essere montanari nel cuore del vecchio continente.
Uno di questi luoghi è certamente la Val Gardena, polo turistico di primo piano e rifugio della minoranza ladina a cavallo delle Torri di Sella. È una valle fin troppo decantata per richiedere qui una descrizione, ma è anche un luogo schiacciato del marketing turistico e dallo stereotipo narrativo. Il visitatore che sale dalla pianura vede solo la facciata promozionale delle guglie dolomitiche, delle architetture ladine, dei costumi e delle sculture tradizionali, senza accorgersi che dietro la cartolina c’è un’altra Gardena – Gröden in tedesco, Gherdëina in ladino –, che è un crogiolo di idee, tensioni e sperimentazioni. Anche un luogo di confronto e scontro generazionale.
Da molto tempo nel dna locale si annidano il genio e l’imprenditorialità degli scultori del legno. La viaggiatrice inglese Amelia B. Edwards, che percorse i Monti Pallidi nel 1872 agli albori del turismo dolomitico, descrisse la Gardena come la «valle dei giocattoli». Con spirito indagatore scoprì che la popolazione valligiana, di ben 3943 anime, schierava circa duemila intagliatori, che in gran parte lavoravano sugli oggetti per l’infanzia: cavallini a dondolo, burattini, animali, pupazzi colorati. «Molti tra gli intagliatori e i pittori – certificò la Edwards – sono artisti nel senso più genuino della parola, altri sono soltanto macchine umane che fabbricano giocattoli… Un produttore ben organizzato porta a termine venti dozzine di bamboline alte un pollice e mezzo, rifinite e ben vestite, in un solo giorno… In una casa trovammo al lavoro una donna molto anziana di nome Maddalena: intagliava cani, gatti, lupi, pecore, caproni ed elefanti. Per tutta la vita aveva intagliato solo questi sei soggetti, per un totale di mille animali l’anno».
Per fortuna la tradizione evolve. Tra le iniziative recenti più interessanti e riuscite si distingue il progetto artistico Unika, nato nel 1994 dal sodalizio di un gruppo di artigiani scultori, doratori e policromatori gardenesi allo scopo di promuovere e innovare l’arte del legno, e non solo. «I lavori di Unika – dichiarano – sono l’espressione della forza creativa e del talento artistico dei maestri artigiani della valle: l’unicità di ogni lavoro è garantita dal marchio di tutela». Il gruppo comprende oltre quaranta artisti più o meno giovani, che spaziano dalla scultura religiosa all’arte contemporanea, trattando con la stessa perizia, eleganza e grazia i temi alpini tradizionali e altri temi di vastissimo respiro, che dalla montagna traggono solo il marchio d’origine. Non aspettatevi i classici soggetti gardenesi replicati al pantografo – vecchi con la pipa in mano, angeli con la tromba in bocca, madonne angelicate, gesù bambini e presepi –; ci sono anche quelli, ma sempre letti con occhi nuovi. E soprattutto ci sono tecniche e soggetti inediti, lampi creativi inaspettati, invenzioni impensabili in qualunque altra valle delle Alpi.
Uno dei più straordinari interpreti della nuova tendenza è Willy Verginer, nato a Bressanone nel 1957, un artista che trasmette curiosità e fantasia. Scultore e pittore di solida scuola, ha frequentato l’Istituto d’Arte di Ortisei e si è formato in più di un laboratorio di scultura lignea. Nei primi anni Ottanta ha frequentato gli ambienti dell’Accademia di Monaco di Baviera, aprendosi alle influenze artistiche mitteleuropee. Nel 2011 è stato protagonista nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia.
Verginer non ha pregiudizi. Usa il pallido legno di tiglio accendendolo con i colori e il pennello, ma utilizza anche oggetti non convenzionali come le gomme di automobile, per esempio. È stato uno dei primi a colorare il legno e l’ha fatto dimenticando i tenui pastelli della tradizione; Willy preferisce i colori accesi dal blu elettrico al verde brillante, dall’ocra all’arancione, e li taglia geometricamente sulle figure disegnando delle fasce policrome. Isolando i dettagli ottiene effetti astratti e visionari, in bilico tra il ritratto, la provocazione e la metafora. Prevalgono le persone, soprattutto donne e bambini, tuttavia non mancano gli animali e gli elementi naturali montani, delicatamente affiancati a grevi simboli contemporanei come lo pneumatico o il barile di petrolio. I soggetti non sono mai atemporali, ci interrogano sul nostro tempo. Willy è molto sensibile ai temi dell’inquinamento ambientale e del tramonto dell’industria, ma provoca l’osservatore con mano leggera. Le sue creazioni sono sempre umanissime e lievi, come a dirci che la poesia è pur sempre vincente sul grido sguaiato. La sua scultura è grido essa stessa, figura e colore insieme; il suo messaggio si affida a dei volti così ieratici ed espressivi da parlarci con gli occhi di legno, scuotendoci in fondo all’anima. Non ci si stanca di fissare i volti di Verginer, perché sembrano visi umani.
Anche per raccontare il male Willy ricorre al bello. Per parlarci di morte suggerisce la vita. Le sue donne mostrano fiori con le mani aperte, le bambine si librano nell’aria a piedi nudi, i ragazzi stendono le braccia al cielo, gli adulti galleggiano, i giovani si amano senza toccarsi, il capriolo bacia il bambino a terra. Per il Museo delle Alpi al Forte di Bard gli abbiamo chiesto uno scolaro in dimensioni naturali e lui ha scolpito un bambino pallido seduto su un vecchio banco di legno scuro, ispirandosi a una foto di suo figlio. Quando il pezzo di legno scolpito è arrivato in Valle d’Aosta siamo rimasti senza parole. Qualcuno ha detto «ma è vivo!» Qualcun altro gli ha accarezzato la testa. La scultura di Verginer metteva soggezione; sembrava che il fanciullo fissasse chi lo guardava. Il risultato artistico era così veritiero che – prevedemmo – i visitatori del museo si sarebbero fermati davanti al bambino e gli avrebbero parlato; forse qualcuno l’avrebbe abbracciato. Allestendo l’esposizione ci siamo talmente affezionati al piccolo Willy – lo avevamo battezzato come il suo creatore – che è stato molto difficile separarcene per affidarlo al pubblico. Ogni allestitore gli voleva bene e un rude operaio bergamasco addetto al montaggio si è preoccupato di portargli i sandali – ricordo come li teneva delicatamente nelle mani – e d’infilarli sotto il banco di scuola perché il bambino non rimanesse a piedi nudi. Ormai era un figlio.
Sono centinaia i pezzi di Verginer che colorano e addolciscono case, negozi, sale pubbliche, hall, esposizioni e musei. In ognuno di quei locali sembra ci sia una persona in più; che sia entrato un personaggio vivo, con il suo tocco di grazia, simpatia e bellezza. Art Vibes scrive che Verginer «induce lo spettatore in una magica assenza di tempo; si resta ipnotizzati a guardare questi personaggi meravigliosi, attraverso i quali l’artista riesce a coniugare la pittura e la scultura. Esseri che racchiudono un senso di fragilità, ma che esprimono al di fuori una maestosità regale e una profonda emotività». La treccia azzurra e la fascia di fiori blu sulla pancia della ragazzina accendono il mistero della giovane vita; il monte di larici sul dorso della mucca e la bocca immersa nel blu petrolio evocano l’ombra dell’avvelenamento industriale, la pennellata di colore sotto la gola del bambino innocente lo annega in un mondo di sogni o paure, i pappagallini rossi sulla proboscide dell’elefante lo sollevano come una piuma.
Il mondo di Verginer cresce insieme a lui e la sperimentazione continua con i figli di Willy, Matthias e Christian, a loro volta scultori.
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